Trilogia fantastica

Arcipelago Golgi

(Intorno all’anno 2340 dell’Era Cristiana, nel Secondo Secolo dell’Era della Pace e della Produttività)

Il fatto che la fisiologia e la chimica fisiologica possano indagare sull’uomo come organismo dal punto di vista delle scienze naturali non è una prova che l’essenza dell’uomo stia nell’«organico», cioè nel corpo, come è spiegato scientificamente.i

Martin Heidegger

L’uomo ha l’impulso ad avventurarsi contro i limiti del linguaggio. Pensate allo stupore per il fatto che qualcosa esista.ii

Ludwig Wittgenstein

Se le cose andranno bene (ma il fatto non è scontato) tutti potremo avere accesso alle stesse “tecnologie del pensiero”. In altri termini le autostrade elettroniche dovrebbero consentire una svolta formidabile nell’ambito del pensiero cosiddetto operante, vale a dire di quel pensiero che agisce sull’assetto produttivo, sulla comunicazione. Diverso resterà l’ambito del pensiero “discorrente” … Alcuni disinvolti visionari dei mondi futuri, fanatici credenti in un mondo ultra postindustriale, ipotizzano che l’uomo di domani avrà poco in comune con l’uomo di oggi. Che insomma possa fare a meno del “pensiero discorrente”. Al contrario io credo che senza il pensiero in se stesso non c’è futuro. Che la democrazia presuppone l’agire comunicativo pubblico. E che questo a sua volta presuppone il pensiero dialogico, del quale il pensiero discorrente è parte essenziale.iii

Tomás Maldonado

Prologo

Gòlgi (Camillo), medico e biologo italiano (Corteno, Brescia, 1843 – Pavia 1926). Professore di anatomia umana a Torino e a Siena, professore di istologia e infine di patologia generale a Pavia. Eseguì studi molto delicati sulle strutture nervose del cervello e del cervelletto e mise a punto un metodo di colorazione con il nitrato di cromo e d’argento che gli consentì di mettere in evidenza …

… Nel 1906 fu insignito, insieme con Ramòn y Cajal, del premio Nobel per la medicina, per gli studi sulla struttura del sistema nervoso.

Golgi (APPARATO DEL), formazione reticolare presente nel citoplasma nelle vicinanze del nucleo, rivelabile al microscopio ottico mediante la colorazione con sali d’argento. Fu descritta per la prima volta da Camillo Golgi alla fine del secolo scorso. È presente nelle cellule vegetali e animali ed è particolarmente sviluppata nelle cellule nervose.

Golgi (CELLULE DEL). Neuroni d’associazione intersensitiva che si osservano nel corpo posteriore del midollo spinale, dotate di brevi prolungamenti, che connettono i neuroni di due livelli adiacenti.

Dall’Enciclopedia Universale Rizzoli Larousse del XX secolo dell’Era Cristiana.iv

Dinastie: nome comunemente attribuito ai potenti gruppi industriali e finanziari interplanetari che, alleatisi tra di loro dopo l’inizio della Seconda Era Atomica (XXIII secolo dell’Era Cristiana, I secolo dell’Era della Pace e della Produttività), hanno dato vita alla Organizzazione Intergalattica della Pace e della Produttività, garantendo secoli di lavoro e di progresso, dopo la fine della Prima Era Atomica, ultima fase dell’Era Cristiana, susseguente alla Prima Guerra Nucleare Interplanetaria (intorno alla fine del XXII secolo dell’Era Cristiana).

VEC: Vitalità Energetica Costante, soglia minima pre programmata di impegno, attenzione ed entusiasmo che ciascun lavoratore, durante la Quota di Tempo Attivo deve dedicare alla sua occupazione. È vietato attenuarla o sospenderla senza giustificati motivi.

QTA: Quota di Tempo Attivo, porzione di tempo giornaliero da destinarsi obbligatoriamente al lavoro individuale produttivo. Non è possibile ridurla, se non per eccezionali motivi documentati all’Amministrazione Centrale.

PPI: Piano di Programmazione Individuale, pianificazione della qualità e della quantità della produzione lavorativa individuale. Non è mai possibile variarlo.

QTI: Quota di Tempo Inattivo, porzione di tempo giornaliero in cui è consentito di non svolgere attività lavorativa e produttiva obbligatoria. È suddivisa in:

  • QTID: Quota di Tempo Inattivo Diurno
  • QTIN: Quota di Tempo Inattivo Notturno

ORNADOT: Ornamento e Arredo Domestico Temporaneo, unico motivo consentito per la richiesta individuale di prestito degli antichi volumi della

BLA: Biblioteca Ludico Antiquaria.

LIMAI: Livello Magnetico Anti Intrusione, congegno fibromagnetico di sicurezza installato nei subabitativi per impedire episodi di microcriminalità domiciliare. Installazione e manutenzione sono obbligatorie e a carico dell’inquilino.

APPELCOM: Apparato Elettronico di Comunicazione, sistema di videotelefonia integrata di utilizzo domestico, con accesso domiciliare diretto e senza preavviso da parte degli Organi Periferici dell’Amministrazione Centrale.

PROPERL: Programma Personale di Riconversione Lavorativa, piano volontario individualizzato di recupero e decondizionamento dalle attività di pensiero per l’inserimento al lavoro degli ex intellettuali, dopo la Dichiarazione di Illegalità del Pensiero Libero (DIPL).

CROP: Centri di Rieducazione Occupazionale e Produttiva, campi di rieducazione extra galattici in cui viene effettuato forzosamente il Programma Obbligatorio di Riconversione Mentale (PORM).

IDA: Intervallo D’Assegnazione, sospensione parziale della QTA, dovuta alla razionalizzazione in tempo reale dei ritmi di lavoro giornaliero. Se superiore ai novanta minuti, è permesso l’abbandono temporaneo del posto di lavoro.

PISVED: Programmazioni Individuali di Successo, Viaggi & Distrazione, periodi programmati di svago e integrazione sociale, obbligatori e gratuiti ogni due annualità produttive.

MOC: Messaggi di Orientamento Commerciale, pubblicità trasmessa obbligatoriamente ventiquattrore su ventiquattro, con frequenza variabile durante il corso della giornata, attraverso tutti i mezzi di comunicazione, APPELCOM compreso.

BAR: Box di Accoglienza e Ristoro, locali pubblici di mescita disseminati lungo le intravie delle città.

PAUSE: Pillole di Acclimamento Unitario e Stabilizzazione Emotiva; AFASOL: Artificiale Fattore di Attenuazione di Solitudine; SPES: Succedaneo Polivalente di Entusiasmo e Socializzazione; alcune tra le più diffuse droghe legali ad azione equilibratrice ed ottimizzatrice delle funzioni autocritiche e telepatiche.

IRA: Intercettazioni Randomizzate; intercettazioni disposte a caso e senza autorizzazione dalla Pubblica Sorveglianza, su tutti gli apparati di comunicazione personale e domiciliare.

Sigle tratte dallo Statuto Intergalattico del Lavoro e della Produttività Generale.

La Grande Roccia Rossa

Il problema di Egon era di non riuscire a comunicare. Quando si rivolgeva agli amici e ai colleghi, anche se si fermavano per alcuni secondi e sospendevano la loro Vitalità Energetica Costante da ciò che stavano facendo per ascoltarlo e favorire l’interpretazione orale, tutte le parole che diceva erano quasi sempre mal comprese e cadevano nel vuoto di una stolida indifferenza generale. Egli stesso si chiedeva quanto le frasi che pronunciava corrispondessero al suo pensiero. Così la Quota di Tempo Attivo riservatagli dal Piano di Programmazione Individuale trascorreva ineluttabilmente, senza che riuscisse in qualche modo a viverla di persona. Aveva sempre la sensazione che, riuscito ad arrivare a una plausibile conclusione di pensiero, il resto della sua mente fosse stato nel frattempo spostato artificiosamente in un’altra direzione; così doveva ricominciare ogni volta daccapo.

Lo aiutavano però i suoi studi. Quelle che trovava sui libri dei secoli passati erano parole fissate nel tempo, favole e ricerche spirituali capaci di riempire in lui quel vuoto mentale, che gli impulsi visivi elettronici dello stereovisore di casa e dei megaschermi pubblicitari delle intravie della città creavano e mantenevano inalterato nel cervello degli altri, spossessandoli di ogni capacità individuale di comprensione e di critica. Leggendo poi i libri di storia dell’arte del lontano XX secolo dell’Era Cristiana, si era convinto che in altri tempi, quasi tutti gli esseri umani riuscivano a vedere immagini anche a occhi chiusi. Per esempio: uno tornava a casa stanco dal lavoro (a quell’epoca di regola si faceva un solo lavoro per volta e per tutta la vita), si sdraiava su un divano (fatto di legno e di stoffa veri), si accendeva una sigaretta (che erano di erbe vegetali e non sintetiche), chiudeva gli occhi e sullo schermo nero della sua mente riusciva a scorgere forme e colori, qualche volta inverosimilmente fantastici e anche in movimento. Nell’era contemporanea non era più così: per vedere qualcosa di colorato dovevi obbligatoriamente uscire per le intravie che vorticavano sopraelevate tra gli enormi agglomerati abitativi sospesi delle città, tenere gli occhi sempre aperti sui Megaschermi Esterni e muoverti in continuazione. Se rimanevi fermo a casa a goderti la tua Quota di Tempo Inattivo, era inutile chiudere gli occhi: non saresti riuscito a vedere niente, assenza completa di sensazioni. Allora eri obbligato a inserire lo stereovisore, applicarti lo stimolatore cerebrale, mettere a tutto volume l’emettitore di vibro onde e così, forse, qualcosa di indistinto saresti riuscito a vedere anche a occhi chiusi. A colori, se l’impianto era di buona qualità. Quando pensava a tutto questo non si meravigliava più di non riuscire a comunicare e si spiegava pure il perché. Forse lui era ancora uno che riusciva ad associare immagini alle parole, giocando con i loro significati.

Tutti gli altri, da chissà quanto tempo, non ne erano più capaci.

Da un po’ di tempo, inoltre, a Egon succedevano delle cose strane. Prima di tutto aveva cominciato a riflettere sulle frasi che i suoi concittadini ripetevano in continuazione, e aveva notato che quelle parole non gli suggerivano nessuna immagine. Poi, qualche volta gli capitava di vedere i suoi pensieri e le sue riflessioni colorarsi, prendere forma e animarsi. Infine, cosa più inquietante di tutte, c’erano alcune immagini sconosciute che periodicamente si affacciavano alla soglia della sua coscienza. Tutto ciò accadeva da quando aveva cominciato a leggere le copie dei libri antichi che la Biblioteca Ludico Antiquaria concedeva in affitto ai cittadini che, come lui, ne facevano richiesta per Ornamento e Arredo Domestico Temporaneo.

Tre erano le formazioni visive che apparivano ripetutamente alla sua immaginazione, sempre uguali e così spesso da rendersi conto di poterle ormai descrivere con precisione e quasi con le stesse parole, che aveva così schematizzato:

1) il Naufragio del Titanic;

2) la Grande Roccia Rossa della Notte;

3) il Grande Scudo (ma di questa parola non era sicuro) Rosso.

La prima figura all’inizio gli era sembrata indecifrabile, poi gradualmente l’aveva riconosciuta: gli richiamava alla memoria una vecchia foto su un antico libro del XX secolo, che descriveva il ritrovamento di una nave affondata molti anni prima: il Titanic. Una specie di mito per gli uomini di quell’età, i quali affidavano ancora al mare i loro spostamenti, la loro vita e le loro simbologie. Per molti, si leggeva in quel vecchio libro, il Titanic «aveva significato il riemergere, dalle oscure profondità dell’inconscio, di antiche paure e di antichi tabù».

La seconda gli aveva subito ricordato un’altra foto che aveva trovato in un grande atlante di geografia terrestre, sempre del XX secolo. Essa rappresentava la visione notturna, fotografata con mezzi eccezionali per l’epoca, di una suggestiva e gigantesca formazione geologica, illuminata da una falce di luna completamente rossa: in primo piano torreggiava un massiccio corpo roccioso anch’esso completamente rosso.

Per la terza, le cose si complicavano: nessuna forma riconoscibile era possibile scorgere in quella visione, ma ciò che lo tormentava era la sensazione che dietro la parola «scudo», che l’immagine inequivocabilmente gli suggeriva, ce ne fosse un’altra che lui non conosceva: insomma la terza figura era la più indecifrabile: ad un’immagine indefinibile, si accompagnava una parola troppo semplice che sembrava fare da paravento ad un’altra chiarificatrice, ma sepolta nell’inafferrabilità.

Ma della eccezionalità della sua propria trasformazione ancora non si era reso completamente conto, fino a quando un giorno, alla barriera elettronica del suo subabitativo, non fece richiesta di abbassamento del Livello Magnetico Anti Intrusione un’impiegata della Biblioteca.

Erano più di tre anni che accumulava libri d’antiquariato. Il termine massimo di riconsegna era di trenta giorni. Forse aveva destato qualche sospetto.

“Lei è il signor Egon Herrigel?” chiese la donna, al di là dell’invisibile ma impenetrabile elettrosoglia.

“Sí. Che c’è?” ribatté lui.

“Posso entrare? Vengo dalla sezione centrale della Biblioteca Ludico Antiquaria.”

“Oh, sí. Mi scusi un momento…” Egon abbassò del tutto il livello magnetico di protezione, e poi agitò per sicurezza la mano in mezzo alla porta. Era tutto a posto: nessuna scossa spuria. Il marchingegno aveva emesso qualche sibilo di troppo perché era fuori taratura da due mesi e aveva bisogno di una urgente manutenzione ma lui, non ricevendo quasi mai visite, rimandava il costoso intervento il più possibile. “Va bene. Adesso può entrare.” Egon guardò la donna più attentamente. L’aveva assistito spesso nelle sue ricerche in Biblioteca. Era d’aspetto tranquillo e gradevole.

“Posso sedermi, signor Herrigel?” chiese lei, quasi con dolcezza.

“Sí. Certo signorina…”

“Mi chiamo Saja. Saja Rembrandt. Sono venuta per chiederle alcune cose. Ha un po’ di tempo?”

“Oh Sacra Terra, certo che ce l’ho! È la prima volta che qualcuno mi chiede se ho tempo!”

“Beh… Vede, il fatto è che lei ha richiesto molti libri alla Biblioteca e…”

“Oh, domani glieli farò riavere tutti! Le giuro che mi ero proprio dimenticato. Poi il mio Appelcom è guasto da un po’ di mesi, così i vostri avvisi non…” si precipitò a dire Egon, mentendo sull’Apparato Elettronico di Comunicazione, che gli era stato staccato per morosità.

“No, mi ascolti. Non è per questo che sono qui” l’interruppe la donna, scuotendo i lunghi capelli corvini che risaltavano sulla carnagione bianchissima, mentre lui tirava un piccolo sospiro di sollievo. Poi lo guardò dritto negli occhi e chiese con foga:

“Ma, Egon, non si rende conto?”

“Di che cosa dovrei rendermi conto, Saja?” replicò lui, accigliandosi.

“Signor Herrigel – riprese la donna in tono più formale, – lei negli ultimi tre anni ha chiesto in affitto alla Biblioteca oltre settecento volumi, quasi venti al mese. Ma, dico, evidentemente non può aver richiesto un così gran numero di libri solo per l’arredamento domestico!” e così dicendo diede un’occhiata eloquente alla sciatto mobilio del subabitativo.

“Ma certo! Li ho anche letti.”

“Egon, mi dica come ha fatto!”

“Come, ‘come ho fatto’?”

“Signor Herrigel, sono più di due secoli che l’umanità comunica solo attraverso la diffusione capillare di immagini e segnali elettronici” disse Saja, ammutolendo per un momento. E poi aggiunse, quasi in un sussurro:

“Egon, non sa che nessuno è più capace di leggere?”

Per Herrigel, lo choc era stato forte. Saja aveva promesso di non rivelare niente e si sarebbe ripresa i volumi un po’ per volta, ma gli aveva anche detto di essere interessata alla vicenda dell’unico essere umano che, da tre anni che lavorava in Biblioteca, non si limitava a guardare le copertine dei libri più curiosi e rari, ma li leggeva pure. Così voleva a tutti i costi sapere come avesse fatto ad acquistare questa capacità. Egon aveva faticato a convincerla che lui neanche si era accorto di come fosse successo. E le aveva raccontato dei disturbi che provava ultimamente, delle parole di cui riusciva a vedere il significato, delle immagini mentali che arrivavano alla soglia della sua coscienza. Lei lo aveva ascoltato dapprima scettica, poi davanti alla incredibilità delle sue descrizioni, si era convinta che dovevano essere proprio vere.

“Egon – gli aveva detto con premura, – ho paura che lei abbia qualcosa di strano. Perché non consulta uno specialista?”

“Oh, no! Sono tutti uguali i mentalisti: ti diminuiscono la Quota di Tempo Attivo per un paio di mesi, ti danno l’autorizzazione alla sospensione per tre settimane delle Emissioni Elettroniche Domiciliari durante la Quota di Tempo Inattivo Diurno e pretendono di rimetterti a nuovo. Ma poi tutto rimane come prima.”

“Intendevo uno specialista vero” disse lei con uno strano tono di complicità nella voce.

Egon dubitava di aver interpretato male, così provò a chiedere conferma.

“Non mi dica che lei conosce uno…”

“Uno psicofilosofo. Vero. Come ce n’erano secoli addietro, prima della Dichiarazione di Illegalità.”

Nel secolo precedente, la Dichiarazione di Illegalità del Pensiero Libero, più che un atto di imperio, era stata la presa d’atto di una situazione che si era venuta a creare nel corso dei decenni, dopo che la diffusione delle video trasmissioni elettroniche e delle comunicazioni digitali globali aveva praticamente soppiantato l’elaborazione di pensiero individuale, ormai talmente lenta, marginale e poco affidabile da risultare improduttiva; così si era deciso di proibirla anche nella Quota di Tempo Inattivo. La maggior parte delle persone, comunque, certo non ne aveva sofferto: anzi aveva considerato la Dichiarazione, avvenuta dopo lo svolgimento di un regolare referendum intergalattico, come la necessaria ratifica della scomparsa di un’inutile, pesante appendice del passato che ancora mortificava le sorti del genere umano: la facoltà di pensiero individuale. Una delle conseguenze fu che vennero messe al bando definitivamente quelle poche attività intellettuali che pateticamente ancora sopravvivevano. Coloro che ancora le svolgevano, o si sottoposero spontaneamente al Programma Personale di Riconversione Lavorativa o vennero affidati alle cure meno piacevoli dei Centri di Rieducazione Occupazionale e Produttiva, dove ogni traccia di pensiero e interpretazione autonoma, compresa la semplice capacità di leggere, veniva cancellata del tutto.

“Dove l’ha scovato, uno psicofilosofo?” aveva chiesto Egon.

“Non l’ho scovato io; lui ha scovato me in Biblioteca”, aveva risposto Saja. “Mi ha detto, quando ha cominciato a fidarsi di me, che era uno dei pochi superstiti dei CROP che sapesse ancora leggere e scrivere. È molto vecchio, ma dimostra meno degli anni che ha. Mi ha chiesto che, se mi fosse capitato di incontrare uno che avesse saputo ancora immaginare cosa stesse dicendo mentre parlava e che magari avesse anche saputo leggere, avrei dovuto assolutamente farglielo incontrare. Non mi ha parlato di uno che avesse pure delle visioni, ma penso che per lui andrebbe bene lo stesso! E lei, inoltre, sembra avere un gran bisogno di parlargli. Su, ci vada.”

Detto questo Saja aveva messo in mano ad Egon una Micro Planimetria di Indirizzo, rilevabile in un qualunque stereovisore, gli aveva scoccato un rapido bacio sulla guancia e era sparita nell’imbuto dell’Ipogravitore di Discesa.

Pensieri, parole e figure

Si trovavano in un subabitativo, che i giornali cartacei di qualche secolo prima avrebbero definito «confortevole ed elegante». Tappezzeria di stoffa, antichissimi lumi elettrici alle pareti, riadattati a fibroluminescenza e costose pseudofinestre che davano sui panorami più belli del pianeta, caratterizzavano l’appartamento. Era un bel po’ di tempo che Herrigel, dopo un caloroso invito ad accomodarsi, si era seduto su una elegante poltrona e stava ad ascoltare avidamente le parole del vecchio.

Lo psicofilosofo si chiamava Sator Mandel e in realtà era stato un paleobiologo, proveniente dall’antichissima e rinomata università terrestre di Taškent. Era la prima cosa che aveva saputo dalla voce calma dell’uomo, non appena questi lo aveva fatto accomodare, dicendogli quasi a bruciapelo: “Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato. Saja Rembrandt mi aveva detto di averla rintracciata.”

In effetti, Egon non aveva aspettato molto a mettersi in cerca dello studioso. Sfruttando la sua Quota di Tempo Inattivo Notturno, rinunciando alle sue ore di riposo, aveva preso un autotaxi inserendo la micro planimetria nel cruscotto e dopo un viaggio durato una ventina di minuti, si era ritrovato davanti a un Agglomerato Residenziale di Quarto Livello.

Aveva suonato all’imponente pseudoporta, la barriera elettronica anti intrusione aveva simulato un elegante cigolio e sulla soglia era apparso un vegliardo dall’aspetto cordiale che lo aveva introdotto con gentilezza all’interno e così la reciproca conoscenza era incominciata.

Herrigel aveva spiegato come da qualche tempo sentisse la sua mente in subbuglio e Mandel era rimasto colpito soprattutto dal fatto che, con lo sviluppo della facoltà di pensare le parole da parte di Egon, fosse coinciso l’ignaro recupero della capacità di leggere e poi l’avvento delle rappresentazioni visive.

“Signor Herrigel – disse a un certo punto il vecchio psicofilosofo, dopo che l’altro ebbe finito di parlare, – lei mi racconta queste cose come se temesse per la sua integrità, ma io le posso assicurare che non c’è nulla di male in ciò che le sta capitando. Un tempo tutti gli uomini avevano la capacità di elaborare, diciamo così, figure insieme alle parole: ce n’erano alcune più comprensibili e consce che facevano capo alla capacità di ragionare e venivano chiamate concetti, e ce n’erano altre, meno consapevoli e comprensibili, cui diedero forma gli artisti del secondo millennio dell’Era Cristiana e contenuto decifrabile gli psicoanalisti del XX secolo, una branca di studiosi subito avversata e presto dispersa, già alla fine del primo secolo del terzo millennio.

“Gli artisti non si curarono mai di definire e men che meno di studiare, se non per pura inclinazione personale, queste raffigurazioni. Esse furono invece l’oggetto di più approfondite analisi negli ultimi due secoli del secondo millennio, come dicevo, da parte degli psicoanalisti e da un’altra branca quasi scomparsa di studiosi, della quale mi onoro di far parte: i biologi. Il Positivismo imperante alla fine del XIX secolo impedì a uno di costoro, un italiano di nome Golgi, di estrinsecare tutte le possibilità delle sue ricerche ed intuizioni, poiché la rigidità delle posizioni accademiche dell’epoca, male avrebbe sopportato la sostanza anticipatrice e rivoluzionaria delle sue idee che mascherò sotto una coltre di affermazioni deterministiche e positivistiche, per un comprensibile opportunismo. Ma poi il passare del tempo svelò la reale sostanza delle sue intuizioni e nei secoli successivi i biologi raccolsero l’eredità anche degli psicoanalisti e dei filosofi, ormai scomparsi, pervenendo alla dimostrazione razionale e scientifica, per dire così, di una intuizione antichissima delle civiltà orientali: la complementare identità di spirito e materia, di idea e forma, che la civiltà occidentale dei primi due millenni dell’era cristiana si era ostinata a separare e contrapporre artificiosamente. Il diffondersi di questa aberrazione cominciò alla fine del secondo millennio, con l’espansione sempre più incontrollata di innumerevoli strumenti di comunicazione e interazione, che lentamente si sostituirono alla riflessione e al discernimento dell’uomo.

“Nelle mani di pochi potenti, questa espansione fu resa atta non solo ad esercitare una nefasta influenza sull’educazione degli esseri umani, ma anche a trasformare biologicamente l’umanità. Era ciò che Golgi aveva intuito: se c’è complementarità e interdipendenza tra spirito e materia, non solo lo spirito era capace di influenzare la materia, come si era sempre sostenuto, ma anche, inversamente, la materia, capillarmente enfatizzata attraverso tutti i sistemi di comunicazione, sarebbe stata in grado di trasformare organicamente lo spirito, sottraendogli non solo la capacità di dare forma alle idee, ma le idee stesse. Ed è ciò che nel terzo millennio è avvenuto: l’uomo immerso in un continuo flusso esterno di comunicazioni e di immagini di ogni sorta, ha perso dapprima la facoltà interiore di parlare a se stesso e agli altri sapendo ciò che diceva, e poi ha disimparato a leggere e immaginare. Senza queste capacità, l’umanità ha presto dovuto rinunciare anche alla conoscenza e ha accettato come un fatto naturale la Dichiarazione di Illegalità del Pensiero Libero, soddisfatta della sua Quota di Tempo Inattivo Diurno e delle Programmazioni Individuali di Successo, Viaggi & Distrazione.

“Così gli esseri umani smarrirono la capacità di discorso: le parole persero l’immagine e le immagini persero la parola.

“Vede Herrigel, Golgi aveva scoperto che c’è un punto nell’organismo dell’uomo, dove questo miracolo dello scambio tra spirito e materia e viceversa, si attua costantemente. Alla storia della biologia è passato con il nome di «Apparato del Golgi», ma lui usava il termine «Arcipelago», perché coglieva la similitudine naturalistica di un arcipelago geografico, dove gli esseri viventi di tutte le specie, pur nella loro diversità, traggono proprio da questa diversità l’equilibrio necessario alla sopravvivenza e allo sviluppo. Diceva che se questo equilibrio si fosse spezzato e dissolto nel corpo dell’uomo, anche l’essere umano non sarebbe sopravvissuto, almeno nella forma in cui lui lo aveva conosciuto.” Vedendo Herrigel perplesso, Sator tacque.

“Signor Mandel, io sono disorientato: sono venuto qui per avere risposte su ciò che sta accadendo a me e lei mi parla di ciò che è capitato secoli fa al genere umano e di uno scienziato dell’Era Cristiana che aveva scoperto cose talmente rivoluzionarie, che neppure oggi c’è qualcuno capace di dimostrarle!” esclamò Egon.

“Ma Herrigel, non capisce che tutte queste cose sono collegate?” riprese con foga Mandel. “Intanto quel clima positivista di sfiducia nei confronti di ciò che non può essere dimostrato scientificamente, non solo esiste ancora ma si è trasformato nel corso del tempo in qualcosa di ancora più penetrante e sottile: oggi non abbiamo più le parole, i concetti, le immagini, ossia tutti quegli strumenti intellettuali che nel mondo di ieri, permettevano comunque la sopravvivenza di un universo spirituale individuale, che a sua volta garantì lo svolgersi della storia attraverso il diffondersi delle idee e la produzione di quelle testimonianze che, al giorno d’oggi, vengono invece considerate illegali e di conseguenza bandite, cioè le opere d’arte e intellettuali. Se di tutto ciò qualcosa ci è rimasto, questo è conservato nelle Biblioteche Ludiche e considerato alla stregua di uno spettacolo che deve arrivare nei nostri stereovisori, filtrato dalle semplificazioni di commentatori fasulli e sovrastato dai Messaggi di Orientamento Commerciale o, nel migliore dei casi come è successo a lei, sotto forma di curiosi libri antichi, presi in affitto per arredare subabitativi e agglomerati residenziali di tutti i livelli, ormai innocui in quanto più nessuno è in grado di leggerli. Almeno fino a un po’ di tempo fa…” Sator Mandel si interruppe, ammiccando e rivolgendo a Egon un sorriso sincero e stringendogli calorosamente la mano.

Herrigel rispose al sorriso ma ritirò in fretta la mano e disse:

“Sator, dove stiamo andando? E che cosa significano quelle immagini ricorrenti nella mia mente?”

“Egon, siamo forse arrivati alla fine di un lungo ciclo, per fortuna. Golgi aveva previsto anche questo: in un arcipelago, quando l’equilibrio ambientale viene sconvolto e le risorse fondamentali vengono a mancare, alcune specie muoiono, altre prendono il sopravvento adattandosi, altre ancora né periscono né si adattano ma conservano le loro capacità per lungo tempo in attesa di tempi migliori, come caratteri recessivi. E sono queste poi alla lunga a sopravvivere: perché quando arriva il momento propizio, soltanto loro hanno mantenuto le caratteristiche fondamentali per ristabilire l’antico equilibrio. Anzi, ci accorgiamo che le cose nell’arcipelago vanno di nuovo cambiando, proprio dal riaffiorare di quei caratteri che tutti credevano estinti.

“Stia tranquillo, non sta diventando pazzo. Signor Herrigel, lei e la signorina Rembrandt siete il segno che io e un piccolo numero di altre persone stavamo ardentemente aspettando: forse l’era dell’imbarbarimento sta per finire. Anche Saja Rembrandt ha da poco incominciato a leggere!” rispose Mandel, assumendo un’aria estremamente seria. E fu a questo punto che chiese improvvisamente a Herrigel se avesse mai visto una tartaruga.

Le buone intenzioni d’un uomo d’altri tempi

“No, non so neanche di cosa stia parlando. Le ho spiegato che ho visto il Titanic, la Roccia Rossa, una specie di scudo, ma non mi è mai apparsa una… come l’ha chiamata? Una tartaruga.”

“No, Egon. Non sto alludendo alle sue visioni, ma ad un animale terrestre di tanti secoli fa, ormai estinto. Golgi aveva fatto anche ricerche sulle tartarughe, tenute poi segrete. Ma a qualcuno si confidò, e qualcosa delle conclusioni scientifiche seguite a quegli studi, nonostante il tempo trascorso, è giunto fino a me. Vede, le tartarughe erano animali longevi, estremamente longevi. La longevità permetteva loro di accumulare fattori diversi di sopravvivenza, anche quando l’ambiente in cui vivevano mutava drasticamente e, d’altro canto, proprio questo accumulo favoriva la loro longevità: un bell’esempio di complementarità, non trova? Ci fu un periodo, alla fine del XX secolo, in cui le tartarughe, soprattutto quelle acquatiche, corsero seriamente il rischio di scomparire. Ma sopravvissero. Golgi era morto da tempo quando ciò accadeva, comunque questa fu la prova che aveva ragione. Egli aveva notato che l’apparato nervoso da lui scoperto e studiato e che, come ho detto, chiamava Arcipelago, identico negli animali, nei vegetali e negli esseri umani, nelle tartarughe era conformato in modo tale da favorire il controllo e l’interdipendenza tra materia e spirito; tanto che, nei momenti difficili, esse avevano la facoltà di trasferire, potremmo dire telepaticamente, le proprie capacità fuori di sé ad altre tartarughe, consentendo loro di sopravvivere.

“Il meccanismo di come ciò avvenisse ci è ignoto, ma pare che Golgi l’avesse intuito e in parte dimostrato. La cosa sicura è che egli affermava che un giorno per gli esseri umani sarebbe stato possibile un comportamento paragonabile a quello delle tartarughe: cioè anch’essi avrebbero potuto acquistare la facoltà di trasferire le loro capacità per via mentale agli altri uomini. In che modo, però, non lo disse mai. Ecco, io credo che lei sia un «depositario», cioè una di quelle persone in cui qualcun altro, resosi conto tempo fa dell’involuzione della specie umana, ha lasciato in letargo i semi di una futura rinascita del pensiero: quello che le sta accadendo corrisponde allo spuntare dei primi germogli. Chissà cosa proverà quando lo sviluppo della pianta sarà completo? E a chi appartenevano i semi che lei ha coltivato dentro di sé? Tutto ciò potrebbe manifestarsi più chiaramente da un momento all’altro. Se e come questo accadrà io non lo so, ma ha assolutamente il dovere di avvisarmi, nel caso che avvenga. Perché chi o che cosa si sta risvegliando dentro di lei, possiede ancora il segreto di ogni conoscenza: la facoltà di pensiero dialettico, il linguaggio dell’umanità!”

Egon Herrigel osservò Sator Mandel che lo scrutava interrogativamente. Si capiva che confidava in lui per realizzare un disegno più grande di quel che poteva attualmente capire. Però a una conclusione semplicissima lui c’era già arrivato. Così, mentre si alzava dall’antica poltrona su cui aveva seguito tutti i discorsi di Mandel e raccoglieva il soprabito per andarsene, disse simulando una sicurezza che non aveva affatto:

“Il suo discorso è bello, Sator. Ma significa anche che se, grazie a noi e al nostro, chiamiamolo «risveglio», l’umanità dovesse anche solo cominciare a riacquistare la facoltà di pensare e comprendere, sarebbero fortemente minacciati gli interessi fondamentali delle Dinastie che hanno costruito il loro immenso potere sul monopolio della comunicazione e sull’annullamento progressivo delle capacità critiche di ognuno. E allora quelli troverebbero sicuramente il modo per eliminarci. Lo hanno già fatto con altri e per molto meno. Le sue sono buone intenzioni, anche se non so a cosa mirino esattamente, ma io sono una rotella troppo piccola per inceppare un meccanismo diffuso e consolidato. Addio, signor Mandel. Le assicuro che non mi sento affatto bene, ma non voglio stare peggio!”

Conseguenza del congedo così frettoloso dalla cortese ospitalità di Sator Mandel fu una lunga sosta sotto una pioggia fitta e scura, nell’attesa di un autotaxi libero. Si era tolto, è vero, la soddisfazione di vedere il vecchio sconcertato quasi quanto lo era stato lui all’inizio, ma rimaneva con l’irritante sensazione di non aver rivolto le domande giuste e di non aver saputo niente che riguardasse direttamente le sue «visioni». Comunque si era reso conto che mai, prima d’ora, gli era capitato di esprimersi e di essere compreso tanto chiaramente .

Chissà cosa avrebbe pensato, poi, se avesse saputo che le visioni non erano affatto finite e stavano per ricominciare più intense di prima.

Deriva all’interno di un magma freddo

Nei quindici giorni successivi Egon Herrigel, non riuscì a dormire per più di un’ora durante la Quota di Tempo Inattivo Notturno. Si agitava nel letto e si svegliava in continuazione. Le nuove visioni arrivavano a ondate. I libri degli psicoanalisti del XX secolo le definivano sogni o, più precisamente, formazioni oniriche. Le sue diventavano sempre più nitide e frequenti. Alcune erano passeggere come comete e ad esse non sapeva attribuire alcun significato evidente. Si lasciavano dietro solo una scia di sensazioni indefinibili, che coinvolgevano la sua sfera emotiva in uno scombussolamento continuo, che passava dall’angoscia alla beatitudine ed egli ne seguiva la deriva, come trascinato all’interno di un magma freddo. Altre si fissavano più a lungo ed erano maggiormente riconoscibili. Tra queste ve ne erano di simili alle immagini trasmesse per stereovisione e non comunicavano altro che se stesse. Di solito facevano da introduzione ad una specie di folgorazione ripetitiva e inquietante che arrivava di sorpresa, come la scena madre di qualche vecchio film analogico dell’orrore risalente al XX secolo, cui gli era capitato di assistere nella Biblioteca, durante gli Intervalli di Assegnazione. Gli sembrava di trovarsi in mezzo al deserto ventoso, tipico di alcuni pianeti extra galattici: un continuo turbinio di sabbia impediva la vista del paesaggio circostante, ma si diradava abbastanza per fargli scorgere davanti a sé, oscillante al suolo, un teschio circondato da una coltre di polvere grigiastra e finissima che, vorticando nel vento, gli penetrava fastidiosamente attraverso le narici fin nel cervello e, come un contatto attivato bruscamente, innescava dentro di lui un nuovo flusso di pensieri e sensazioni, oramai non più solo visive ma anche spiacevolmente fisiche.

E Egon Herrigel a questo punto sbarrava gli occhi e non riusciva più ad addormentarsi.

Perché quei pensieri e quelle sensazioni non erano i suoi, ma provenivano certamente da qualcun altro.

Non potevano essere suoi quei pensieri: essi rappresentavano situazioni ed oggetti a lui quasi completamente sconosciuti. Se qualcuno di questi ultimi riconosceva, era perché l’aveva visto nelle illustrazioni di antichi libri scientifici e ne ricordava anche i nomi: microscopio, alambicco, vetrino, camice… Ma gli odori? Anche gli effluvi e le forti esalazioni egli riusciva a percepire, di quello che sembrava essere un antichissimo laboratorio di ricerca scientifica. Più che pensieri questi sembravano essere dei ricordi. Ma di tutto ciò non aveva mai letto o visto niente, quindi non potevano essere suoi ricordi. E allora di chi erano? Soprattutto che significato aveva la parola «carapace» che il teschio pronunciava di continuo come una litania, come la chiave di volta di un mistero fatale che a lui, prima o poi, fosse stato imposto di incontrare?

E ogni volta riecheggiavano nella sua mente le parole di Sator Mandel: “…io credo che lei sia un «depositario», cioè una di quelle persone in cui qualcun altro, resosi conto tempo fa dell’involuzione della specie umana, ha lasciato in letargo i semi di una futura rinascita del pensiero: quello che le sta accadendo corrisponde allo spuntare dei primi germogli. Chissà cosa proverà quando lo sviluppo della pianta sarà completo?”.

Poi, allo svanire della parola «carapace», rivedeva di fronte a sé il Grande Scudo Rosso.

E tutte le parole si facevano più chiare e vorticavano luminosissime nella sua testa in una sarabanda inafferrabile, celando ancora il loro senso più profondo.

Quando non ce la fece più a resistere, approfittando di un lungo Intervallo d’Assegnazione, si recò alla Biblioteca Centrale: aveva bisogno di parlare con qualcuno che potesse aiutarlo, anche solo guardandolo. Si diresse al videosportello di controllo e chiese un libro in prestito. Un viso conosciuto apparve sullo schermo. “Prego inserire richiesta” fu il messaggio ripetuto da una voce apparentemente neutra. Ma il sorriso vero stampato su quel volto, era la dimostrazione che anche lui era stato riconosciuto, attraverso il monitor interattivo, da Saja Rembrandt.

Poco dopo erano seduti al tavolino magnetico di un Box di Accoglienza e Ristoro situato sull’intravia, a pochi metri dalla Biblioteca. Questi BAR erano botteghe di mescita dal nome pomposo, ma di notte si riempivano di alieni e di esseri umani al limite della mostruosità; sopravvissuti ai CROP o mutanti, lontanissimi discendenti dei colpiti da radiazioni della Prima Era Atomica, che ancora circolavano per le galassie, e metasessuali diversi. Invece di giorno la clientela mutava radicalmente in quantità e in qualità e i locali diventavano quasi confortevoli.

“Come ha fatto a lasciare così presto il lavoro?” chiese Egon a Saja, intenta a mescolare una tazza di caffè sintetico.

“Non si preoccupi, Egon” disse lei, alzando gli occhi con simpatia verso di lui. “Ero quasi alla fine del turno e ho chiesto al collega che mi avrebbe sostituito di anticipare il suo di qualche minuto. Lei, piuttosto, è agitatissimo: che cosa le è successo?”

“Avevo un assoluto bisogno di parlarle, Saja. Non so a chi confidarmi: ce l’ha un po’ di tempo per starmi a sentire?”

“Ma certo! Anche per me è la prima volta che qualcuno mi chiede se ho tempo…” disse lei sorridendogli con calore e poi aggiunse: “Egon, voglio starti a sentire. E sarà meglio se ci daremo del tu.”

“Beh, allora…” Egon sentì che la situazione si stava facendo emotivamente forte, con i begli occhi di Saja che lo fissavano attenti e rimpianse di non avere con sé delle Pillole di Acclimamento Unitario e Stabilizzazione Emotiva che egli, al contrario della maggior parte delle persone che conosceva, non utilizzava quasi mai. Trasse un profondo respiro e continuò: “Sto male da più di due settimane. Ma non è per la pioggia che ho preso quando ho lasciato la residenza di Sator Mandel. Credevo di averci dato un taglio, col vecchio. Mi ero rassegnato a rimanere così, a vedere il significato delle parole che dicevo e guardare immagini ricorrenti ad occhi chiusi, insomma mi cominciavo ad abituare e la cosa non era tanto spiacevole. Ma le visioni si stanno moltiplicando in modo insopportabile e adesso ho la sicurezza che non provengono più dalla mia fantasia eccitata dalla lettura. Io penso che qualcuno… qualcosa… mi stia parlando da chissà dove e cerchi di mettersi in contatto con me.”

“Egon, potrebbe essere soltanto un fenomeno di telepatia. Qualche amico o anche qualche conoscente che fa con te, a tua insaputa, esperimenti interattivi usando qualche droga di quelle introdotte ultimamente, tipo la Spes o l’Afasol. Qualcuno me ne ha parlato e si dice che…”

“No, Saja. Queste ti fanno solo assaporare le illusioni del mondo presente: situazioni artificiali di corteggiamento, finte carriere di successo, circoli di amicizie virtuali ad erotismo spinto, e altre cose così. Chi cerca di mettersi in comunicazione con me, mi parla dal passato. Io vedo oggetti e percepisco odori che non ho mai avuto occasione di conoscere direttamente. Sento rumori di ambienti sconosciuti risalenti a chissà quanti secoli fa. Non posso aver saputo di queste cose leggendo!”

“Sacre Lune! Ma è bellissimo, Egon!”

“Sarebbe bello se non fosse tutto così misterioso e confuso, e non avvenisse così in fretta! Le visioni si sovrappongono e la mia mente non è abituata ad una tale esplosione di sensazioni. Alla fine di ogni accesso, poi, mi sento anche male fisicamente…”

“Che cosa hai visto esattamente, Egon, che hai pure riconosciuto? Le parole, voglio dire. Sai, anch’io ultimamente ho imparato un po’ a leggere e qualcosa…”

“Sí, lo so: il vecchio me l’aveva detto. Mah, fammi ricordare… Un camice, un microscopio, qualche…”

“Un microscopio? Hai detto un microscopio?”

“E pure dei vetrini, che…”

“Egon, non c’è tempo da perdere! Ci andremo stanotte stessa.”

“Andremo dove, Saja?”

“Da Mandel. Tornerai da Sator Mandel, Egon. E stavolta verrò anch’io con te!”

Una busta di carte

Erano arrivati all’abitazione di Sator Mandel in piena notte, dopo averlo precedentemente avvisato tramite l’Appelcom di Saja. Alle brevi e plausibili richieste inventate dalla donna per paura di eventuali Intercettazioni Randomizzate, Sator aveva risposto subito affermativamente, comprendendo al volo la situazione e invitandoli per un party notturno domiciliare. Così, se la Pubblica Sorveglianza li avesse fermati mentre viaggiavano in due, avrebbero potuto dimostrare, con la registrazione appelcom, di essere legittimamente sul percorso dell’intravia che portava all’Agglomerato Residenziale di Mandel.

Appena entrati, il vecchio psicofilosofo li fece premurosamente accomodare nel suo studio e si dispose ad ascoltare quello che Herrigel aveva da dire sulle sue nuove rappresentazioni visive e sensoriali. Saja si era seduta vicinissima ad Egon. Ogni tanto gli posava la mano sul braccio come ad incoraggiarlo e forse anche qualcosa di più, tanto che la capacità di sentimenti di Egon sembrava ritornare faticosamente in vita, dopo essere stata costretta a una lunga stagione di oblio. Il resoconto, che Mandel ascoltava senza interrompere e con estrema attenzione, lisciandosi ogni tanto la barba bianca che, nonostante il divieto intergalattico, portava ancora orgogliosamente, fu lungo e, stavolta, anche più meticoloso e preciso. Herrigel descrisse minutamente le sue visioni, le sue percezioni uditive e olfattive. Talvolta si interrompeva, quasi per chiedere allo psicofilosofo conferma della sua sanità mentale, ma Sator lo invitava gentilmente a proseguire, sorridendogli come avrebbe potuto fare un padre a un figlio durante l’Era Cristiana, quando esisteva l’antica istituzione della famiglia, prima dell’epoca della Progettazione Antropogenetica da Inseminazione Artificiale, che ne aveva di fatto provocato l’estinzione. Egon, con un calore nuovo che sentiva nascergli dentro, iniziava a rendersi conto di cosa volesse dire per gli esseri umani di un tempo avere una famiglia, comprendendo anche per la prima volta il significato della arcaica parola affetto.

E Sator lo guardava con tanto più partecipe affettuosità, quanto maggiormente lui sembrava aver sofferto di quelle sensazioni che lo attanagliavano e che cercava con tanta obiettività di raccontare: ormai non soltanto con lo scopo egoistico di venirne fuori in qualche modo, ma anche con quello di trarre delle conclusioni che avrebbero potuto servire anche ad altri. A moltissimi altri.

Saja si accostava sempre di più a Egon, anche lei affascinata da quella solidale atmosfera mai e in nessun luogo riscontrata prima d’ora e dai legami invisibili che si stavano instaurando tra di loro.

Infine, all’improvviso, Egon Herrigel scoppiò a piangere.

“Pianga, Egon. Pianga pure” disse quasi sottovoce e con dolcezza Sator Mandel, stringendo nella sua la mano dell’altro che, stavolta, non la ritirò. “Saranno secoli che un essere umano non piange su questa Terra. Di che cosa ha paura? Della follia? Ma non capisce che lei sta riacquistando quella sanità che avevamo tutti un tempo e che altri ci hanno pian piano sottratta, facendoci subdolamente vedere con altri occhi e udire con altre orecchie?

“È vero: ciò che lei, in quei momenti dolorosi, vede, ascolta, odora, vive, non è opera sua. Non proviene da lei ma da qualcun altro. Ma questo non è un caso o una malattia. È la realizzazione di un esperimento. Un esperimento concepito molto, molto tempo fa.”

Sator Mandel trasse un sospiro e dopo una lunga pausa trascorsa in silenzio per permettere a Egon di ricomporsi, affermò in tono deciso:

“Finalmente, si è stabilito un contatto!”

Guardò con un sorriso soddisfatto prima Egon e poi Saja. E poi aggiunse serio: “Non avrei mai immaginato che ce l’avrebbe fatta.”

Chi ce l’avrebbe dovuta fare?” chiese Saja, interpretando anche la muta domanda di Egon, che nel frattempo si era calmato.

“Golgi. Camillo Golgi!”

A questo punto Mandel si era alzato e, scusandosi, si era allontanato per alcuni minuti, tornando nello studio con una grossa busta ingiallita che posò con cautela sulla scrivania. Saja si sollevò incuriosita dalla poltrona, lasciando per un istante la mano di Egon che si scosse dalla momentanea apatia a cui si era abbandonato. Così anche lui notò la busta, che Saja continuava a fissare con stupore.

“Oh, Sacre Lune! – dichiarò la donna – Ma, è carta! Autentica carta. Non la pellicola sintetica di cui sono fatte le copie dei nostri libri!”

Nel frattempo le dita ancora belle della vecchia mano di Sator, avevano tirato fuori dei lucidi cartoncini, anch’essi ingialliti ma virati verso una tinta più scura, quasi bruna. “Sapete che cosa sono queste?” chiese, spingendoli sul ripiano della scrivania, verso gli sguardi attoniti degli altri due.

“Queste sono ‘fotografie’. Lei, Saja, ne ha già vista qualcuna quando in Biblioteca tempo fa le feci vedere la riproduzione di un microscopio ottico della fine del XIX secolo dell’Era Cristiana, del quale per la sua inestinguibile curiosità volle sapere tutto. Le fotografie erano lastre di materiale sensibile alla luce che tanti secoli fa servivano a riprodurre meccanicamente la vista del mondo circostante. Osservatele bene. In particolare lei, signor Herrigel.”

Saja e Egon avevano allungato contemporaneamente le mani e avevano afferrato ciascuno un po’ di quelle carte, la cui consistenza era più spessa e liscia di quanto si aspettassero. Saja le osservava con attenzione antiquaria, quasi religiosa, emettendo piccole esclamazioni di sorpresa. Egon invece le guardava con sempre maggiore frenesia, controllandole e ricontrollandole ossessivamente. Le esaminò a lungo una per una, senza dire una parola. Poi, alla fine, le abbassò sulla scrivania, sollevò lo sguardo dritto negli occhi di Sator Mandel e esclamò con voce rotta dall’emozione: “Ma qui dentro ci sono tutte le cose che mi sono apparse in questi ultimi giorni!”

“E allora, mio caro amico, vuol dire che lei ha passato i suoi ultimi giorni in compagnia di uno scienziato italiano morto agli inizi del XX secolo dell’Era Cristiana. Queste sono le foto del laboratorio di ricerca di Camillo Golgi!”

“Non ci credo! – sbottò Herrigel – Come fa a esserne così sicuro?”

“Perché io so dove si trova il laboratorio di Golgi e l’ho visto con i miei occhi!” fu l’incredibile risposta di Sator Mandel.

Lo psicofilosofo lasciò che gli altri due si riprendessero dalla meraviglia e poi continuò:

“Vede signorina Rembrandt, quando mi chiedevo come Golgi avesse potuto farcela, mi riferivo alle sue ultime ricerche. Ad una in particolare, descritta dallo scienziato in questo diario – e, nel dire ciò, aveva tolto dalla busta un secondo fascicolo più consistente – di cui sono venuto in possesso parecchi anni fa, non vi sto a dire come. Vi dirò solo che nell’inferno dei CROP, ho conosciuto le persone migliori e più colte dell’universo ed è un terribile danno per tutta l’umanità che molte di esse non siano sopravvissute alle umiliazioni di quei Centri.”

Sator si interruppe, come se stesse faticando per scacciare dei tremendi ricordi, mentre gli occhi gli si inumidivano. Poi si scosse e guardò Herrigel, riprendendo a parlare rivolto verso di lui.

“Adesso entrano in ballo le tartarughe – disse con un sorriso, – e lei, Egon, capirà perché quel giorno le abbia chiesto se avesse mai visto una tartaruga. La ricerca fondamentale del Golgi, alla quale avevo già accennato durante la sua prima visita, riguardava proprio la capacità che questi animali avevano di trasmettere al di fuori di sé dei segnali, diciamo così, genetici da trasferire ai loro simili, che li avrebbero potuti successivamente utilizzare per la propria sopravvivenza in ambienti ostili.

“Fatta questa scoperta, Golgi cercò di indagare come tutto ciò potesse avvenire e se fosse possibile riprodurre a piacimento tale capacità. L’italiano intuì subito che questa specie di trasferimento dati da un essere vivente all’altro poteva effettuarsi solo telepaticamente, avendo riscontrato nei suoi esperimenti che ciò accadeva anche tra esemplari di tartarughe allevate in ambienti completamente separati. Inoltre accertò che pure gli esseri umani hanno una sorta di apparato cellulare e nervoso, l’«Arcipelago Golgi», paragonabile a quello delle tartarughe, che rende alcuni di essi naturalmente capaci di trasferire, per via telepatica, le loro facoltà ad altri, che le utilizzeranno successivamente. Golgi però si poneva soprattutto due quesiti.

“Primo: era possibile effettuare questo trasferimento dati tra esseri lontani, non solo nello spazio, ma anche nel tempo? In altri termini, si sarebbe potuto comunicare con eventuali posteri?

“Secondo: era possibile individuare una sostanza capace di indurre artificialmente tali complesse capacità telepatiche, in coloro che normalmente non le avevano?

“Io so che era arrivato a scoprire la possibilità teorica della telepatia meta temporale, ma non che fosse riuscito a sintetizzare un qualsiasi tipo di siero, atto a suscitarla artificialmente. Probabilmente Golgi aveva tenuto segreta quest’ultima fase del suo lavoro e neanche il mio disgraziato informatore, con il quale avevo stretto amicizia nello stesso CROP in cui ero stato deportato, ne era a conoscenza nonostante mi avesse raccontato tutto quel che sapeva con la speranza, mi disse, che un giorno, per mezzo della teoria dell’Arcipelago Golgi, noi superstiti avessimo potuto invertire il senso assurdo di questo universo, trapiantando il seme del pensiero dialettico per lo meno presso i nostri pronipoti.”

Di nuovo Sator Mandel si interruppe. Si vedeva chiaramente il disagio che provava nel dover rivangare tanti ricordi. Infine, come a scacciare definitivamente certe visioni, si alzò dalla poltrona e raccolse in fretta diario e fotografie nella busta, guardando entrambi gli ospiti con un sorriso dolcemente beffardo. E rivoltosi nuovamente a Herrigel esclamò:

“Comunque so dove si trova quel teschio che le ripete incessantemente la parola «carapace»! Non abbiamo molto tempo. Verrete tutti e due con me. Muoviamoci!”

Ai confini dell’Arcipelago

Era notte fonda quando Sator Mandel aprì con una vecchia chiave meccanica la porta di vero legno di una villa, all’apparenza abbandonata, situata oltre la cintura degli Agglomerati Residenziali Esterni. Le località al di là di questi non erano frequentate da nessuno, né Pubblici Sorveglianti né emarginati più o meno pericolosi: semplicemente non esistevano. Non erano riportate neanche sulle Micro Planimetrie di Vigilanza.

Erano arrivati lì sull’antiquata aeromobile di Mandel, che la pilotava ancora magistralmente. Costeggiando l’Intravia Superiore, erano poi planati silenziosamente in un campo aperto, dove Sator aveva simulato un atterraggio di fortuna per non correre rischi con la Sorveglianza Esterna. Lasciata l’aeromobile, si erano poi diretti a piedi verso l’interno di una boscaglia camminando su quella che sembrava una vecchia via terrestre, fino a quando erano giunti in una piccola radura che si apriva di fronte all’antichissima costruzione.

“Proprio in questa zona nel XX secolo dell’Era Cristiana sorgeva una città chiamata Pavia, che sembra appartenesse alla nazione Italia – aveva detto frettolosamente Mandel, mentre armeggiava con la serratura. – Era qui che Golgi lavorava. E questa casa, miracolosamente ancora in piedi, era il suo gabinetto di ricerca.”

“Chi le ha dato le chiavi e come faceva a sapere del laboratorio?” aveva chiesto Saja.

“Il mio povero compagno di prigionia, non si limitò a darmi informazioni essenziali su Golgi, ma mi consegnò anche queste chiavi e un’antichissima mappa topografica per individuare esattamente il posto. Anch’essa di carta, pensate! Ma ora mi lasci lavorare tranquillo, l’apertura di queste vecchie porte è terribilmente laboriosa!” aveva risposto bruscamente Mandel.

“Sator, per la prima volta vedo agitato anche lei! – aveva esclamato preoccupato Egon – Cosa c’è che non va?”

“Proprio niente, amico mio. È solo fretta: sento di essere vicino alla soluzione del mistero e mancano poche ore all’alba!” e così dicendo aveva spalancato la porta e si era precipitato all’interno, circondato dalla più completa oscurità.

Saja ed Egon esitarono qualche attimo. Poi, proprio quando la mano di Sator Mandel in un’altra stanza attivava un impianto di fibroluminescenza autonomo approntato in qualche sua visita precedente, varcarono la soglia e discesero alcuni gradini, penetrando nel seminterrato completamente illuminato.

Gli occhi di Egon stentavano a credere in ciò che vedevano: quello che si trovava di fronte era molto di più di ciò che gli era ripetutamente apparso negli ultimi giorni. Riconosceva alcuni vecchissimi strumenti scientifici, tra cui il microscopio delle fotografie, poggiati su lunghi tavoli di marmo e di legno, ma ce n’erano tanti altri mai visti e di materiali sconosciuti, inutilizzati da secoli. Individuava le forme, i colori e gli odori arcaici che gli oggetti presentavano ed emanavano. Molti erano nascosti sotto drappeggi completamente ricoperti di polvere. I due passeggiavano incerti in mezzo ai tavoli, affascinati dalle rarità e dalla cura artigianale con cui un tempo anche le apparecchiature scientifiche erano realizzate. Avanzavano di qua e di là, toccando e rimirando. Alle pareti scintillavano quelli che sembravano strumenti di misurazione, collegati ai tavoli con cavi e tubi corrosi dal tempo, ma ancora ben visibili.

“Galassie divine! Tutto ciò è stupendo!” esclamò Saja, scuotendo Egon dalla sua attonita meraviglia. Poi continuò:

“È la luce del passato! Un passato che cominciavamo a credere non fosse mai esistito. Anche se noi e forse qualche altro ne avevamo una pallidissima idea, ammirandolo sulle copie sintetiche dei libri della Biblioteca.”

“Sí, Saja. C’è tutto. Solo che ancora mancano le mie visioni!” osservò quasi con delusione Herrigel.

“Aspetti e vedrà, amico mio!”

L’esclamazione proveniva dalla voce eccitata di Sator Mandel che era apparso sulla cima della scala che portava al piano superiore.

“Se avrà la compiacenza di salire dove mi trovo io, vedrà le sue «visioni» attaccate alle pareti!” concluse ridendo il vecchio.

La frenesia invase il cuore di Egon che si scaraventò sulla scala e in un istante raggiunse lo psicofilosofo che lo attendeva sorridente. Anche Saja, presa da un’ardente curiosità, lo seguì a ruota.

Sator bloccò per un attimo sulla soglia della stanza del piano superiore l’irruenza di Egon, posandogli una mano sulla spalla e dicendogli solennemente:

“Mio caro ragazzo, di certo quello che vedrà non le farà comprendere ancora. Nessuno mai è in grado di capire tutto. Chi dice di saperlo fare, di solito mente. Dopo che sarà entrato qui e avrà visto quel che c’è dentro, sarà molto impressionato e confuso. Ma io l’aiuterò a chiarire la sua storia, parlandole di quella degli ultimi momenti di Golgi, che ho avuto la possibilità di ricostruire in questi anni, dapprima leggendo il suo diario e poi consultando gli ultimi resoconti che si trovavano proprio qui, gelosamente conservati per chi avesse saputo arrivare fino ad essi. Io sono stato il primo e, per alcuni anni, il solo. Voi due siete stati i secondi. Ma lei, Egon, è stato il prescelto.”

Herrigel guardò interrogativamente Sator Mandel, il quale scosse il capo e disse:

“Non ancora. Prima deve entrare e guardare tutto.”

Anamnesi

Mentre Saja e il vecchio rimanevano rispettosamente sulla porta, Egon varcò la soglia e fece qualche passo avanti quasi religiosamente, e guardò.

Il vecchio aveva ragione: quasi al centro della stanza si trovava un antico scrittoio pieno di vecchie carte e, sospese alle pareti, c’erano tutte le sue visioni. Anche quelle della prima fase, che lui riconobbe molto bene, sostando per lunghi minuti di fronte ad esse. Erano pitture di grandi dimensioni come usavano fare gli artisti del XIX e XX secolo. Molto diverse, per dimensioni e significato, dalle Icone Stereovisive a Vibro onde e dalle minuscole Fluttuazioni Ottiche a Plasma che avevano inondato il mondo negli ultimi due secoli. È vero: queste potevano andar bene per le pseudofinestre, ma non avevano l’intensità e l’indefinibile suggestione di quei vecchi quadri.

E così finalmente guardava fisicamente davanti a sé il Naufragio del Titanic, la Grande Roccia Rossa della Notte e il Grande Scudo Rosso, come le aveva chiamate. Adesso però quella che aveva immaginato come una falce di luna, sembrava aprirsi davanti al suo sguardo come un occhio di lava incandescente per riversarsi sulla Grande Roccia Rossa che prese a muoversi, a scomporsi e a ricomporsi, finché non fu indotto a osservare il Grande Scudo Rosso. Questo giganteggiava nel centro della parete accanto ad altre pitture, in cui riconosceva ogni dettaglio di tutte le visioni avute nella seconda e più drammatica fase che aveva attraversato, ammirandone ora davanti a sé la materiale concretezza. Ma fu guardando la parete di fronte alla porta che restò senza fiato. In alto si stagliava un’immagine che ricordava senz’altro le forme di un animale ignoto, dal corpo verdastro e scuro. Le rughe e le squame cornee che caratterizzavano alcune sue parti gli facevano tornare alla mente le riproduzioni dei più antichi animali terrestri, di cui molti ormai mettevano in dubbio perfino l’esistenza: i dinosauri. Fissò a lungo sbalordito quell’immagine sconosciuta, mentre da lontano, pianissimo, cominciò ad echeggiare dal suo interiore orizzonte sonoro una parola ancora indefinibile, ogni volta che si voltava a guardare di nuovo lo scudo. È vero, quello non era uno «scudo» ma era… era… Sentiva la parola farsi vicinissima.

Abbassò lo sguardo fino a vedere posta su di un piedistallo una grande teca di vetro, al cui interno vi era, affondato in una polvere grigiastra e finissima, un teschio, le cui occhiaie vuote sembravano fissarlo con insistenza. Fu in quel momento che avvertì una fitta dolorosa al capo e udì un boato tremendo dietro le tempie. Poi una voce che gli urlava dall’interno della testa: “Il carapace della tartaruga! È attraverso il carapace della tartaruga!”. Terrorizzato Egon si portò le mani alle orecchie e volgendosi verso Sator Mandel strillò con quanto fiato aveva in corpo: “Lo faccia smettere, lo faccia smettere! Chiunque o qualunque cosa sia che mi urla nella testa, la prego, lo faccia smettere!” e crollò in ginocchio respirando affannosamente. A questo punto la crisi si estinse improvvisamente così come era iniziata, mentre una quiete torpida si impossessava finalmente di tutto il suo fisico prostrato.

Saja si precipitò accanto a lui sussurrando parole d’incoraggiamento e accarezzandolo. Sator si avvicinò di qualche passo e disse con calma:

“Credo che ormai sia tutto finito. Almeno il dolore, intendo. Il livello parossistico è stato raggiunto e del resto tutto ciò fu programmato per richiamare l’attenzione e risvegliare interessi sopiti da lungo, lunghissimo tempo. Era difficile regolare l’intensità del richiamo telepatico. Egli voleva essere sicuro che qui, in questa zona, qualcuno prima o poi l’avrebbe percepito.”

“Ma chi ha programmato cosa e perché? Chi ‘voleva essere sicuro’?” chiese Saja senza alzare la voce, per non agitare di più Egon che le aveva afferrato una mano.

Ma Herrigel nel frattempo si era alzato in piedi e, avvicinatosi a Sator Mandel, aveva cominciato a parlare con voce bassa, ma senza affanno e con chiarezza. Appariva completamente trasformato.

“Ora so. Credo di sapere quasi tutto. Quella è una tartaruga e quello non è uno «scudo rosso» – disse indicando le opere sulle pareti – ma è il carapace: lo «scudo» della tartaruga come ero costretto a chiamarlo io, non conoscendo la parola giusta. Golgi lo vedeva così, quasi incandescente, dopo essersi iniettato il siero che, prelevato attraverso il carapace delle tartarughe, stimolava il suo Arcipelago. I suoi sensi durante gli esperimenti si acuivano in modo esasperato e deformavano ciò che vedeva o sentiva. Era normale, a pensarci bene, per riuscire a dare forza a una spinta telepatica che doveva proiettarsi all’esterno e nel futuro. Le sue visioni potevano essere inafferrabili, incomprensibili. E temendo che le parole dei suoi resoconti non fossero sufficienti a descriverle, ce ne lasciò anche le immagini. Queste pitture le ha fatte Golgi. Non è vero, Sator?”

Sator Mandel era muto per la sorpresa di una tale immediata comprensione da parte di Herrigel.

“È stato Golgi, non è vero?” insisté con decisione Egon.

“Sí – confermò lo psicofilosofo. – È stato Golgi. Aveva sintetizzato un siero stimolatore dell’Arcipelago, estratto dal carapace delle tartarughe, iniettandoselo lui stesso. È tutto scritto nelle relazioni che si trovano su quello scrittoio: le modalità dell’estrazione e della conservazione, le difficoltà incontrate nel regolarne la quantità sufficiente per un esatto richiamo telepatico che non fosse né troppo debole né troppo forte e poi, soprattutto, la ricerca precisa della fascia di compatibilità con un altro Arcipelago con il quale il suo potesse realisticamente, diciamo così, sintonizzarsi superando le barriere della materia, dello spirito e del tempo. Le probabilità erano minime, eppure il contatto finalmente c’è stato e ha dimostrato che l’uomo può trasmettere per via telepatica le sue caratteristiche spirituali ed intellettuali ad altri uomini a distanza di centinaia di anni, perché il pensiero non ha né passato né futuro Egon, e quello che lei ha vissuto, lo ha vissuto in contemporanea agli esperimenti di proiezione telepatica del Golgi, nel flusso illimitato del tempo.

“Io non so spiegarlo meglio, Herrigel, ma tali esperimenti coincidevano con le sue crisi, e probabilmente coincideranno ancora, in una dimensione extra temporale, anche se distanziati cronologicamente tra di loro di innumerevoli anni.

“Inoltre Golgi si era anche messo a dipingere e aveva dipinto molto, così come aveva letto molto: voleva che la sua eredità telepatica fosse la più completa possibile. Infatti, dato che non si può fotografare ciò che si riesce a vedere solo nella mente, la pittura era assolutamente necessaria perché desse l’idea delle percezioni che caratterizzavano i suoi esperimenti, in modo da riuscire a comunicarle a dei posteri che potevano anche aver perso la capacità di immaginare leggendo e di parlare immaginando.

“In questo laboratorio il povero Golgi non c’è più, ma il suo Arcipelago è telepaticamente ancora accanto a noi e per lei, Egon, diventerà un maestro molto più saggio del sottoscritto. Avrei potuto dirle forse qualcosa di più fin dall’inizio, ma temevo che un’eccessiva intromissione nei processi telepatici avrebbe potuto far andare storto qualcosa. E poi non ero assolutamente sicuro di niente, finché ciò che è accaduto stanotte mi ha dato conferma di tante congetture. Ora credo che per lei le cose saranno più facili: il contatto si è stabilito così saldamente che ulteriori probabili comunicazioni telepatiche saranno sempre più importanti e meno dolorose. Quanto a lei, Saja, qualcosa di interessante credo che sarà riservato anche a lei. Del resto vista la compatibilità sentimentale tra voi due, niente di più facile che abbia un Arcipelago compatibile, oltre che con quello di Egon, anche con quello del Golgi!”

Il vecchio psicofilosofo a questo punto sorrise e abbracciò prima Saja e poi, con grande calore, Egon Herrigel il quale non si sottrasse, ma domandò con grande fermezza:

“Dottor Mandel, io ho detto di sapere quasi tutto. Di chi è quello scheletro nella teca, il cui teschio mi parlava attraverso la polvere?”

Era la prima volta che Herrigel apostrofava Sator Mandel col titolo di dottore. E a Mandel non sfuggì l’ironia della cosa, proprio quando gli veniva rivolta la domanda più difficile.

“Egon – disse con molta umiltà lo psicofilosofo, – anch’io non so tutto. Ho cercato per anni di individuare a chi appartenesse quello scheletro, ma inutilmente. Golgi non fa menzione nei suoi scritti né allude mai ad una sepoltura così straordinaria avvenuta nel suo laboratorio. Si potrebbe fantasticare che quelle povere ossa siano dello stesso Golgi, ma ho già fatto accurate indagini paleografiche dalle quali risulta che l’italiano venne seppellito in una normalissima tomba nella sua città. D’altra parte, dal punto di vista archeologico, quella teca parrebbe appartenere a un periodo di qualche decennio posteriore alla morte del biologo. E allora potremmo solo dedurne che il suo corpo venne successivamente esumato e deposto mummificato in questo sepolcro di vetro, ma da chi e perché non lo sapremo mai. Per lo meno io.

“Forse lei. Un giorno…” concluse Sator Mandel, chinando il capo malinconicamente.

Conclusione

Passarono molti mesi.

Per alcune settimane Egon era stato ad aspettare qualche nuova crisi, ma ciò non era avvenuto. Come aveva previsto Sator Mandel, che ogni tanto chiedeva ancora notizie di entrambi, la sua mente e quella di Saja diventavano sempre più sensibili e avide di conoscenza, ma senza traumi: evidentemente ormai l’influsso telepatico dell’Arcipelago Golgi era stabile e costante.

Egon andava spesso a trovare Saja in Biblioteca durante qualche Intervallo d’Assegnazione e, quando questi corrispondevano per entrambi, i due si rifugiavano nella confusione di qualche Box di Accoglienza e Ristoro per scambiarsi le loro nuove reciproche esperienze.

In queste occasioni Herrigel venne a sapere che aumentava il numero delle persone che richiedevano sempre più frequentemente dei libri. Qualcuno si azzardava anche a confidare a Saja che stava imparando a leggere. Altri si aprivano di più fino a confessarle che cominciavano a sospendere senza apparente motivo la Vitalità Energetica Costante e talvolta, più rischiosamente, isolavano tutti gli apparati olovisivi e stereovisivi interni durante la trasmissione dei Messaggi di Orientamento Commerciale. Saja definiva tutto ciò «una benefica epidemia». Chissà… Quando ascoltava tutto ciò, Egon ripensava alle parole del vecchio Mandel: «ci accorgiamo che le cose nell’arcipelago vanno di nuovo cambiando, proprio dal riaffiorare di quei caratteri che tutti credevano estinti» e si convinceva sempre di più che l’influsso dell’Arcipelago Golgi stava incredibilmente espandendosi. Le Dinastie potevano controllare tutti i più elaborati mezzi di comunicazione materiali, ma avrebbero trovato particolarmente complicato farlo con quelli telepatici. E se era vera la notizia che in qualche laboratorio clandestino si stavano di nuovo conducendo esperimenti su tartarughe fossili clonate e riportate in vita, presto sarebbe arrivato il momento in cui molti esseri umani avrebbero potuto sfruttare le proprie capacità telepatiche per riacquistare ed esercitare la facoltà di pensiero libero, senza essere in alcun modo individuabili.

Un giorno Saja si rivolse a Egon, mentre erano seduti intorno a un tavolino del solito BAR, chiedendogli perplessa:

“Egon, ti sei mai domandato perché Golgi ritenesse necessario tramandare a tutti i costi ai posteri la sua personale eredità intellettuale? In fondo questa benefica epidemia è opera sua. I germi li ha sparsi lui. Ma come faceva a sapere che il mondo sarebbe cambiato così?”

Herrigel sollevò lo sguardo dubbioso verso di lei, tintinnò distrattamente col dito sul bicchiere vuoto e disse:

“Io penso che già alla fine del XIX secolo qualcuno nutriva più di un dubbio sul futuro che attendeva l’umanità, e così Golgi affrontò il problema da un altro punto di vista.”

“E cioè quale?”

“Da quello delle tartarughe.”

“Che cosa vuoi dire?”

“Voglio dire che per sapere come vanno a finire certe vicende, bisogna vivere molto, molto a lungo. Come le tartarughe!” concluse ridendo nervosamente Egon Herrigel.

Il giorno dopo Egon ebbe un’altra visione. Anzi, qualcosa di più di una visione.

Appeso alla parete di fronte al suo letto, poco dopo il risveglio, vide un disegno raffigurante quella stessa tartaruga che aveva visto tanto tempo prima dipinta nel quadro di Golgi, in una delle più fantastiche circostanze della sua vita.

Ma, stavolta, questa poteva essere la sua? Ne conservava la nitida forma essenziale ma aveva perso tutti i colori. Era stata eseguita in un puntiglioso bianco e nero, con una matita che Egon, sorpreso, aveva trovato sul comodino, posata accanto ad un contenitore di cartone, che ne racchiudeva numerose altre, datato 1995.

Golgi era morto appena nel terzo decennio del XX secolo.

A chi apparteneva quella matita e, soprattutto, la mano che l’aveva utilizzata?

Camillo Golgi è realmente esistito, ma, a parte alcune notizie riprese dall’Enciclopedia Rizzoli Larousse citata in nota, quanto si dice di lui nel racconto è, ovviamente, frutto di pura fantasia.



Salto Immortale

(Intorno all’anno 2290 dell’Era Cristiana, alla fine del Primo Secolo dell’Era della Pace e della Produttività)

Potrei vivere nel guscio di una noce e credermi re d’uno spazio infinito, se non fosse per certi cattivi sogni.v

William Shakespeare

La società che progetta e intraprende la trasformazione tecnologica della natura trasforma tuttavia la base del dominio, sostituendo gradualmente la dipendenza personale (dello schiavo dal padrone, del servo dal signore del feudo, del feudatario dal donatore del feudo) in dipendenza dall’«ordine oggettivo delle cose» (dalle leggi economiche, dal mercato, ecc.). Senza dubbio, l’«ordine oggettivo delle cose» è esso stesso il risultato del dominio, ma ciò non diminuisce il fatto che il dominio genera al presente una più alta razionalità – quella di una società che sostiene la sua struttura gerarchica mentre sfrutta sempre più efficacemente le risorse naturali e mentali e distribuisce su scala sempre più ampia i benefici tratti da tale sfruttamento. I limiti di siffatta razionalità, e la sua forza sinistra, si mostrano nel progressivo asservimento dell’uomo da parte di un apparato produttivo che perpetua la lotta per l’esistenza e la dilata in una lotta internazionale totale che attenta alle vite di coloro che costruiscono ed usano l’apparato stesso.vi

In tal senso l’introiezione implica l’esistenza di una dimensione interiore distinta dalle esigenze esterne ed anzi antagonistica nei loro confronti – una coscienza individuale ed un inconscio individuale, separati dall’opinione e dal comportamento pubblici. L’idea di una «libertà interiore» appare qui nella sua realtà: essa designa lo spazio privato in cui l’uomo può diventare e rimanere «se stesso».

Oggi questo spazio privato è stato invaso e sminuzzato dalla realtà tecnologica. La produzione e la distribuzione di massa reclamano l’individuo intero

I molteplici processi d’introiezione sembrano essersi fossilizzati in reazioni quasi meccaniche. Il risultato non è l’adattamento ma la mimesi: un’identificazione immediata dell’individuo con la sua società e, tramite questa, con la società come un tutto.vii

Ho osservato poc’anzi che il concetto di alienazione sembra diventare discutibile quando gli individui si identificano con l’esistenza che è loro imposta e trovano in essa compimento e soddisfazione. Questa identificazione non è illusione ma realtà. La realtà, d’altra parte, costituisce uno stadio più avanzato di alienazione.viii

La realtà supera la sua cultura. L’uomo può compiere oggi cose più grandi che non gli eroi e i semidei della cultura; ha risolto molti problemi insolubili. Ma ha anche tradito la speranza e distrutto la verità che venivano conservate nelle sublimazioni dell’alta cultura.ix

La «natura delle cose», compresa quella della società, è stata definita in modo da giustificare la repressione e persino la soppressione come del tutto razionali.x

Herbert Marcuse

La vita nel tardo capitalismo è un rito di iniziazione permanente.xi

Max Horkheimer e Theodor W. Adorno

Anche se non sono destinate all’eternità, le cose che hanno importanza arrivano ancora in tempo anche se arrivano all’ultima ora.xii

Martin Heidegger

Prologo

Disteso nel letto, il vecchio si sentì improvvisamente esausto, ma non volle immaginarsi così decrepito e incartapecorito. Lentamente sollevò lo sguardo dalle pagine che stava leggendo, intento verso la parete di fronte come davanti ad uno specchio; richiuse il libro sull’ultimo paragrafo e, accarezzandone con la mano sinistra la copertina abbassata, continuava a tenervi in mezzo l’indice della destra a mo’ di segnalibro. Mentre un pallido sole filtrava attraverso i vetri della finestra proiettando la sua ombra sul muro bianco della cameretta dell’obliteratorio zonale, interrogò la parete nuda sul senso delle visioni che durante tutta la sua vita aveva sempre trascurato.

Da quando, giovanissimo, pattinava sui binari ghiacciati della Città Interna, sfidando gli antiquati treni meccanici che lo inseguivano sempre più veloci fino alla monorotaia a levitazione magnetica della Stazione Sud, dove non potevano più raggiungerlo; o quando, nell’inconscia ricerca del salto risolutivo, si gettava a volo d’angelo dai trampolini ad ipogravitazione sulle distese di soffice grano transgenico del pianeta Sierra, per giocare infuocate partite di pallafalce, all’ombra delle Sentinelle.

E poi, al culmine della sua leggendaria carriera, quella specie di spettacolare suicidio col salto con l’asta fino al centesimo piano del Last Act Building…

A che cosa era servito?

Era stato come se qualcun altro dentro di lui avesse intuito, cercando di preavvertirlo; e lui avesse fatto finta di niente.

Aprì ancora il libro e rilesse l’ultima pagina.

Per un lungo tratto della sua esistenza aveva sdegnato il piacere oscuro dei presagi e delle visioni; adesso sentiva invece che era il momento di ridimensionare quello meno oscuro che la vista di paesi e paesaggi e l’audace compimento di imprese estreme avevano dato ai suoi occhi e al suo orgoglio; lasciandolo dentro, però, assolutamente vuoto ed ignaro.

Forse non era stato capace di vedere tutto.xiii

Il momento risolutore dell’ultimo salto aveva tardato troppo, costringendolo a meditare.

Aveva la sensazione di aver capito tutto a metà. O meglio, che solo una metà di se stesso fosse stata in grado di farlo.

Però la malinconica rievocazione delle sue imprese di tanti anni prima, fatta nelle lunghe ore solitarie trascorse nell’obliteratorio, gli aveva procurato la certezza di esservi stato costretto; in fin dei conti.

Ma da chi?

E di fronte a lui, sulla parete chiara, non scorse altro che due ombre, due ombre scure dietro le pareti di cristallo di un grattacielo e, in mezzo a loro, il riflesso lontano di…

Di certo, un record…

Il battito cardiaco era leggermente accelerato. Ma non più che in altre analoghe situazioni. L’impresa estrema è come una droga: dà assuefazione. Misurò la consistenza del manto stradale sotto la suola superelastica ad alta adesività delle scarpette speciali a spinta pneumodinamica variabile, che la Asteroid Easywalk Inc. aveva realizzato appositamente per lui e per quell’impresa. Poi valutò con occhio attento i duecento metri di rincorsa rettilinea che gli avrebbero consentito di staccarsi da terra, con uno slancio mai ottenuto prima da nessun altro jumper.

Tra le mani, opportunamente bendate di impalpabile tessuto anallergico antiscivolo, stringeva puntandola davanti a sé l’asta di sollevamento ad allungamento progressivo e ad ipogravitazione logaritmica, praticamente indistruttibile, che la Jumping Jack Flash Inc. aveva progettato e costruito con calcoli e materiali segretissimi. Tanto che tutti i suoi allenamenti si erano dovuti rigorosamente svolgere di nascosto, per contratto.

Fletteva alternativamente l’avampiede destro e sinistro e guardava fisso davanti a sé, facendo oscillare impercettibilmente il tronco sui poderosi muscoli addominali. Inoltre aveva cominciato la fase conclusiva dell’iperventilazione autoipnotica. Però riusciva ancora ad avvertire la vibrazione dell’attrezzo che si faceva sempre più uniforme e pulsante come un organismo vivo; invece era solo uno strumento in grado di produrre, per effetto dei materiali particolari che lo componevano e della esasperata sollecitazione dinamica della rincorsa e del salto, un campo magnetico capace di scagliarlo in alto a velocità sempre maggiore e di farlo ricadere in ipogravitazione, purché lui avesse avuto l’abilità di localizzare con precisione il punto di equilibrio statico nella fase del rilascio e di non distanziarsi troppo dall’asta durante la discesa.

Dopo aver superato l’asticella posta a quattrocento metri d’altezza.

Di certo, un record.

Era una splendida giornata di sole. Del resto le condizioni di luce dovevano essere ottime, per garantire la riuscita del tentativo. Qualsiasi ingannevole riflesso durante la rincorsa, lo slancio e il rilascio, poteva essere fatale per il saltatore, inducendolo ad un’errata valutazione della direzione e dell’intensità della spinta dinamica.

La folla vociante si accalcava ai lati del lungo viale rettilineo in fondo al quale era tradizionalmente collocata l’asticella da scavalcare, tra i due grattacieli più alti della città: il Last Act Building e il Bill Gates Memorial Communications Center.

Tutto il pubblico applaudiva freneticamente, come impazzito in attesa dell’evento.

Ormai però non ci faceva più caso. L’importante era l’incasso. Per sé e per gli Organizzatori. Come sempre. E lui, il più ardito saltatore dell’Occidente, era una garanzia di successo.

La lunga striscia di asfalto e folla che aveva di fronte a sé improvvisamente si bloccò come in un’istantanea olografica. C’era un po’ di vento, ma non sarebbe stato determinante ai fini del risultato. Né in un senso né in un altro. Il brusio che lo circondava cessò d’incanto. In piena autoipnosi, lui non si era neanche reso conto del cenno istintivo che aveva fatto con la testa in direzione della giuria, per comunicare che si accingeva ad iniziare la rincorsa finale. Il segnale d’avvio era risuonato e la massa amorfa della folla si era remissivamente zittita, paga dello spettacolo cui stava per assistere.

Il saltatore balzò in avanti di scatto e iniziò l’interminabile corsa.

Dentro il suo cranio rimbombava il tonfo dei piedi martellanti sulla strada e il sibilo regolare dell’aria inspirata ritmicamente dai polmoni, addestrati da un lungo allenamento a non curarsi di eventuali sbalzi emotivi.

Metro dopo metro la linea dell’ultimo appoggio si era avvicinata sempre più, finché l’atleta si trovò nella situazione decisiva: quella di valutare il momento e la velocità opportuni per l’inserimento dell’asta nell’alveo di sostegno al suolo e dello stacco conseguente.

Nessun pensiero. Nessun calcolo. Sentirai l’asta incollarsi da sola al terreno, attratta dalla sua stessa essenza. Perché così dovrà avvenire.

Gli risuonarono nelle orecchie le litanie del suo allenatore. Sentì uno schiocco doloroso in tutta la muscolatura del corpo ed iniziò il volo verso il cielo, mentre le mani si torsero e affondarono nell’impugnatura spugnosa dell’attrezzo che stringevano come parte di se stesse.

Capovolse le braccia in uno sforzo sovrumano e vide l’asticella posta lontanissima nell’azzurro avvicinarsi sempre di più. Muscoli e campo magnetico stavano facendo divinamente il loro dovere. Sollevò le gambe il più in alto possibile per farle seguire sullo slancio dal bacino e dal tronco. Gli sarebbe sembrato di avere le ali, se non fosse stato per lo scuotimento tormentoso delle spalle; ma capì che avrebbe potuto farcela: sottopose tutta la sua macchina corporea ad una ulteriore sollecitazione forsennata e volò ancora più su. Quando vide finalmente l’asticella giungere all’altezza dei piedi, cominciò a curvarsi e a preparare le braccia al rilascio e al sostegno statico dell’asta. Quello era il momento culminante. Il momento che gli avrebbe assicurato il record e la salvezza.

Percepì il leggero tremolio dell’asticella che gli sfiorava l’inguine senza spostarsi di un millimetro e poi si ritrovò a discendere dall’altra parte, mentre slanciava fuori le braccia e l’ipogravitazione del campo magnetico inverso dell’asta cominciava ad avviarsi, per rallentare la caduta.

Sorrise e si volse a guardare la parete a specchio del Last Act Building e lì, al centesimo piano, vide due ombre: due ombre scure dietro le pareti di cristallo e, in mezzo a loro, il riflesso lontano di un antico monumento all’orizzonte, dall’altro lato della città.

L’arena della Plaza de Toros, vecchia ed inutilizzata da almeno trent’anni.

E la sua memoria cosciente fu attraversata da un lampo allucinatorio che lo lasciò come sospeso nel vuoto, mentre la discesa si dilatava in un attimo infinito…

Maledetto Navarro!

Nulla da ridire: la scenografia era stata come sempre ricostruita alla perfezione. Perfino il colore delle gradinate più lontane riproduceva quello del legno originale con cui venivano realizzate le Plazas de Toros del ventesimo secolo. Inoltre tutto il pubblico dello spettacolo della Neocorrida si era volutamente radunato, affollandosi nella parte a favore di luce, per distinguere nitidamente ogni particolare dell’ingresso in campo del più importante Competitore Ufficiale; il quale, meticolosamente sponsorizzato in ogni parte del corpo e illuminato dal sole, sarebbe apparso sulla bicicletta corazzata in titanio per affrontare il torero nell’arena, proprio dalla parte delle gradinate rimaste deserte.

Ormai il medesimo, ricco spettacolo si ripeteva sempre uguale, da quando era entrato in vigore il divieto di maltrattamento degli animali nelle manifestazioni pubbliche.

E qualcuno dei Competitori Ufficiali era diventato così abile e coraggioso, nell’evitare i colpi di banderillas e nello strappare spada e muleta dalle mani del matador tra le urla d’incitamento della folla, che gli incassi per i biglietti e la pubblicità erano saliti alle stelle, e l’afflusso di turisti da tutto il mondo occidentale era decuplicato, dando nuova fanatica linfa all’antico rito della tauromachia.

Alain Duvalier stava osservando con il suo piccolo binocolo elettronico il diciassettesimo duello che Miguel, detto il Navarro, sosteneva nell’arco di tre anni.

I sedici precedenti si erano tutti conclusi con la spettacolare sgarrettatura dei toreri, che Miguel rifiutava ostinatamente di finire, come invece facevano gli altri grandi Competitori, ripetendo ossessivamente che il Signore ci aveva creato per rispettare la vita, ogni volta in cui il suo volto onesto di montanaro era sbandierato a pagamento su tutte le idiovisioni. Questo anomalo comportamento lo aveva fatto diventare un idolo delle folle; i suoi ingaggi avevano raggiunto cifre esorbitanti e la notorietà dei suoi atteggiamenti contestatori si era fatta così vasta e invadente, da cominciare a preoccupare seriamente i potenti amministratori della Società Generale dello Spettacolo Plurimediale, universalmente conosciuti come “gli Organizzatori”.

Duello al sole

Quando la fastosa coreografia introduttiva e l’inno di apertura della fanfara cessarono, il portale est si spalancò di colpo e Miguel il Navarro irruppe nell’arena pedalando vorticosamente verso il matador, che lo attendeva con le banderillas nascoste dietro la schiena. L’impeto selvaggio si era rivelato sempre la sua arma vincente. Sarebbe stato così anche questa volta.

Gli spettatori ammutolirono e per un attimo fu possibile udire il fruscio sibilante dei tubolari sulla terra battuta.

Alain aumentò l’ingrandimento dell’elettrobinocolo e mise a fuoco la parte posteriore del torero, proprio mentre il Navarro gli si avventava contro.

Lì per lì non notò nulla di strano; poi però, qualche istante prima che il matador scartasse sulla sinistra e colpisse con precipitazione l’anca del corridore riuscendo appena a procurargli un graffio poco profondo per l’eccezionale velocità dell’assalto, Duvalier si accorse che dalle punte delle banderillas stillavano gocce di una sostanza vischiosa. Nessuno avrebbe potuto farci caso, a meno che non avesse deliberatamente puntato il binocolo su quel particolare, proprio nel momento in cui l’attenzione di tutti era rivolta invece alla lotta sanguinosa che si stava innescando tra le due figure, nel centro dell’arena assolata.

Ma Alain Duvalier sapeva dove guardare.

Però non si avvide che una donna dai lunghi capelli neri, nascosta dietro un ampio cappello bianco e un paio di occhiali da sole, lo guardava a sua volta attraverso un minuscolo aposcopio digitale, da uno dei settori più affollati e vocianti della parte opposta dell’arena.

Sangue e arena

Quello che doveva essere il combattimento più lungo ed entusiasmante del torneo, finì in un istante di violenza paradossale e in un sussulto spietato per la memoria di migliaia di spettatori.

Il Navarro si era fermato un attimo, come stupito per qualcosa di strano che non andava in quella banale ferita, subita già tante volte. Voltatosi di scatto sul sellino, aveva dato un’occhiata al fianco sanguinante. Poi il braccio e la gamba destra gli si erano improvvisamente irrigiditi e tesi all’infuori in preda ad un orribile crampo, mentre il capo gli si rovesciava violentemente all’indietro.

Alain Duvalier fece in tempo a scorgere una smorfia feroce sul volto del torero, mentre Miguel non ce la faceva a trattenere l’altra gamba che, con un tremito incontrollabile e imprigionata dal fermapiedi, aveva preso a roteare sulla pedivella, spingendo la bicicletta a notevole velocità addosso alla palizzata di protezione, con una pedalata strampalata e bislacca.

Miguel il Navarro volò al disopra del manubrio per lo schianto e si spiaccicò con un cupo rumore sulle assi. Poi giacque a faccia in giù sulla terra rossa, mentre la mano sinistra distesa vicino alla coscia continuava a contrarsi spasmodicamente.

Il matador accorse con muleta e spada in pugno. Guardò gli occhi spalancati del rivale sporco di terra e la sua bocca che si contorceva nel tentativo di dire qualcosa, o semplicemente di respirare. Gli si inginocchiò accanto e, con un gesto rapido, l’afferrò per la capigliatura e fece penetrare senza affanno, quasi con delicatezza, la lama affilata nella giugulare, al di sotto della mastoide, recidendo la carotide. E coprì immediatamente la testa dell’antagonista con la muleta.

Però non riuscì ad impedire che un violento fiotto di sangue imbrattasse tutto il lato destro della sua vistosa livrea azzurra, per confondersi poi al suolo mescolandosi nella terra rossa.

Un urlo liberatorio di entusiasmo e di ammirazione, trattenuto per lungo tempo, proruppe dagli spettatori in tripudio sugli spalti.

Soltanto due persone sembravano non voler partecipare alla festa.

Alain Duvalier, che disgustato stava riponendo l’elettrobinocolo nell’astuccio.

E una donna con un largo cappello e un paio d’occhiali scuri, al di sotto dei quali l’uomo, se avesse diretto il binocolo verso quel puntino bianco dalla parte opposta, avrebbe potuto intravedere addirittura una lacrima.

La rotta

I sette potentissimi rompisabbia sembravano quasi divertirsi nel tracciare gli enormi varchi praticabili, di fronte alla prua della nave transdesertica che avanzava lentamente nell’ultimo tratto di crociera.

La navigazione nel deserto si era svolta tranquilla, perché le dune del Mediterraneo si spostavano lentamente in quel periodo dell’anno, dopo il Secondo Ritiro delle Acque verificatosi alla metà del ventunesimo secolo. Inoltre i venti spiravano deboli e la temperatura delle ore intermedie si manteneva accettabile, tanto da permettere a qualche passeggero intraprendente di salire sui ponti esterni, per osservare direttamente con i propri occhi lo sterminato panorama di sabbia dorata. Gli altri preferivano goderselo sdraiati sottocoperta, sorseggiando bibite fredde davanti ai videoblò disseminati sui belvederi.

Quel giorno i passeggeri usciti fuori ad affrontare la canicola del mattino erano due.

Uno era Alain Duvalier, l’uomo che, con i capelli scompigliati dal vento e lo sguardo malinconico al di sotto dei leggeri occhiali da vista, osservava dal ponte superiore centrale la snella figura dell’altra passeggera; la quale, più in basso sul ponte di prua, stava sfidando già da qualche minuto l’atmosfera afosa.

Una donna dai capelli lunghi e neri, protetti da un grande cappello bianco.

Parcheggio

Alain Duvalier aveva ricevuto il telemessaggio, che in seguito lo avrebbe portato in pieno deserto, al rientro nella sua cellula abitativa, qualche tempo dopo aver lasciato il parcheggio dei Bus Antigravitazione nei pressi del suo settore zonale ed essersi incamminato a piedi per la strada deserta, di ritorno dalla Neocorrida.

Quando era squillato il segnale acustico del telemessaggio, la prima volta non ci aveva neanche fatto caso, tanto era ancora sconvolto dallo spettacolo cui aveva assistito. Ma quando il trillo si ripeté per la seconda volta, si precipitò ad accendere il vecchio compuserver, pervaso da un’inquieta curiosità. Erano mesi che nessuno lo cercava più: da quando Marie lo aveva definitivamente mollato al bancone dell’El Dorado, davanti a sei bottiglie vuote di birra analcolica e a cinque avventori distratti. “Non riesco a dimenticare Pizarro!” aveva esclamato lei raccattando la borsetta e filandosela, lasciandogli il conto da pagare. Rassegnato, lui aveva porto sei crediti di plastica all’inserviente che, tutta intenta a sbirciare sull’idiovisore a parete la telenovela “I Riti del Sole”, se li era fatti scivolare sul pavimento mentre asciugava di malagrazia la superficie del banco.

Questo era l’unico pensiero che gli facevano venire in mente i telemessaggi via compuserver.

Ma stavolta aveva avuto la sensazione che qualcosa di molto diverso stesse per accadere.

Telemessaggi

Lo schermo del compuserver si illuminò ed apparve la solita richiesta di conferma di ricevimento del messaggio. Alain accondiscese con impazienza a tutte le stupide domande della macchina, e poi vide presentarsi finalmente un volto che non aveva mai conosciuto. Era un bel viso di donna. E sorrideva.

Parlo con il signor Alain Duvalier? fu la prima didascalia a scorrere nella parte bassa del monitor, mentre il sorriso continuava.

Sí, sono io. Lei chi è?

Una cosa analoga stava avvenendo sul video del compuserver della donna, intanto che Duvalier digitava il testo della risposta sulla tastiera.

Il mio nome è Julie Nativité.

Ah, è lei. Quella della lettera di qualche giorno fa.

Sí, sono stata io a chiederle di recarsi allo spettacolo odierno nella Plaza de Toros e di osservare attentamente le mani del torero.

Ma lei non si è fatta vedere, come invece mi aveva promesso.

Io però c’ero e la guardavo. Volevo sincerarmi che avesse creduto alle parole della mia lettera, prima di farmi riconoscere.

Bene, eccomi qua.

Ha notato qualcosa di strano?

Ho notato qualcosa di criminale.

Sí, giusto. Ormai non facciamo più distinzione. Criminale è diventato solo un sinonimo di qualcosa di strano, di originale. Qualcosa che ci fa parlare. Almeno per un po’.

Sí. E speriamo che non vada sempre peggio.

Mi sono messa in contatto con lei proprio per questo. Ho fatto un po’ di ricerche girando fisicamente per le vie della Città Interna e telematicamente sulla rete interzonale. Lei è l’unico che tuttora circoli a piedi per la strada.

Sí, è vero. Non ho mai incontrato nessuno. Neanche lei, se è per questo.

Aspetti a giudicare. Inoltre lei è l’unico a comportarsi ancora in modo autonomo e ad infischiarsene delle banalità ricorrenti sulle reti, senza adeguarvisi in alcun modo.

Le giuro che vorrei tanto non esserlo. Lei capirà: certe volte mi sento un po’ solo. ; > xiv

Dall’emoticon vedo che lei un po’ se ne intende. ; ) xv

Bene, pure lei. Ma non attacca. È da molto tempo che ho smesso di dedicarmi alle imprese estreme, come restare appeso agli anelli sull’abisso davanti al Monte Rushmore per la campagna presidenziale americana; e anche alla multimedialità. Sono più vecchio di quello che sembro. Non ho mai sopportato Don Chisciotte e ormai guardo solo verso oriente. Mi fido solo della parte dove sorge il sole. Da un po’ di tempo in qua.

Lo schermo trasmise il volto di lei che rideva e Alain sentì sciogliersi dentro di lui il ghiaccio del pregiudizio e le sorrise apertamente, attraverso la microtelecamera piazzata sul monitor.

Alain, posso darle del tu?

Prego, fai pure.

Tu sei la persona giusta. Non ti chiedo di cambiare il mondo. Ti chiedo solo di aiutarmi a capire. Ho la sensazione che le risposte che cerco io siano le stesse che stai cercando tu.

Ah, sí? Beh, non me n’ero accorto.

Però ti sei accorto del curaro di sintesi sulla punta delle banderillas!

Porto gli occhiali, ma il mio vecchio elettrobinocolo funziona ancora bene.

E non ti sei chiesto perché qualcuno voleva essere sicuro che Miguel il Navarro soccombesse?

Julie, non ho mai provato uno schifo più grande. Ma è un fatto mio. Quasi me ne vergogno. Hai sentito anche tu l’urlo della folla quando è sgorgato il sangue, no?

Uno scrittore del ventesimo secolo ci ha rammentato che quando suona la campana non ti devi chiedere per chi. Essa suona per te.

Bella roba il ventesimo secolo! Guerre e rivoluzioni. Lo odio, quel secolo.

È proprio lì che ti voglio portare. O piuttosto ti voglio portare da chi lo conosce molto meglio di noi due. A Mascate, dalla dottoressa Anna Gadamer.

Mai sentita. E come ci andiamo?

Faremo una bella crociera. Io e te. Verso oriente. Non sei contento? ; )

Per adesso mi accontenterei di incontrarti di persona.

Facciamo domani sera all’El Dorado?

No, meglio di no. All’One Way Ticket, dopodomani. ; >

One Way Ticket

La mano di lei si sporse verso la faccia di metallo dell’androide buttafuori per mostrare il tesserino d’ingresso. Il posto era poco illuminato ma dava comunque una sufficiente sensazione di sicurezza, almeno considerati i tempi. Un marchingegno colorato addossato alla parete simulava la presenza di un antico juke box e da lì proveniva il suono in sottofondo di una musica da sballo. Dopotutto, era questa la scenografia canonica che uno si poteva aspettare in un locale di mescita automatizzato.

Alain aveva notato il leggero tremito della mano di Julie, così le circondò la vita con il braccio sospingendola con tranquilla decisione nella talk room. Qui l’atmosfera in penombra non era certo più accogliente della sala d’ingresso, ma in compenso il luogo era poco affollato e si sedettero in una delle nicchie libere, dove furono immediatamente circondati dal distributore automatico. Una voce sintetica fece l’elenco dei prodotti disponibili. Alain scandì chiaramente il nome della birra analcolica prescelta, inserì due crediti di plastica, attese qualche secondo e prelevò due bicchieri sgocciolanti dalla fessura della macchinetta che se ne andò sferragliando. Duvalier diede un’occhiata al robot che si risistemava nel suo cantone, spegnendosi tutto. Depose le bibite sul tavolinetto, asciugandosi i polpastrelli sulla tovaglia e rivolse uno sguardo interrogativo alla sua ospite.

“Allora Julie, cosa c’è che non va? – chiese con un sorriso – Ho passato vent’anni della mia vita a cimentarmi con le imprese estreme per curare probabilmente i miei complessi d’inferiorità e fare un po’ di soldi. Non mi garba per niente, ma è da quando ero piccolo che mi hanno ripetuto che tutto ciò faceva parte della lotta per la vita. Anzi, che era questo il sale della vita, specialmente se mi riprendevano in olovisione. Adesso mi sono calmato, anche se mi do un tono col mio comportamento un po’ autonomo, come l’hai definito tu. Qualche volta mi chiamano all’agenzia di lavoro interinale e così arrotondo la rendita di quello che ho messo da parte. Sono stato bravo, ma non sono arrivato alla notorietà e alla ricchezza di quelli come il Navarro; comunque sopravvivo. Ripeto: cosa c’è che non va?”

“Alain, non hai visto il veleno sulle banderillas? Miguel il Navarro doveva morire. Ecco cosa c’è che non va: il gioco adesso è truccato! Prima, quando partecipavi anche tu, era pericoloso ma leale. Ora è tutto prestabilito. Ti sta bene questo? Ti sta bene che si decida prima e altrove quali e quanti debbano sopravvivere?”

Duvalier osservò la donna. Era proprio bella. I suoi lineamenti non erano né giovanili né particolarmente avvenenti. Ma quell’espressione decisa, e tuttavia tenera e perplessa che aveva negli occhi, la rendeva vera. Ecco: in un mondo di immagini preconfezionate, lei era vera. E non usava deodorante.

“Julie, ho fatto un po’ di scuole prima di intraprendere la mia carriera di jumper. So che il nostro non è il migliore dei mondi possibili, ma è quello che ho ricevuto in eredità da guerre e rivoluzioni che in tanti hanno provato a fare per cambiarlo. E sono tutti morti senza combinare un’acca. Un giorno avranno fatto dei rilievi statistici e da qualche parte sarà risultato che la percentuale dei morti deve cominciare a riequilibrare quella dei vivi. E avranno preso i loro provvedimenti, intervenendo tra quelli che mettono tutti i giorni a repentaglio la propria pelle per l’attività estrema che svolgono. In fondo tutti i jumper sanno che rischiano molto più degli altri.”

“No, Alain. Non si tratta più di un rischio. Si tratta di una certezza. Quello del Navarro non è un caso isolato. Stanno facendo fuori tutti coloro che provano ad inceppare il sistema. E non solo tra i jumper. Tra di essi vi è la percentuale maggiore, e non so perché, ma eliminano anche individui di altre categorie.”

“Due domande. Uno: perché lo fanno?…”

“Perché nessuno degli organizzatori del grande gioco ha interesse a che le regole cambino – lo interruppe con foga Julie; – anzi, solo che ci siano delle regole. Sono troppi gli interessi in ballo. Qual è l’altra domanda?”

“Tu come fai a saperlo?”

“Mio padre faceva parte dell’Organizzazione e, in qualche modo, voleva stabilire delle nuove regole. È lui che mi ha raccontato di qualcun altro che già ci aveva rimesso la pelle e dei giochi sporchi che stavano architettando nella Neocorrida. L’hanno ammazzato poco più di un mese fa.”

Duvalier fissò la donna e sentì crescere l’ammirazione nei suoi riguardi. Allungò la mano a toccare quella di lei. Poi la ritrasse e portò alle labbra il bicchiere, senza distogliere lo sguardo.

“Come fai a sapere che sono stati loro? Avranno fatto tutto per bene, senza lasciare tracce, no?” chiese poi.

“Certo. Hai ragione. Ma mio padre andava in vacanza a Tobago. E un anno fa si era confidato con un suo amico, un vecchio pescatore della costa. Una delle poche ancora pescose che esistano. Sono andata a trovare Giona, quell’uomo, poco dopo la morte di mio padre e mi ha rivelato che papà voleva fare qualcosa per ridimensionare il ruolo e il potere decisionale degli Organizzatori. Non gliel’hanno consentito.”

“Beh, Julie, cosa aspettiamo? Andiamo ad acchiappare il pescatore e portiamolo a testimoniare davanti all’Alta Corte Federata. Un po’ di giustizia esiste ancora!”

“Sí. Ma non esiste più Giona di Tobago” disse Nativité guardando Duvalier con gli occhi umidi. Alain sperò che fosse a causa del fumo acre che appestava il locale.

“Perché? Che gli è successo?” domandò, con un senso di indignazione che si faceva sempre più grande.

“Hanno ritrovato il suo corpo pietrificato e conficcato nella spiaggia, con un pesce morto tra le mani. Il messaggio doveva essere chiaro per tutti. Anche per me.”

“E a te chi l’ha comunicato?”

“Ho ricevuto un telemessaggio anonimo con le foto di quel poveraccio, via compuserver” rispose Julie abbassando gli occhi e disegnando cerchietti sulla tovaglia col dito bagnato. Poi sollevò il bicchiere e finì la sua birra, accendendosi una sigaretta di self controller sintetico.

Alain la vide stropicciarsi con noncuranza gli occhi e guardare da un’altra parte. Lasciò passare qualche minuto per consentire al fumo di fare effetto, poi con voce pacata le si rivolse nuovamente dicendo:

“Nativité, mi dispiace; però a questo punto credo che non ci sia più molto da fare.” Il tono delle parole era amaro, ma partecipe.

Julie emise una boccata di fumo, poi si voltò verso di lui e disse sottovoce, con fermezza:

“No. Mio padre non aveva solo un amico pescatore. Aveva anche una ex moglie. Una studiosa di storia della scienza. Probabilmente avrà confidato qualcosa anche a lei. Erano rimasti in buoni rapporti.”

“Nel frattempo, non saranno per caso arrivati anche a lei?” domandò Alain con un po’ di apprensione.

“No. Quella donna ha compreso tutto molto prima di noi. Tanti anni fa se ne è andata in Oriente, dove l’Organizzazione viene ancora tenuta alla larga. È la dottoressa di cui ti ho già parlato. Ora vive a Mascate e mi ha comunicato che sarebbe felicissima di conoscerci di persona per dirci qualcosa di più, dopo la morte di papà. È lì che vorrei andare con te.”

“Ma lei, a te non… Non ti conosce già? Voglio dire, non è tua madre?” chiese titubante Duvalier.

“Non lo so. Non ci ho mai capito niente” fu l’imbarazzante risposta che Julie Nativité diede dopo una breve pausa, chinando il capo e spegnendo la sigaretta nel portacenere autopulente fissato al muro della nicchia.

In porto

La nave era penetrata fin dentro la città sfruttando la versatilità delle strade sovrapponibili, a scomparsa idraulica ed ipogravitazionale, una delle poche megatecnologie costruttive occidentali importate in Oriente.

Quando Julie ed Alain furono discesi dal bastimento sulla banchina del porto a conformazione variabile, costruito esattamente in mezzo alla riproduzione virtuale dell’antico centro storico, si voltarono ad osservare il grandioso spettacolo della colossale prua della nave che si stagliava sulle facciate arabescate dei palazzi illuminati dal sole, nitida e poderosa come una scultura optomagnetica. Grazie alle tecnologie iperleggere utilizzate, i rumori meccanici risultavano ridotti al minimo e, comunque, venivano mascherati da una musica melodiosa, così ben riprodotta che sembrava provenire dal cielo stesso.

Ma questa non era che l’ultima di una serie di visioni straordinarie che avevano accompagnato la rotta di Julie ed Alain.

Molto prima di giungere al mare cristallizzato dello Stretto di Hormuz, agghiacciante reliquia delle ritardate conseguenze nel tempo di quella che Alain reputava una delle guerre più assurde del ventesimo secolo, ormai trasformata in innocua curiosità turistica, la nave aveva virato di bordo per inoltrarsi nel canale artificiale di collegamento con il Deserto Persico, in mezzo agli attuali fiumiciattoli che secoli prima erano stati i grandi corsi d’acqua del Tigri e dell’Eufrate. Julie ed Alain affacciati alla murata avevano visto con i propri occhi, al di là delle pareti sabbiose del canale, lo spettacolo dei Nuovi Giardini di Babilonia, di cui si favoleggiava in Occidente. Quei palazzi altissimi, quelle strade sopraelevate, quelle ferrovie incredibili in mezzo ai ricostruiti giardini pensili, eredi di quelli leggendari dell’arcaica Babilonia, facevano da cornice sfarzosa alla rotta di avvicinamento verso Mascate, la più prospera e pacifica città dell’Oriente, che non aveva nulla da invidiare, per quanto riguardava le tecnologie sostenibili, alle confuse Agglomerazioni Abitative occidentali.

In conclusione, quello che essi videro dalla nave, prima di arrivare in porto, fu l’inquietante testimonianza che, benché il sole continuasse a spostarsi da est verso ovest, l’Occidente si stava espandendo ineluttabilmente in direzione dell’Oriente.

Nessuno lo disse all’altro ma, mentre contemplavano il paesaggio, nella testa di Julie e di Alain passò lo sgradevole pensiero di essere due granellini buttati in mezzo all’ingranaggio, nel tentativo di bloccare un gigantesco meccanismo di portata epocale.

Laser faro

Julie ed Alain arrivarono all’albergo su uno di quei vecchi fly taxi che l’occidente svendeva sui mercati orientali, e che qui poi venivano accortamente revisionati ed adattati. Difficili da guidare, erano però sicuri e confortevoli, affidati alle mani giuste. E tali si erano dimostrate quelle del loro pilota; al quale essi si erano immediatamente rivolti per raggiungere, subito dopo il disbrigo delle formalità, la meta principale: l’abitazione di Anna Gadamer. Gentile e piacevolmente loquace, il conduttore dell’aviomobile aveva accettato di portarli all’indirizzo della dottoressa. Aveva atteso la loro sistemazione in hotel e poi, fattili imbarcare di nuovo sull’apparecchio, mentre volavano aveva illustrato con allegra cortesia le zone e i quartieri principali della città intravisti dai finestrini e la rotta seguita per arrivare al settore del Laser faro, nel cui palazzo principale era situato l’appartamento della scienziata.

“Conosco bene la signora Gadamer – aveva detto infine José sorridendo sotto i baffi da latinoamericano mentre cabrava elegantemente al di sopra dell’edificio delle Terme; – è molto tempo che risiede nella nostra città. Me ne parlava tanto mia madre Pilar, che Dio l’abbia in gloria! La Dottoressa ha aiutato molti di noi, figli di emigranti, quando eravamo piccoli; e anche adesso ci dà una mano, se cerchiamo lavoro. È lei che mi ha mandato in un posto serio per prendere il brevetto di fly taxi driver, e raddrizzare la mia vita. Sono contento di conoscere due suoi parenti. Buon sangue non mente! Così dicono dalle nostre parti.”

Pochi minuti dopo erano arrivati e José interruppe i suoi discorsi per valutare con precisione l’inclinazione della rapida picchiata in ipogravitazione; planò dolcemente e depose con cura millimetrica il velivolo sulla superficie avioportuale dell’Osservatorio adiacente al palazzo di destinazione.

“Muy bien. Eccoci qua, amigos! Sono quaranta crediti. Vi aiuto a scendere e poi ci salutiamo.”

Giunti in coda al fly taxi, Alain allungò al pilota una banconota da cinquanta dicendo: “Grazie comandante, e tenete il resto.”

“No, señor. Il comandante si chiama José e quando José dice quaranta, vuol dire quaranta!” esclamò con benevolenza il giovane, ravviandosi i folti riccioli scuri e porgendo a sua volta il resto e un bigliettino ad Alain.

“Qui – spiegò – c’è scritto dove potete rintracciarmi nel caso aveste ancora bisogno di me. Non si sa mai! Non faccio solo il pilota e ho un sacco di amici.” Strizzò l’occhio e poi concluse sorridendo:

“Arrivederci, vagabondi!”

“Addio, José. E grazie!” fecero in coro Julie ed Alain.

“No, non si dice mai addio! Porta male. Lo ripeteva sempre, mia madre. Dio l’abbia in gloria!”

“Sei bello, José. Ciao!” lo salutò allora calorosamente Julie.

“Grazie, señorita Julie. Mi ricordi alla Dottoressa!”

Restarono tutti e due a guardarlo correre e infilarsi velocemente dentro l’aeromobile.

Allorché questo si innalzò sollevando una folata di vento, mentre Julie si voltava per proteggersi gli occhi dalla polvere, Alain ripose accuratamente in tasca il recapito di José, continuando a guardare verso l’orizzonte rossastro dove il fly taxi era già sparito col sopraggiungere del buio, in direzione dell’Aeroporto.

Spiegazioni

Dopo pochi minuti, Julie ed Alain annunciavano la loro presenza alla richiesta di identificazione effettuata dalla voce sintetica del robobutler*, in attesa dietro la porta di vero legno dell’appartamento di Anna Gadamer.

La dottoressa, dopo aver intimato a Bo But (così lo aveva chiamato) di ritirarsi fino al commiato degli ospiti, li accolse entrambi con amabilità e premura. Ma Alain si avvide che i suoi sorrisi erano tutti per Julie. E anche Julie aveva assunto un’espressione smagliante, in presenza della figura gradevole ed energica della studiosa. Nei suoi occhi si distingueva non solo una profonda ammirazione per l’anziana scienziata, ma anche l’attesa impaziente di una conferma: la conferma di uno stato d’animo sperimentato per lungo tempo.

Dal canto suo, Alain aveva subito provato una grande simpatia per la dottoressa che appariva ancora affascinante, nonostante l’età avanzata. La donna portava i capelli argentei raccolti con eleganza sul capo. Il lungo vestito aderente, di seta naturale, fasciava la sua persona snella e slanciata di un bel blu cobalto.

Mentre la seguivano per un corridoio illuminato da realistiche fiaccole elettroniche e tappezzato di arcaici dipinti a olio, prima di varcare la soglia dello studio, dove evidentemente la Gadamer aveva idea di intrattenersi con loro, Duvalier abbandonò i convenevoli ed entrò subito in argomento dicendo:

“Dottoressa, sia sincera con noi. Non sappiamo se lei abbia delle risposte certe alle nostre domande, però deve sapere che quando la lasceremo e torneremo in Occidente nella nostra città, non avremo più alcun’altra possibilità di comprendere fino in fondo quello che sta succedendo da noi, là.”

Anna Gadamer smise di sorridere e guardò con attenzione Alain.

“Signor Duvalier, conosco bene quello che è capitato a voi, e soprattutto a Julie” disse la dottoressa, mentre con un gesto cordiale li invitava ad accomodarsi in due piccole poltrone di fattura antica e preziosa, disposte di fronte ad una scrivania di legno massello, istoriata con una tecnica ed una accuratezza che Alain non rammentava di aver mai visto da nessun’altra parte, dietro alla quale la scienziata si sedette con spontanea eleganza di movimenti su di una poltrona dall’alto schienale.

Inoltre, senza farsi notare, scrutò con compiacimento in tutta la sua persona Julie che, ancora in piedi, era tutta occupata ad adattare la gonna per sistemarsi più comodamente sulla poltroncina. Poi riprese a parlare dicendo:

“Io so che morti sospette ed uccisioni più o meno programmate si verificano nelle vostre città. Ma questo è sempre accaduto nella storia, e nelle più diverse situazioni di potere. La cosa strana è che adesso tutto ciò avvenga ormai frequentemente e tra l’indifferenza dell’opinione pubblica, per non dire una certa soddisfazione o addirittura complicità.” A questo punto la dottoressa si interruppe per sorridere ai cenni di assenso da parte dei suoi interlocutori.

“Sapete perché mi sono specializzata nello studio del ventesimo secolo? – riprese a dire dopo aver aperto un cassetto e tràttene delle carte. – Perché questo tipo di aberrazione individuale e sociale, quest’indifferenza nei confronti della vita e della morte, prese l’avvio in quel secolo, quando le forze contrastanti presenti allora nella società lottavano fra di loro per il predominio da conquistare. E lo facevano con tutti i mezzi: non disdegnando nemmeno la circonvenzione di individui che diventavano complici dei più abietti crimini, per soldi o per mistificati ideali; dall’una e dall’altra parte.”

Alain sorrise compiaciuto e, approfittando della pausa nel discorso della Gadamer, si volse verso Julie per affermare:

“Ho ragione ad odiare il ventesimo secolo: un secolo di guerre assurde e di abominio rivoluzionario.”

Anna Gadamer lo guardò perplessa; fece finta di nulla e proseguì:

“Gli uomini pian piano si abituarono ad accettare la morte, o addirittura l’uccisione dei propri simili, come una sorta di selezione innaturale che permetteva ai più fortunati di vivere in una ricchezza ed opulenza effettive, mentre a tutti gli altri, addomesticati con le briciole, veniva fatta balenare l’illusione che la vetta potesse essere facilmente raggiungibile; da ognuno. Quindi, agli occhi della stragrande maggioranza, questa selezione non era poi così innaturale, costituendo il prezzo da pagare per creare e mantenere un sistema in grado di fornire, all’apparenza, rapido arricchimento e soddisfazione immediata di bisogni per tutti i capaci; ossia coloro che vi si sottomettevano. A distanza di alcuni secoli, la situazione non è certamente cambiata, anzi…”

“Eppure noi avvertiamo che tutto ciò è… è disumano! – intervenne Julie. – Alain ed io, e come noi spero tanti altri, siamo stufi di questa violenza ambientale, oppressiva, che ci fa desiderare di ritornare a casa al più presto, magari dopo aver assistito alla spettacolare uccisione di un torero o di un competitore, o aver visto in olovisione le fasi più cruente delle corse ad eliminazione, insomma tutte quelle imprese estreme che hanno come protagonisti veri non gli uomini, ma il loro aberrante desiderio di potere e di denaro o, in mancanza, di morte e…”

A questo punto la dottoressa Gadamer diresse lo sguardo verso Nativité e, alzando con garbo la mano, impose il silenzio. Sorrise con commiserazione e disse calma, indicando verso il mucchietto di carte ritirate precedentemente dal cassetto:

“Guarda, Julie! Osserva bene tutte queste fotografie.”

Julie avvicinò a sé le vecchie immagini che Anna le porgeva e prese a sfogliarle una per una, passandole poi ad Alain che, incuriosito, nel frattempo si era avvicinato ancora di più alla scrivania.

“Ma queste sono tutte doppie fotografie delle medesime persone! E qualcuna l’ho pure vista tanti anni fa sui libri di storia della scuola!” esclamò Alain con l’aria di chi si sente preso in giro, mentre si volgeva verso Julie che lo osservava impassibile.

“Non del tutto esatto, signor Duvalier! – lo interruppe risentita la scienziata. – Certo, alcuni sono i personaggi famosi che lei avrà senz’altro trovato anche sui libri di scuola, ma quelle non sono delle doppie foto: sono doppie le persone che ritraggono!”

Julie ed Alain si scambiarono un’occhiata. Alain cercò negli occhi di Julie un riscontro alla sua incredulità, ma invece di trovarvi la medesima incertezza si accorse che lo sguardo di lei era cambiato: Julie ora lo guardava con la stessa espressione che un tempo lontano avevano le sorelle maggiori quando spiegavano ai loro fratellini che Babbo Natale non era mai esistito, e che la sua era solo una bella favola.

“Quelli, signor Duvalier e Julie, sono cloni: esseri riprodotti da altre persone che ne sono, diciamo così, gli originali, i pattern. Gli unici che negli ultimi secoli hanno sperimentato sulla propria pelle il destino della solitudine in un mondo che li voleva meno uguali degli altri, dei loro stessi modelli originali; ma che non hanno accettato questo destino e gli si sono ribellati. O almeno ci hanno provato, ponendosi delle domande per conquistarsi un’individualità che non gli è stata mai riconosciuta.

“E sono soprattutto loro che gli Organizzatori cercano di eliminare, quando diventano troppo pericolosi per la sopravvivenza dell’attuale stato delle cose. Lì da voi, in Occidente.”

La dottoressa tacque, poi con un sospiro si trasse all’indietro appoggiandosi allo schienale dell’antica poltrona di pelle. Abbassò gli occhi dubbiosa e congiunse le mani all’altezza del mento.

Julie aveva sostenuto lo sguardo di Alain per lunghi momenti poi, proprio mentre stava per dirgli qualcosa, l’uomo si era scosso e si era girato verso la Gadamer, che nel frattempo si era rivolta a lui con espressione severa, enunciando in tono quasi cattedratico:

“Signor Duvalier, il ventesimo secolo non è stato soltanto il secolo delle guerre assurde e dell’abominio rivoluzionario, come lei dice. È stato anche quello di grandi pensatori, che cercarono di opporsi a quella specie di selezione innaturale che il mondo stava allora conoscendo per la prima volta.

“Uno di questi affermò che il mondo è la totalità dei fatti, e non delle cose. Scrisse proprio così. Solo che i «fatti» non si possono vendere, le «cose» sí. E di questo si era già reso conto un filosofo del secolo precedente, del cui nome non si sa più nulla, il quale disse in una sua opera capitale che il mondo stava diventando un’immensa raccolta di merci. Vale a dire quelle cose che oltre ad avere un valore d’uso hanno anche un valore di scambio, anzi spesso unicamente solo questo: infatti si possono vendere; sono, appunto, «cose».”

Dei della futilità

“Vede, Alain – proseguì con dolcezza la dottoressa Gadamer, dopo aver guardato negli occhi Julie, – un gattino appena nato, un filo d’erba che cresce in un prato, la purezza dell’acqua che scorre o il pianto di un bimbo, sono dei «fatti». L’uomo li rispetta, o li dovrebbe rispettare, non perché si possano vendere o scambiare, ma perché comprende che sono i fatti del mondo. E, proprio come un albero o un quadro, non importa che questi «fatti» derivino dall’opera della natura o dalla mano dell’uomo: hanno tutti lo stesso valore di esistenza.

“Per lungo tempo, nei secoli scorsi e in luoghi diversi, l’uomo ha tenuto più in conto il valore dei fatti che non il valore di scambio delle cose. È stato come un genitore che venera lo sbrindellato orsacchiotto del suo bambino, anche se per un altro non vale niente.

“Poi qualcuno ha pensato che se si fosse riusciti a trasformare anche i fatti in «cose», la possibilità di aumentare i profitti non avrebbe avuto più limite: si potevano prendere i fatti del mondo e trasformarli in cose; anzi dalla fine del ventesimo secolo in poi si è creata un’infinità di situazioni e di oggetti perfettamente inutili, ma con un valore di scambio enorme, imposto loro artificialmente influenzando pure il modo di vita delle persone. Persino il dolore fu tramutato in merce di scambio olovisiva. La sofferenza degli individui divenne spettacolo per la collettività, indotta a confondere realtà e finzione. Gli amministratori dell’umanità furono capaci di far discendere dal cielo gli dei e di farli salire sulle loro macchinette a scontro, riducendoli a dei della futilità.

“E pare che proprio agli inizi, ma poi per tutto il corso del ventesimo secolo, in tanti si fossero accorti di questa specie di truffa apocalittica. Ci furono delle rivoluzioni. Molti protestarono, altri si ribellarono sconsideratamente e pagarono con la vita od il carcere la loro utopia di impedire questa suprema trasformazione del mondo.

“Soprattutto gli artisti, avvezzi da sempre ad interpretare nel presente i segni del futuro, intuirono il dramma e ci misero in guardia. Alcuni di essi non solo prefigurarono le aberrazioni del nostro mondo attuale, ma addirittura le rappresentarono attraverso decine di opere di vario genere, utilizzando soprattutto i media visuali.

“Lei non crederebbe mai che qualcuno di costoro, verso la fine di quel secolo da lei, Alain, tanto vituperato, sia stato capace di immaginare e dipingere con stupefacente rassomiglianza il Laser faro in cui ci troviamo, il Palazzo delle Terme che senza dubbio avrete sorvolato, la nave transdesertica che vi ha portato fin qua, o l’osceno spettacolo della Neocorrida. Eppure è stato così: io ne possiedo i resoconti e le prove tangibili. È già successo nella storia dell’arte, sa? Almeno quando l’arte esisteva ancora. Mi risulta che un giovane paleobiologo dell’Università di Taškent, Sator Mandel, stia effettuando interessanti studi sull’interazione tra quelle che noi chiamiamo facoltà spirituali e il nostro patrimonio genetico.”

Duvalier sollevò lo sguardo assorto verso la dottoressa. Era ammutolito. Quegli occhi ancora limpidi e belli, e quelle affascinanti argomentazioni lo avevano colpito esattamente in ciò che più di rassicurante credeva di avere al mondo: la sua scorza di cittadino incurante e scettico. Si voltò in direzione di Julie e si avvide che anche lei aveva un’espressione pensosa. Più di quanto volesse far apparire.

“Ma la cosa più tremenda – continuò risoluta Anna Gadamer, – e qui devo dare ragione a Nativité allorché afferma che il desiderio di potere e di denaro hanno mutato l’essenza stessa dell’uomo, fu quando gli attivatori di produttività si accorsero che avevano trasformato tutto quanto in «cose», tranne l’uomo stesso. D’altronde come poteva un individuo accettare di scomparire come valore in sé, come «fatto», per diventare un puro valore di scambio, una «cosa»?

“La risposta fu presto trovata: prima avevano convertito il lavoro dell’uomo, e quindi la sua intera esistenza, in merce; adesso si trattava di alterare l’uomo stesso, clonandolo. Alla fine del ventesimo secolo erano in corso e già a buon punto elementari esperimenti di clonazione; in pochi decenni divenne possibile duplicare l’uomo, farne una copia carbone, un doppione. Ognuno avrebbe potuto avere il suo clone da utilizzare come parte succedanea di valore di scambio. Ogni essere umano avrebbe coronato il sogno di mantenersi individualmente come valore, come elemento nobile, con i suoi sogni, i suoi desideri e le sue ambizioni, scaricando sul suo doppio di seconda serie il compito di accumulare su di sé fatiche e sofferenze, sogni delusi e frustrazioni: la spazzatura dell’esistenza. Una nuova schiavitù, ma senza costi di produzione. Si ha notizia in quegli anni di giovanissimi cloni indotti alla prostituzione, o di altri costretti alla donazione coatta di organi a favore dei loro originali.

“In un mondo di merci, l’uomo non sentiva più di esistere come fatto, doveva diventare una cosa. Ma non avendo il coraggio di operare questa trasformazione esistenziale direttamente su di sé, la proiettò sui cloni. Per vivere alle condizioni imposte e accettate dalla nuova società, che nel frattempo si era affermata, l’uomo doveva diventare un oggetto e l’oggettivazione perfetta era duplicare la propria soggettività. Ciascuno col suo clone.”

Anna Gadamer tacque perché si era accorta che l’atteggiamento di Alain Duvalier era cambiato. La sua scettica sicurezza, che prima gli si rifletteva negli occhi, aveva lasciato il posto ad un dubbio piccolo piccolo, a delle sopracciglia appena aggrottate… Un dubbio che avrebbe potuto assumere le proporzioni di una valanga devastante, come lei sapeva bene.

Infatti Alain si toccò il mento con la mano e poi, assestandosi gli occhiali, la guardò fissamente e le disse, con un sospiro:

“Dottoressa Gadamer, allora lei vuol dire che anche noi…”

“Sí. Anche noi potremmo essere stati clonati. O essere noi stessi dei cloni.”

“E chi sarebbero i nostri cloni?”

“Quasi mai lo si viene a sapere. Nei laboratori sono furbi e discreti. Solo i pattern ricchi e potenti ci riescono, più o meno legalmente; anche per i cloni altrui.”

“Ma allora la sua è una supposizione?”

“No. Ho la prova. E anche lei, Alain, ce l’ha.”

“Io? Dove?”

“Dietro le sue spalle. Julie Nativité è il clone di se stessa.”

Duvalier si voltò e vide Julie che stavolta gli sorrideva ironicamente, ma con tenerezza.

“Ma lei, dottoressa, come fa a esserne sicura?” chiese con perplessità Alain.

“Perché… Perché l’ho clonata io” rispose in un sussurro esitante Anna Gadamer.

“Oh, cielo! E il motivo?”

“Humbert Nativité ed io avemmo una figlia di nome Julie, che contrasse una malattia progressiva e inguaribile prima dell’adolescenza. Da genitori, non resistemmo alla tentazione di sconfiggerne la morte, di evitarne la scomparsa. Prima che morisse, chiedemmo a Julie se avrebbe acconsentito a lasciarci una sorella, una sua gemella. La ragazza comprese meglio di tanti altri la situazione e accettò. Così, dopo la sua morte, eseguii io stessa il procedimento di clonazione: una sua piccola cellula divenne una creatura da far nascere e crescere.

“La Julie Nativité che lei conosce è identica alla sua «sorellina» fisicamente; ma purtroppo, o per fortuna, non sapremo mai se lo sarebbe stata anche per tutti gli altri aspetti, diciamo così, più profondi. Comunque, credo che il nostro sia stato uno dei pochi casi in cui la clonazione venne realizzata soltanto per amore. Un amore egoistico, lo ammetto. Ma la Julie che ha davanti non penso che sia infelice. O, se lo è, non lo è di certo per colpa mia o del povero Humbert. Sembra che le cause di infelicità oggi comincino ad essere ben altre. Specie in Occidente. Lo stesso Humbert se ne era reso conto e, dall’alto della posizione raggiunta, voleva fare qualcosa, specie per i cloni e i loro diritti misconosciuti. Ma l’importanza della subalternità di costoro per tutto l’ordine economico è tale che, ovviamente, proprio i suoi colleghi non gliel’hanno permesso.”

Alain guardò interrogativamente Julie, la quale fece di sí con la testa e confermò:

“Mio padre mi aveva detto tutto, Alain. Ma io sinceramente non gli avevo mai creduto completamente. Mi sembrava così irreale. Fino ad ora.” Poi si voltò verso Anna Gadamer e sorrise.

“Grazie, comunque” le disse sottovoce, stringendole con affetto la mano.

“Julie, piccola mia! Con tutta la mia scienza, non riuscirò mai a sapere quanto allora la nostra decisione sia stata giusta. Ma oggi provo un piacere infinito nel vederti in carne e ossa, qui davanti a me!” esclamò Anna, volgendosi commossa ad abbracciare il clone superstite di sua figlia.

Congedo

“Ma possibile che non ci sia modo di riconoscere un clone, senza ricorrere alla corruzione?” domandò interessato e scosso Alain Duvalier, dopo qualche momento di rispettoso silenzio.

“Un metodo potrebbe essere l’osservazione empirica. Quel giovane ricercatore di Taškent di cui ho parlato prima – riprese con fervore la dottoressa Gadamer, – ha raccontato in un recente lavoro, poco diffuso per la verità, come secondo lui i cloni di oggi siano caratterizzati da una notevole forza nervosa e da un grande coraggio, che li portano a compiere imprese fuori dall’ordinario; quasi una sorta di incoscienza fatale, che lui non sa dire se dettata da una segreta volontà di autodistruzione o da un morboso quanto comprensibile desiderio di riscatto sociale. Quest’ultimo movente sarebbe confermato dal fatto che la maggior parte di essi studia e legge molto; come se così facendo, e più in generale informandosi e documentandosi con qualsiasi mezzo, volessero ricostruirsi qualcosa di originale nel loro patrimonio genetico, attraverso un’integrazione di carattere, diciamo così, intellettivo e spirituale; proprio oggi che la lettura e la scrittura sono trascurate e sembrano diventare sempre più l’inutile lascito di una cultura ormai superata, almeno da voi in Occidente. Ciò confermerebbe tra l’altro le osservazioni e le intuizioni di Sator Mandel.

“Inoltre, è molto probabile che i jumper protagonisti in Occidente delle famigerate imprese estreme siano creature clonate, considerando le loro innegabili doti di coraggio e di voglia di riscatto; tuttavia, se fossero pattern originali, non si potrebbe che ritenerli solo dei poveri incoscienti frustrati. Questo è almeno quanto ribadiva Humbert, in una delle sue ultime comunicazioni a proposito delle scoperte che faceva sull’Organizzazione, prima che venisse assassinato.”

Alain, colpito, alzò gli occhi verso la Gadamer, trattenendo per un attimo il respiro. Poi, mentre stava per obiettare qualcosa, sentì la mano di Julie posarsi sulla sua e le labbra sfiorargli l’orecchio e sussurrare:

“Stai tranquillo: non può essere il tuo caso. La vita è bella perché è varia. E in famiglia, di clone, ne basterà uno.”

Alain si voltò verso il viso di Julie che gli era a pochi centimetri. Vide che gli faceva una strizzatina d’occhio, e poi sentì la mano di lei diventare una carezza sulla guancia e le labbra trasformarsi in un bacio sulla bocca.

Anna Gadamer, soffocando il desiderio di guardarla il più possibile, distolse discretamente gli occhi dalla figlia che non vedeva da tanti anni. E fu contenta quando sentì di nuovo la sua voce tentare di farle la domanda da un miliardo di crediti.

“Ascolti Anna… Mi scusi, ma non riesco proprio a chiamarla in un altro modo. Come dovrei, forse…”

“Non preoccuparti, Julie: non puoi trattarmi all’improvviso da madre, date le circostanze. Cos’è che mi volevi dire?” l’incoraggiò lei, riportando lo sguardo sulla figlia.

“Ecco… Le volevo chiedere: potrà l’uomo, il genere umano intendo dire, ritornare un giorno a… insomma, recuperare il senso della vita?”

“Capisco quello che vuoi dire, cara Julie – la voce della donna si era fatta adesso perplessa, quasi incerta. – Io credo che il genere umano potrà salvarsi unicamente rinnegando dal profondo la sua attuale disumanità. Questo potrà avvenire solo quando un numero sempre più grande di individui, sarà in grado di operare una specie di salto oltre il proprio egoismo, e guardare all’al di là, non come ad un paradiso da raggiungere dopo la morte, ma come ad una strada sulla quale camminiamo tutti in questa vita.

“Gli Organizzatori in Occidente sono molto preoccupati perché pare che proprio i cloni, quelli coi quali si procurano i maggiori profitti in maniera più o meno lecita, abbiano cominciato a pensare in questi termini e siano stati capaci di questo supremo atto individuale di scelta; sia pure in modo ancora sparso e disorganizzato.

“È l’unico atto che potrebbe restituire al genere umano l’immortalità degli dei. Il Salto Immortale… Era fatale che a compierlo per primi sarebbero stati gli appartenenti a quella che viene considerata ingiustamente una sottospecie!”

La dottoressa li guardò tutti e due, mentre pronunciava le ultime parole in tono quasi profetico. Poi rise sommessamente di se stessa e si alzò dalla poltrona.

Era notte fonda e Anna Gadamer congedò bonariamente Julie ed Alain con la scusa dell’età avanzata. Ma, per il corridoio, li tenne affettuosamente sottobraccio, senza essere in grado di spiccicare parola.

Quando si trovarono davanti alla porta, Anna Gadamer strinse a sé la figlia e le disse:

“Vorrei che questo momento non finisse mai. Sei bella, Julie. Sei bella e forte: ti ho guardata a lungo, prima, mentre ti sedevi. Non consentire mai a nessuno di mettere in dubbio la tua individualità. Ora sono sicura che tuo padre ed io prendemmo la decisione giusta… Tu sei l’unica, nostra Julie!”

Pronunciò d’impeto la frase finale; poi si volse verso Alain e, abbracciando anche lui, disse:

“State attenti. Le notti a Mascate sono belle e tranquille, ma anche qui l’Occidente può avere occhi e orecchie. E mani… Che la millenaria sapienza dell’Oriente vi custodisca. Chissà se ci rivedremo ancora. Addio!”

“Non si dice addio. Ce l’ha detto José!” scherzò malinconicamente Julie, accarezzando le mani della madre e oltrepassando la soglia con Alain al fianco.

“Ah, sí? Me lo ricordo: è un bravo ragazzo – osservò con apparente noncuranza la donna. – Non si vorrebbe, ma in certe situazioni cos’altro si può dire?”

Si sorrisero per l’ultima volta e, mentre Julie ed Alain si allontanavano definitivamente con una nostalgica occhiata dietro le spalle, Anna Gadamer sopraffatta dalla commozione richiudeva immediatamente la porta, appoggiandovisi contro con la schiena.

Poi, trascorso qualche minuto, implorò sottovoce:

“Mia adorata Julie, se c’è del male in giro per le notti di Mascate, che questo male ricada su di me!”

Si coprì il viso con le mani e scoppiò in un pianto dirotto.

Bo But, confinato in un angolo dell’ingresso, non poteva intervenire per gli ordini ferrei ricevuti; ma, se fosse stato un umano, avrebbe potuto assicurare a chiunque di non avere mai visto la dottoressa in quello stato.

Notte rossa a Mascate

“Sono contenta di averti dato retta, Alain. È meraviglioso passeggiare di notte. Arriveremo in albergo che sarà quasi l’alba, ma avremo tempo per riposarci tutta la giornata di domani.”

Era Julie che parlava, con il bel viso chiaro illuminato alternativamente dai riflessi rossastri dell’orizzonte e dai lampi dei fari delle aviomobili nella notte; eppure lui quasi non l’ascoltava.

Improvvisamente Alain le si rivolse con foga, spaventandola un po’.

“Julie, non parlare soltanto tu! Stammi a sentire; anch’io ho bisogno di parlare. A te, al primo vero essere umano che ho incontrato da chissà quanto. Ho udito la tua storia. Sei quello che sei, ma almeno tu ora lo sai; ne sei certa; e, se sei un clone, lo sei per una scelta d’amore. Il tuo pattern… o tua sorella, non so come chiamarlo… è morto, non c’è più. Nessuno verrà un giorno a bussare alla tua porta per reclamare un organo da trapiantare o una prestazione sessuale fuori programma. O per obbligarti ad affrontare il demonio al suo posto. Ormai l’unico rischio che corri è di provare un dolore immenso alla morte di tua madre, adesso che l’hai ritrovata. Però questo fa parte del gioco. Ma io, io chi sono? Un clone o un originale? L’hai sentita la Gadamer: mentre parlava sembrava che facesse il mio ritratto. In nome di Dio, voglio sapere se la mia vita appartiene a me, o a qualcun altro!”

“Alain – la voce di Julie assunse un tono spazientito, – se fino a qualche anno fa ti sei messo a correre sugli sfiati bollenti delle fabbriche sotterranee, mettendo a bagnomaria le palle, l’hai fatto solo perché sei un avido o un frustrato, stai certo! Io non ci vedo nulla di eroico. I moventi dei cloni, l’hai sentito, sono un po’ diversi e molto più giustificabili. Sono stata a casa tua e lì, ti assicuro, c’è la prova che tu sei proprio un originale. Anna ha detto che i cloni sentono un bisogno irresistibile di leggere.”

“Beh, e allora?”

“Alain! A casa tua non ho visto un libro, che è uno!”

“Il fatto che io non legga, non vuol dire affatto che io non abbia voglia di conoscere, di sapere! Noi due ci siamo incontrati proprio per questa ragione. E Anna ha detto anche questo dei cloni.”

“Ma è diverso, Alain! La tua è la naturale curiosità di ogni essere umano che cerca di sapere chi è e in che mondo vive.”

“Era così secoli fa, pare. Poi, non mi sembra che ci sia molta differenza!”

“Ci sei arrivato. Questo è il punto: non dobbiamo più fare differenza tra originali e cloni. Siamo destinati all’uguaglianza; voi e noi!”

“Dannazione! Io voglio sapere se ogni volta che apro la porta di casa, mi devo aspettare un’eventuale richiesta di requisizione da parte di un maledetto pattern, o no. Non voglio fare la fine di Giona di Tobago!”

“Giona non l’hanno fatto fuori perché era un clone.”

“E perché, allora?”

“Te lo sei scordato? Perché sapeva troppo!” urlò Julie.

Alain la guardò, agghiacciato.

“Esatto, Alain! Anche tu ora sai troppo. Come me, e…” Anche Julie lo fissò atterrita.

Si fermarono un attimo, prima di voltarsi angosciati per scrutare nell’oscurità.

Poi si misero a correre, sperando di farlo in direzione della più vicina fermata di fly taxi.

Cos’era quel puntino rosso che ballonzolava nell’aria, tentando di appiccicarsi in continuazione sulla loro fronte?

Il primo sparo andò a vuoto, nonostante il puntamento laser. Il secondo e il terzo li raggiunsero in mezzo ai piedi, mentre si precipitavano a perdifiato lungo la buia discesa che costeggiava il quartiere alloetnico. Era lì che ogni città radunava provvisoriamente gli immigrati. Però non tutti se ne allontanavano, così questi quartieri col tempo diventavano un babelico incrocio di culture diverse.

Fu questo pensiero che, in un baleno, fece venire ad Alain l’idea della salvezza.

“Presto, Julie! Buttati in quel portone, subito!”

La donna stava per chiedere dove, quando il quarto colpo le sfiorò l’orecchio sinistro. Voltandosi istintivamente a destra vide, scolpito da un fascio di luce fluttuante nel buio, un alto portale blu appena socchiuso.

D’istinto vi si gettò dentro, seguita a ruota da Duvalier.

Per il momento ce l’avevano fatta. Lo sparo di una vecchia ma collaudata carabina laser era di lunga gittata, ma fortunatamente non poteva mutare traiettoria e voltare in un portone, oltre il quale si scorgeva la strada della salvezza: una strada che, nonostante l’alba stesse per sopraggiungere, era già piena di gente indaffarata.

“È stata una buona idea infilarci qui dentro, Alain. Ma come diavolo ti è venuta in mente?”

“Ho riconosciuto questo quartiere: è quello degli emigranti.”

“E allora?”

“José è figlio di un emigrante e ci ha lasciato questo – disse Alain, sventolando il biglietto che il pilota gli aveva dato. – Inoltre ha detto di avere un sacco di amici. Mentre mi pare che noi non ne abbiamo proprio nessuno!”

Un colpo da dio

“Non vi preoccupate, amigos. Qui siamo al sicuro. Si può rimediare a quello che vi è successo: a Mascate gli Organizzatori giocano fuori casa e sono ancora costretti ad agire isolati e con mezzi artigianali. Per questo vi siete salvati.”

Mentre stava parlando, José allungò due bicchierini colmi di tequila a Julie ed Alain seduti davanti a lui, al tavolo del bar dove li aveva condotti.

Precedentemente non avevano tardato molto a trovarlo all’indirizzo che aveva dato loro e a ragguagliarlo su quanto era successo. “Muy bien! Saluto la mia Pepita, e vi porto in un posto tranquillo” aveva detto il messicano rassicurandoli, mentre si rivestiva e socchiudeva la porta della camera da letto, lasciando uno spiraglio dal quale si scorgeva una stupenda gamba color cioccolato allungata sulle lenzuola.

Adesso era ormai da un paio d’ore che si trovavano nel retro di un bar vecchio stile, con annessa sala da biliardo. Dietro di loro tre robusti giovanotti giocavano un’interminabile partita, ostentando un disinteresse che non era affatto ostilità ma solo discrezione nei confronti dell’amico José e dei suoi ospiti.

Sulla parete di fondo vegliavano sui loro destini due divinità amerindie. In alto spiccava l’insegna luminosa che enunciava il nome del locale: El Dorado. Alain aveva incrociato le dita e voltato le spalle, pensando a quel nome come ad una persecuzione. Però Julie si era dimostrata molto diversa da Marie…

José li fissava muto da un po’, quando il suo sguardo all’improvviso si illuminò sbirciando al di là delle loro spalle, verso la porta d’ingresso da dove provenivano dei passi veloci. Sorrise e disse:

“Paco è tornato. E quando Paco torna, Paco sa, riferisce e Juan, Jesus e Domingo vanno con lui!” Si mise a ridere, ascoltò quello che l’uomo appena arrivato gli stava dicendo all’orecchio e poi diede un’occhiata ai tre che immobili lo osservavano dai biliardi. Fece un cenno con la testa in direzione della porta e quelli simultaneamente posarono le stecche, si avviarono verso l’uscita e sparirono; insieme a Paco.

“Presto torneranno con una sorpresa. Nessuno vi cercherà più. Almeno per qualche tempo. E per noi sarà via libera” disse José sorridendo a Julie, e alzando il bicchiere in direzione di Alain che lo scrutava interrogativamente.

“Sí, amigos! Vi riporterò io a casa: un po’ in volo e un po’ in camion sulla strada degli Idoli. Il viaggio transdesertico è suggestivo ma per voi sarebbe troppo lungo. Vi rintraccerebbero, prima o poi. Però ricordatevi che, una volta a casa, io con i miei amici non ci saremo più e voi dovrete stare molto più attenti di prima. Alla salute!” spiegò José e rovesciò indietro la testa tracannando d’un fiato la sua tequila.

La sorpresa davvero non tardò ad arrivare.

Juan, Paco e Domingo ritornarono contemporaneamente nel locale e, al cospetto di José, buttarono un involto sul tavolino di fianco a quello dove stava seduto in compagnia di Julie ed Alain. Domingo, il più grosso, si chinò verso di lui e disse con voce bassa e cupa: “Jesus non ce l’ha fatta, José. Ma il gringo ha pagato duramente!” E con un gesto veloce della mano srotolò il fagotto.

Dentro c’erano una carabina a puntamento laser e, in un sacchetto trasparente, un dito indice e due occhi.

“Jesus è morto, che Dio l’abbia in gloria. E quello – disse José indicando il sacchetto lordo di sangue rappreso – è ancora vivo. Ma avete fatto in modo che non sparerà più molto bene. È stato un bel colpo, Domingo: un colpo da dio. Magari noi esseri umani fossimo sempre così magnanimi!”

José ridacchiò nervosamente poi, volgendosi verso Julie ed Alain che avevano distolto lo sguardo, espresse sommessamente il suo pensiero con una venatura di rammarico, quasi a se stesso:

“Come hai potuto vedere Julie, purtroppo non riesco ad essere sempre bello. Il mondo non è un’isola felice; ma qui a Mascate, almeno, riusciamo ancora a difenderci.” E scolò il suo ennesimo bicchiere, guardando nel vuoto.

Natura morta con presidenti

José aveva mantenuto la promessa e li aveva riportati sani e salvi a casa, con l’aiuto dei suoi amici.

Poi il tempo era passato, apparentemente senza problemi. Sembrava che il loro nemico senza volto li avesse dimenticati. E anch’essi, pur rimanendo costantemente vigili come aveva consigliato José, avevano cercato di cancellare il ricordo delle vicissitudini trascorse: erano venuti a conoscenza di qualche frammento di verità e questo per un po’ sarebbe bastato. Comprendevano che sarebbe stato più igienico smettere di dare nell’occhio. E così fecero.

Sia Julie che Alain avevano ripreso la solita vita quotidiana, con le loro diverse attività. Avevano seguitato a frequentarsi e avevano scoperto di stare bene insieme, anche di notte. Così presero la decisione di sottoscrivere un contratto temporaneo di matrimonio. E, per farlo nel modo migliore, si sarebbero trasferiti nella cellula abitativa di lei, più comoda per due persone che volevano vivere in comune, sia pure per qualche tempo.

Ma proprio alla vigilia dell’entrata in vigore del regime di validità del contratto matrimoniale, accadde l’irreparabile per entrambi.

Duvalier aveva ormai ultimato quasi tutti i trasferimenti videotelematici di identificazione dal suo domicilio. Gli erano rimasti da prelevare fisicamente alcuni strumenti di lavoro, qualche abito e il compuserver, per trasportarli a casa di Julie Nativité; poi si sarebbe definitivamente domiciliato al nuovo indirizzo. La sua cellula abitativa sarebbe stata assegnata ad un altro inquilino e già il giorno successivo, se Julie l’avesse cacciato via, sarebbe diventato un apolide e avrebbe perso il diritto di risiedere nella Città Interna; a meno di una nuova, lunga trafila per un’ulteriore richiesta di cittadinanza.

Così quel giorno Alain, giunto davanti al suo vecchio recapito, inserì il tesserino magnetico di riconoscimento nella serratura e si avvide che la data di scadenza era già stata aggiornata all’indomani. Doveva sbrigarsi: sarebbe stato costretto a fare tutti i trasporti in giornata.

La porta non si aprì immediatamente ma lui non vi fece caso, e solo quando fu entrato realizzò che qualcosa non andava. Davvero.

La stanza era sottosopra e qualcuno si era dato molto da fare per rovistare dappertutto nell’intento di cercare chissà che cosa, o semplicemente per intimidazione.

Lo schermo del compuserver era acceso alla pagina dei telemessaggi.

Alain si avvicinò con il cuore in tumulto per la rabbia. Non gli andava proprio che tutto quel casino ricominciasse da capo, proprio adesso che gli pareva di aver raggiunto la tranquillità.

Si guardò dietro le spalle pensando di doversi difendere da un’incombente aggressione; invece non accadde nulla.

Ma sullo schermo luminescente spiccavano queste parole:

Vi abbiamo lasciato un po’ di tempo in pace per farvi riscoprire quanto è bella la vita e che non vale la pena darsi da fare per cambiarla. Può essere pericoloso, oltre che inutile.

Ora ci stiamo occupando di Julie Nativité.

Poi ci occuperemo di te, Alain Duvalier.

Riusciranno Julie ed Alain a coronare il loro sogno d’amore?

“No! Dio, no!” urlò Duvalier e si precipitò per le scale verso il suo nuovo indirizzo.

Quell’indirizzo che gli Organizzatori conoscevano chissà da quanto tempo.

Dopo una decina di minuti di tragitto effettuato eccezionalmente in aerotaxi, Duvalier arrivò trafelato davanti all’elettroporta dell’abitazione di Julie Nativité e digitò il codice personale sulla pulsantiera. Senza alcun risultato. La barriera elettromagnetica rimase in funzione e una vocina metallica invitò a ripetere la digitazione esatta. Ma Alain sapeva di non aver sbagliato nulla: avevano già modificato il codice personale di ingresso. Allora si attaccò all’interfono, urlando più volte il nome di Julie.

Passò qualche attimo e la barriera dell’elettroporta si dissolse e apparve sulla soglia un uomo. Alain gli guardò la faccia affilata, poi abbassò lo sguardo e mise a fuoco la scena più surreale della sua vita: il tizio reggeva col braccio sinistro due contenitori di plastica ripieni di cachi, un raro e costoso frutto mediterraneo. Nella destra stringeva una banconota da un credito. Di fianco a lui c’era un idiovisore acceso, con la faccia del più importante uomo di stato del ventesimo secolo che parlava. Evidentemente a questo qui piacciono i programmi di storia antica. E chissà dove crescono ancora quei frutti? furono le assurde considerazioni che Alain fece istintivamente, mentre l’uomo stava dicendogli: “Senta, qui non c’è nessuna Julie. Non c’è mai stata. Tutto quello che posso fare per lei è darle un po’ di soldi, se ne ha bisogno. E di questi, se ne vuole. Poi vada via e la smetta di seccarmi!”

Alain rialzò gli occhi verso il tizio, accingendosi a dargli uno spintone per entrare a tutti i costi nell’appartamento, quando udì un fruscio dietro di sé, ma non fece neanche in tempo a voltarsi; vide solo un ghigno sulla faccia dell’uomo coi cachi. Sentì una dolorosa trafittura alla base del collo.

E poi, più nulla.

Eccettuate alcune frasi che il suo inconscio riuscì a raccogliere, prima di morire insieme al resto del corpo.

… di certo, un record

Percepì il leggero tremolio dell’asticella che gli sfiorava l’inguine senza spostarsi di un millimetro e poi si ritrovò a discendere dall’altra parte, mentre slanciava fuori le braccia e l’ipogravitazione del campo magnetico inverso dell’asta cominciava ad avviarsi, per rallentare la caduta.

Era il record…

Ce l’aveva fatta. Accidenti, quel tipo ce l’aveva fatta! Uno dei due impiegati al lavoro nella sala progetti al centesimo piano del Last Act Building, che in piedi da dietro la finestratura aveva assistito immobile ed in controluce al salto del jumper, si toccò incredulo la testa proprio mentre l’atleta, superata l’asticella, incominciava la fase di discesa controllata. Poi eccitato si girò verso la sua collega, che nel più completo disinteresse continuava il controllo dei flussi di informazioni al videoterminale, ed urlò:

“Cazzo, Emily, ce l’ha fatta! Quel matto è volato a quattrocento metri. C’è arrivato, ti rendi conto? Di certo, un record!”

… di certo, un record.

Sorrise e si volse a guardare la parete a specchio del Last Act Building e lì, al centesimo piano, vide due ombre: due ombre scure dietro le pareti di cristallo e, in mezzo a loro, il riflesso lontano di un antico monumento all’orizzonte, dall’altro lato della città.

L’arena della Plaza de Toros, vecchia ed inutilizzata da almeno trent’anni.

E la sua memoria cosciente fu attraversata da un lampo allucinatorio che lo lasciò come sospeso nel vuoto, mentre la discesa si dilatava in un attimo infinito…

Era stufo di tutte quelle visioni enigmatiche. Ora voleva sapere. E avrebbe saputo definitivamente. Questa sarebbe stata l’ultima, conclusiva visione. E l’avrebbe rivissuta fino alla fine, pur se a distanza di decine e decine di anni.

Concentrò tutte le sue residue energie fisiche e mentali in un unico, profondo, nero punto della coscienza.

Così intensamente da riuscire anche ad ascoltare le parole pronunciate dagli assassini di Julie Nativité e di Alain Duvalier.

Alain Duvalier era stramazzato al suolo e da dietro di lui erano spuntati due uomini.

Uno di essi sorrise verso l’inquilino e, mostrando un micidiale pugnale laser, gli disse:

“Bravo, Duane! Hai recitato bene. La tua passione per i cachi è stata la carta vincente: sei riuscito a disorientarlo per il tempo necessario. Con la donna abbiamo dovuto faticare un po’ di più. Vero signor…”

“Zitto, idiota!” esclamò con un sibilo rabbioso l’altro uomo, vestito elegantemente di scuro, che si teneva un po’ discosto con una sigaretta get higher in bocca.

Costui si avvicinò e serrò le labbra dell’assassino tra le dita come in una morsa. Poi, affondando di scatto la lunga unghia del pollice nella radice del naso, gliele torse fino a costringerlo ad afflosciarsi sulle ginocchia e a lasciar cadere l’arma per terra. L’uomo emise un mugolio continuato e portò le mani all’altezza delle orecchie, in un gesto di inutile protezione. Quando l’altro mollò la presa, rimase in ginocchio ad asciugarsi il sangue che gli usciva dal naso e dall’interno del labbro inferiore.

“Non pronunciare mai il mio nome invano, stronzo!” intimò con disprezzo quello che evidentemente era più che un capo. “Adesso fate sparire nel nulla il corpo di Julie Nativité e alteratene tutti i file anagrafici e amministrativi. Senza errori di distrazione. Poi vi concentrerete a risolvere definitivamente la faccenda lasciata in piedi a Mascate, con quella scienziata e i suoi amici messicani. E stavolta non mandate un cacciatore solo. Per quanto riguarda l’uomo, è stato un eccezionale jumper, fino a quando non ha deciso di ritirarsi. È un peccato che la gallina dalle uova d’oro muoia. Portatelo al laboratorio di clonazione privato dell’Organizzazione e lasciatelo nelle loro mani. Ne faranno un altro che fra una trentina d’anni potrebbe diventare quello che è stato lui. Frutterà ancora di più senza tanti grilli per la testa, e senza ricordi.”

Senza ricordi…

Senza ricordi.

Un urlo generalizzato di raccapriccio accompagnò il suo volo negli ultimi metri.

L’impatto con il suolo fu tremendo, anche se un po’ di ipogravitazione residua, sprigionata dall’asta di sollevamento rimasta in perfetto equilibrio statico durante la caduta, lo salvò dalla morte.

Quando lo raccolsero per deporlo sulla barella, il suo corpo aveva la consistenza di una bambola di pezza sdrucita, ma lui era ancora vivo e, nello stato d’incoscienza in cui si trovava, sembrava sorridere.

Qualcuno giurò di averlo sentito articolare nel deliquio soltanto due parole prima che lo trasportassero all’ospedale e poi, viste le sue condizioni irrecuperabili, direttamente all’obliteratorio.

Lo sentirono dire: “Alain Duvalier!”

Epilogo

i cloni sentono un bisogno irresistibile di leggere…

Disteso nel letto, il vecchio si sentì improvvisamente esausto, ma non volle immaginarsi com’era.

i cloni sentono un bisogno irresistibile di leggere…

Sollevando lo sguardo chiuse il libro sull’ultimo paragrafo e, mentre un pallido sole filtrava attraverso i vetri della finestra proiettando la sua ombra sul muro bianco della cameretta dell’obliteratorio zonale, interrogò la parete nuda sul senso delle visioni che durante tutta la sua vita aveva sempre trascurato.

Da quando, giovanissimo…

Forse non era stato capace di vedere tutto.

Ma ora ricordava.

Il momento risolutore del Salto Immortale, come lo aveva chiamato tanti anni prima la dottoressa Gadamer, aveva tardato ad arrivare. Per tutti e per chissà quanto ancora.

Però, il suo, lo sentiva ora misericordiosamente vicino.

E aveva capito tutto a metà.

Già, ma quale metà e di quale vita?

Non lo avrebbe mai saputo con certezza.

Anche se alla fine era riuscito a scovare almeno la traccia di un’identità, forse era più semplice continuare a credere a due vite diverse che in un unico, profondo, nero punto della coscienza si erano congiunte per un attimo infinitesimo, nel momento di quel suo salto lontano.

Eppure…

Alcuni giorni prima, mentre sulla sedia a ruote guardava, insieme agli altri vecchi silenziosi, una trasmissione sui diritti dei cloni nel grande olovisore della sala di intrattenimento dell’obliteratorio, aveva sentito dire da un prete che gli infelici erano coloro che avvertivano la necessità di farsi clonare, non i cloni.

Forse era vero.

Forse… Forse… Sempre forse!

i cloni sentono un bisogno irresistibile di leggere…

Aprì ancora il libro e rilesse l’ultima pagina.

Per buona parte della sua esistenza aveva cercato di sapere chi fosse o fosse stato, e da dove provenissero quelle sue visioni repentine, senza immaginare quanto sarebbe stato difficile giungere alla verità. E non lo aveva certo aiutato la rievocazione di quella notte in casa della dottoressa Gadamer, quando lo stesso Alain Duvalier aveva scoperto la possibilità di essere lui un clone; come tutti del resto. E l’aveva scoperta proprio dalle parole della scienziata e dallo sguardo negli occhi di Julie Nativité, la quale pareva, finalmente, aver incontrato solo allora la verità.

Lei sì; anche se per poco tempo.

Ben poco tempo.

La verità era fatta proprio così. Se appare, appare per un attimo; e non molti, né pattern né cloni, sanno di incontrarla.

Anche a lui rimaneva ben poco tempo.

Così decise di accettare con serenità davanti ai suoi occhi un’estrema visione, qualsiasi fosse…

E di fronte, sulla parete chiara, riuscì stavolta a scorgere perfettamente due ombre.

Erano nitide; e non c’era nessuna parete di cristallo che le oscurasse.

Nient’altro che due ombre.

La sua e quella di una donna con un largo cappello e lunghi capelli fluenti.

Le osservò a lungo, soddisfatto. Con l’accenno di un sorriso sulle labbra.

Finché il libro che teneva gli si richiuse definitivamente tra le mani inerti e scivolò oltre il bordo scrostato del letto metallico, cadendo sul pavimento con un secco rimbombo nel silenzio dell’edificio.

Proprio mentre le sue palpebre si abbassavano e un passerotto volava via dal davanzale, spaventato.



Dispersione di terra

(Intorno all’anno 2300 dell’Era Cristiana, agli inizi del Secondo Secolo dell’Era della Pace e della Produttività)

L’uomo e l’impensato sono, al livello archeologico, dei contemporanei. L’uomo non poteva disegnarsi come configurazione nell’episteme, senza che il pensiero non scoprisse al tempo stesso, in sé e fuori di sé, nei propri margini, ma anche intrecciati alla propria trama, una parte di notte, uno spessore apparentemente inerte in cui è coinvolto, un impensato che esso da un capo all’altro contiene, ma nel quale non di meno si trova imprigionato. L’impensato (quale che sia il nome accordatogli) non risiede nell’uomo come una natura accartocciata o una storia che vi si sarebbe stratificata, esso è, nei riguardi dell’uomo, l’Altro: l’Altro fraterno e gemello, nato non già da lui, né in lui, ma a fianco e contemporaneamente, in un’identica novità, in una dualità senza ricorso. La zona oscura che viene volentieri interpretata come una regione abissale nella natura dell’uomo, e come una fortezza singolarmente sprangata della sua storia, è a questi legata in tutt’altro modo: gli è, a un tempo, esterna e indispensabile: un po’ come l’ombra riportata dell’uomo mentre sorge nel sapere; un po’ come la macchia cieca a partire da cui è possibile conoscerloxvi.

Michel Foucault

Non è che voi siate o non siate pronti. È che io ho chiuso. Sono già da un’altra parte, ed è impossibile per me sfuggire. Sarò sempre la voce o la presenza dietro le quinte. In altre parole, il tempo per le mie apparizioni è finito.xvii

Carlos Castaneda

Reginald Jones se ne va

Una volta, da bambino, Reg aveva assistito allo spettacolo di un tizio, gesticolante su un palcoscenico tutto nero, che sparava parole intercalandole senza sosta con l’esclamazione “Mio Dio! Oh, mio Dio!”. E, proprio lì, lui aveva cominciato a farsi un’idea di quello che un vero Dio, se fosse esistito, avrebbe potuto essere e mettersi a fare, nel sentire uno che lo nominava tanto di frequente e in modo così futilmente confidenziale. Ecco perché lui si sentiva ora un po’ come un dio, anche se impaurito.

Non ci si poteva appropriare dell’identità di Dio e approfittarsene così impunemente. E neanche di quella degli uomini.

Da più di tre ore si era inoltrato sull’Interstatale Secondaria, a piedi per essere meno individuabile, in direzione della regione desertica che circondava tutta la rete urbana e si stendeva fino al limite della zona che intendeva raggiungere.

Inciampò sbadatamente su un sasso; credette proprio di non farcela più e di cadere, ma il peso dello zaino lo aiutò a controbilanciare la spinta in avanti e si rimise in equilibrio. Forse era venuto il momento di sedersi e fermarsi un po’. La sera non era del tutto calata, ma il desiderio di riflettere e di riposare fu più forte della voglia di allontanarsi il più possibile dalla città. E poi sarebbe sicuramente passato un po’ di tempo, prima che gli Orchestratori si potessero accorgere di quello che lui gli aveva combinato. Aveva fatto le cose per bene, proprio per riuscire ad andarsene senza affanno, sfruttando le sue profonde conoscenze di paleoinformatica e sistemi operativi arcaici. Così si sedette tranquillo, accese una sigaretta e guardò all’orizzonte e verso il sole che stava per tramontare. La temperatura era mite. Sarebbe stato sufficiente infilarsi nel sacco a pelo, senza montare la tenda per ripararsi dal freddo, e addormentarsi. Le braccia gli dolevano tutte e aveva deciso di risparmiargli ulteriori fatiche. Almeno per quella notte…

Si ricordò di quando da piccolo la mamma gli fasciava anche le più piccole ferite, per paura del tetano. “Quando io non ci sarò più – diceva, – certe cose dovrai imparare a farle da te. E poi non è detto che io debba essere morta per non vederti più… Un giorno te ne andrai, benedetto figliolo, e mi lascerai sola. Allora mi morderò le dita al ricordo del sollievo che provo adesso quando, dopo un po’ che non ti vedo, ti chiamo e tu mi rispondi.

“I figli – concludeva sua madre guardandolo mestamente negli occhi e sospirando, – se non li vuoi perdere, devi accettare che un giorno si allontanino.”

Lui non si era allontanato mai troppo.

Adesso però era giunto il momento di farlo; definitivamente.

Dispersore N°19252

Forse era stato a causa del lampo dell’annichilatore di qualche minuto prima, comunque anche stavolta gli era parso di scorgere un’ombra proiettarsi attraverso il vetro della finestra, che ora invece lasciava filtrare unicamente la suggestiva e rassicurante immagine della Torre Eiffel.

Ancora non avevano avuto il coraggio di smantellare quell’antica rovina. Ci avevano piazzato sopra un enorme oloschermo pubblicitario, in ogni caso.

Jean Michel Duvalier distolse lo sguardo dalla vetrata; diede un’occhiata intorno e vide sul tavolino del salotto il detettore. L’uomo che aveva disperso da pochi istanti, se l’era tolto di dosso e l’aveva lasciato lì, prima di aprire la porta. Se non l’avesse fatto, il minuscolo apparato magnetico avrebbe segnalato la presenza dell’annichilatore nascosto nella sua giacca con un sibilo acuto, e forse sarebbe stato lui a rimanerci secco sulla soglia dell’elettroporta.

Ma J.M. il Parigino, soprannominato dai colleghi «Kodak» per la capacità di fotografare al volo le situazioni, sarebbe stato comunque un osso difficile da spolpare. Un altro avrebbe potuto restarci secco. Non lui.

Lui aveva seguito tutte le regole di un cacciatore solitario bene addestrato. Per il primo periodo di caccia si era tenuto lontano dall’obiettivo, dedicandosi a superare tutte le difficoltà della delicata fase dell’avvicinamento, badando a stare sempre sottovento alla preda. Poi, arrivato finalmente a braccarla, le aveva fatto l’ultima posta a poca distanza dal portone dell’isolato in cui alloggiava, tenendo d’occhio soprattutto la parte anteriore dell’automobile noleggiata dalla vittima, chissà perché, quattro giorni prima, e che lui sorvegliava in continuazione, nascosto in un lercio sottopassaggio abbandonato, rifugio notturno di narcotomani e metasessuali.

Per giorni, insieme al cofano della macchina del tizio posteggiata dall’altro lato della via, al sorgere del sole aveva visto spuntare di fronte a sé la sagoma deteriorata e imbrattata di un antico contenitore di rifiuti, incassato nel residuato del marciapiede di una delle pareti, e un’ombra così nitida e curva che non gli era parsa più nemmeno la sua.

Lo dicevano in tutte le campagne pubblicitarie in olovisione che non bisognava mai separarsi da un detettore personale: quel piccolo strumento di sicurezza era un po’ scomodo e in casa quasi tutti se lo toglievano; quindi il lavoro per i dispersori continuava ad essere abbastanza facile; specie se il bersaglio era qualche ex–agente depositario di delicati segreti, posto in quiete da più di cinque anni e di conseguenza troppo fiducioso di essere ormai al sicuro. Però l’Organizzazione aveva buona memoria e, soprattutto, buoni archivisti che passavano costantemente al setaccio i periodici cambi di identità di costoro, finché non si ritenevano troppo al sicuro. Era questo il momento in cui subentrava l’Orchestra, il braccio armato e segreto dell’Organizzazione, tramite l’intervento diretto dei dispersori esterni che, in genere, riuscivano a selezionare l’obiettivo entro cinque o sei mesi dalla stipula del Contratto di Dispersione. Per questo qui, che tra l’altro, a quanto gli risultava, non aveva mai fatto parte neanche dell’Organizzazione, ce ne erano voluti diciotto.

E lui ci si era quasi invecchiato, a stargli appresso e a fargli le poste. Così, quando gli avevano comunicato di interrompere sul più bello quella caccia per andare subito alla ricerca di un altro da selezionare, lui se ne era sbattuto le palle. Anche se il prossimo aveva una bella «A» sulla casella Grado di Precedenza, nell’ordinanza di dispersione che gli era stata recapitata solo un paio di settimane prima.

Inutile dire che un lasso di tempo di caccia così lungo lo aveva incuriosito e fatto intestardire, fino a spingerlo a disubbidire ad un’ordinanza di massima precedenza, presentatagli per di più all’ultimo momento. Non aveva ritenuto saggio rivolgere domande esplicite all’Organizzazione sull’importanza e sulla pericolosità del prossimo in lista. Col tempo avrebbe scoperto da solo il perché di tanto scrupoloso interesse: per adesso si sarebbe limitato, facendo finta di nulla, a presentare la Prova di Avvenuta Dispersione del morto, per riscuotere la parcella che alcuni colleghi, allegramente cinici, si ostinavano a chiamare taglia. Chissà se il coordinatore delle selezioni, dall’altra parte dell’oceano, avrebbe avuto il coraggio di obiettare qualcosa.

Lui non si era mai sentito un bounty–killer; semmai uno scrupoloso ricercatore, che portava sempre a termine il suo compito.

E ora doveva mettersi alla ricerca del prossimo.

Doveva mettersi alla ricerca di Julius Gadamer.

Mentre osservava ancora una volta tutti gli angoli del monolocale, per assicurarsi che ogni traccia della sua presenza venisse cancellata dal resettore temporale che stava manovrando con naturalezza professionale, gli venne da chiedersi perché lo avessero lasciato in caccia diciotto mesi, per disperdere un tizio che ufficialmente non era mai stato in contatto neanche con il barboncino della figlia di uno dei giardinieri dell’Organizzazione. Che cosa doveva aver saputo di troppo?

E di quali segreti poteva mai essere a conoscenza quest’altro illustre sconosciuto di Julius Gadamer, il cui nome non compariva nei file periferici dell’Organizzazione né, tanto meno, in quelli di copertura esterna dell’Orchestra?

La vita di un uomo da queste parti è spesso legata al filo di un’informazionexviii, diceva il protagonista di un vecchissimo film western, che lui si era sciroppato durante una noiosa trasferta nella periferia della Terza Colonia di Marte; e J.M. detto Kodak si era già informato.

Ma questa era stata la prima volta che aveva trovato quello che non s’aspettava di trovare. Ossia tutto: vita, morte e miracoli. Troppe informazioni.

E tutte troppo chiare.

Enzo Lisi “Dispersore 19252” olio su tela cm 150 x 360 anno 1998

Chi è Julius Gadamer?

Noham Nogarjuv, sprofondato nella poltrona dietro la sua mastodontica scrivania ingombra di terminali impolverati, squadrò di sottecchi Reginald Jones in piedi davanti a lui. Aspirò una boccata di fumo dal sigaro sintetico che aveva tra le labbra, quindi agitò il testone per scostarsi dal collo i lunghi riccioli di capelli unti e coi pollici fece schioccare le larghe bretelle rosse sul ventre lardoso. Esplose con un’imprecazione; poi disse più calmo ma con fare ambiguo, strizzando gli occhi al pizzicore del fumo:

“E a te, che cazzo te ne frega di sapere chi è sul serio Julius Gadamer? Non ti basta quello che c’è scritto sui fottuti file identificativi ufficiali?”

“No, niente, Noham. Pura curiosità. È la prima volta che mandiamo un contrordine ad un dispersore in Europa; a Parigi e fuori dalla nostra giurisdizione. Questo Gadamer deve essere proprio uno che dà fastidio, per appiopparlo a Kodak mentre sta per chiudere una selezione durata diciotto mesi. Rischiamo di fargli saltare lo special!” spiegò Reginald, cercando di fare dello spirito. Ma Nogarjuv non raccolse. Soffiò una nuvola di fumo puzzolente in faccia all’interlocutore, guardandolo gelido. Poi, dopo una lunga pausa che avrebbe potuto benissimo essere interpretata come una minaccia, disse in tono conclusivo:

“Lo sai che noi dell’Orchestra non abbiamo una giurisdizione precisa. Possiamo metterci a suonare in ogni posto del mondo, per il bene della musica. E Jean Michel il Parigino ha firmato un Contratto Globale; quindi lui se lo aspetta che possiamo richiamarlo sempre, dovunque, e per qualsiasi cazzo che vogliamo noi! Adesso vattene. Questa è l’ultima volta che fai una domanda di troppo. Il contratto d’archivista di terza fila che tu hai firmato è molto, ma molto meno che Globale. Possiamo rescinderlo quando e come vogliamo.”

Reginald fece un sorrisetto stiracchiato, attribuendo alle volute di fumo denso quell’ombra che aveva visto fluttuare dietro il faccione schifoso di Nogarjuv.

“Attento a non toccare la scrivania, testa di cazzo!” strillò costui, mentre alzava un fascicoletto verso le mani del giovane.

Jones prese i fogli che l’altro gli tendeva guardandolo fisso negli occhi; girò sui tacchi senza dire una parola e si dileguò nel reparto d’uscita, inseguito dal tanfo pestilenziale del sigaro del Coordinatore delle Selezioni.

Ma Reginald aveva due grossi difetti: uno, fin da bambino era posseduto da una curiosità divorante e, due, non aveva mai sopportato quelli che si davano arie da dio, facendo finta di non sapere che i veri manovratori stanno tutti da un’altra parte, dietro a scrivanie molto meno ingombre e molto più ampie.

E molto più in alto.

Colloquio a quattrocchi

“Non ci speravo, monsieur Duvalier. Sono sorpreso che una persona attiva e moderna come lei si interessi anche di paleoinformatica e sappia usare un vecchio computer.”

J.M. squadrò il suo interlocutore senza manifestare alcuna espressione. Portò il bicchiere alle labbra, sorseggiando con calma. Poi disse, rivolto al giovane dai capelli rossi che gli stava di fronte dall’altro lato del tavolino:

“Sarebbe imprudente, dato il genere dei miei datori di lavoro, essere in collegamento col resto del mondo esclusivamente con un normale compuserver. Chi fa il mio mestiere deve avere la possibilità di link più riservati e protetti. Per certe cose vanno benissimo i vecchi computer, e quei telnet talmente arcaici che neanche è valsa la pena smantellare del tutto, come le rotaie dei vecchi treni meccanici. Anzi, danno maggiori garanzie di affidabilità e di riservatezza, una volta recuperato l’hardware ed il software adatto che li rendano di nuovo efficienti.”

Reginald Dwight Jones e Jean Michel Duvalier si trovavano in un bar automatizzato della periferia. Erano circondati dal vocio degli altri avventori e dal cigolio dei pattini magnetici dei robot camerieri, che sciamavano fra un tavolino e l’altro con incredibile disinvoltura. Il locale era immerso nella penombra e sul fondo scintillava un ologramma porno, ma nessuno ci faceva caso.

“Beh, ha ragione. Un tempo li chiamavano proprio personal” convenne il giovane in tono conciliante, anche se l’altro, comunque, lo inquietava. L’unico fatto positivo era la risposta affermativa che aveva dato alla sua richiesta d’incontro, indirizzatagli fortunosamente dopo avere per giorni smanettato di nascosto nel LAN dell’Ufficio Contatti Riservati, usufruendo di una vecchia rete internetica alla quale il Parigino era ancora collegato: evidentemente anche per lui qualcosa non quadrava, e cercava in tutti i modi di saperne di più. E non solo su questa faccenda, ma anche su altre; visto quanto aveva detto del proprio mestiere e delle proprie precauzioni.

Stava per aggiungere qualcosa di interlocutorio quando l’altro lo apostrofò, affrontando di petto il nocciolo del problema, senza ulteriori giri di parole.

“Mister Reginald Jones, o comunque lei si chiami – disse il Parigino, mantenendo la voce calma e senza inflessioni, che aveva caratterizzato anche la prima parte dell’incontro dedicata ai convenevoli, – perché mi ha cercato su un link riservato? Come ha fatto a trovarlo? E, soprattutto, come fa a conoscere certi aspetti del mio lavoro? Diciotto mesi di selezione, alle calcagna di uno sconosciuto totalmente estraneo all’Organizzazione, sono tantini. E perché, dopo di lui, ancora un altro: tale Julius Gadamer? Che cosa ne sa?”

“Monsieur Duvalier, lei non ha mai sentito parlare di me e quindi, plausibilmente, non giurerebbe sulla mia identità. Io però sí, sulla sua. Non l’ho mai conosciuta di persona, ma ho visto sul monitor della mia scrivania il suo vero nome scorrere centinaia di volte, insieme a quello fasullo di altrettante sue coperture, su tutta la Terra; non ho controllato il resto del Sistema Solare, ma sono sicuro che anche lì si potrebbero riscontrare i segni del suo passaggio. In ogni caso, lei è uno dei migliori Dispersori di Terra in circolazione.” Il giovane fece una pausa sollevando lo sguardo dall’anello di metallo nero, che il Parigino portava al medio della mano destra stretta intorno al bicchiere, verso i suoi occhi impassibili. Sostenne a lungo la vista di quelle pupille sottili e poi continuò:

“Mi rendo conto di rischiare molto rivelandole il fatto che i suoi datori di lavoro sono anche i miei. Le reazioni, se costoro mi scoprissero, sarebbero letali. In quanto a lei, mi ha già scoperto e potrebbe fare di me quello che vuole. È bene addestrato; sa come risolvere di persona un problema e, come vede, non indosso alcun tipo di detettore. Però lei forse non sa che sul suo fascicolo personale, che consiste ancora nell’innocente hardware di una cartelletta di cartoncino sintetico che io mi sono ritrovato a maneggiare più di una volta, c’è un’etichetta con un’eloquente dicitura in rosso indelebile: Dispersore, Enne maiuscolo, Punto in alto, Uno, Nove, Due, Cinque, Due. Le risparmio il significato in codice dei numeri, che se vuole un giorno le rivelerò, ma è abbastanza ovvio il senso della prima parola.

“Quindi so a che serve lei. E so anche che, se non avesse sentito odore di bruciato, ben oltre il mio linkage miracoloso, non sarebbe venuto qui oggi; e io, in uno dei sette giorni che adesso ci separano dal momento in cui mi sono fatto vivo con lei, sarei evaporato nell’aria, disperso dal suo annichilatore.”

Una piccola piega all’in su si formò ai lati delle labbra serrate di Duvalier.

“Come vede – riprese Reginald, – il fatto che noi ora siamo qui, a quattrocchi, a parlare in un autobar di Oklahoma City, nel centro del centro del mondo, è già per me una sufficiente garanzia: per lo meno della sua neutralità e della benevola disponibilità ad ascoltarmi; di stare a sentire che diavolo abbia da dire questo giovane rosso di capelli a proposito: uno, di una caccia durata diciotto mesi che hanno tentato di revocarle all’ultimo istante e, due, di uno sconosciuto di nome Julius Gadamer.”

Duvalier alzò una mano e disse lentamente:

“Dia un colpo di freno, Reginald. Lo so chi è Julius Gadamer. Anch’io so navigare nella Rete dell’Organizzazione.”

“Mi chiami Reg, o Jones se preferisce, ma non usi quel nome ridicolo che mi diede mia madre; mi fa venire i nervi. Lei conosce un’identità registrata su un file elettronico che chiunque può avere prima artificialmente costruito, e poi manipolato. Lei non conosce un uomo di nome Julius Gadamer.”

“Farebbe bene a ricordare con più affetto sua madre,” la voce di J.M. si indurì leggermente nel rimprovero, sfumando poi in un velato tono di rammarico. “Non c’è nulla di male nei nomi che ci impongono i genitori. Quelli che ci assegnano gli altri, dopo, sono più impegnativi. Quanto a Gadamer, lei, Reg, sta dicendo che è solo una figura virtuale e che l’Orchestra voleva farmi dirigere una sinfonia inesistente con suonatori finti, una specie di prologo nella costruzione della trama per una mia futura eliminazione? Non credo di essere diventato già così scomodo, mister Jones.”

“Volevo molto bene a mia madre, Kodak” disse Reginald, pronunciando il soprannome dell’altro con tono spudoratamente ironico. “Quanto a Gadamer, voglio dire invece che esiste davvero, e che fanno di tutto per farlo apparire quello che non è. Succede con l’identità di ognuno, oggigiorno; ma nessuno è così potenzialmente rischioso come lui. Ecco perché lo vogliono assolutamente disperdere. I capi effettivi dell’Organizzazione sanno davvero chi è e che fa Julius Gadamer; e lo ritengono molto pericoloso. Per loro.”

Le dita di Duvalier, che nel frattempo aveva posato con cura il bicchiere nella parte centrale del tavolino, cominciarono a tamburellare sul bordo e l’anello rifletteva cupi bagliori, in sincronia con le luci laser intermittenti sullo sfondo.

“Inoltre – continuò Reginald, – non dimentichi il piccolo particolare che lei, infischiandosene dell’ordine di cessazione immediata di una selezione, ha perso del tempo prezioso permettendo così a Julius Gadamer di scampare all’altra. Morale della favola: quello sconosciuto che lei ha comunque fatto fuori, forse doveva rimanere ancora in vita e per buonissime ragioni; magari per essere comunque eliminato in un secondo momento, che ne sappiamo? Colui che era prioritario disperdere, invece, è vivo e vegeto. C’è stata una stonatura nella musica dell’Orchestra. Anche se è stata commessa da un primo violino come lei, potrebbero decidere di sostituirla. E se la pensa così un assistente alla regia come Noham Nogarjuv, si figuri il Direttore Artistico!

“Quindi – concluse dopo una pausa Dwight, – se le cose stanno così, diventa essenziale per lei dimenticare l’immagine virtuale di Julius Gadamer e di andare a conoscerlo di persona. Dopo potrà decidere se è il caso di disperdere tutti quanti, il sottoscritto per primo. Però fino a quel momento dovrà fidarsi di me. Io sono arrivato ormai al punto di non ritorno e preferisco averla fisicamente al mio fianco, piuttosto che virtualmente rinchiuso in una cartelletta del mio ex–archivio.”

Un aiuto fraterno

La mano di Duvalier smise di tamburellare e si trasformò in un dito medio inanellato, puntato dritto in faccia al giovane.

“Quello che le ho sentito dire, Reg, è abbastanza vero. Anche se non mi ha spiegato che cosa l’ha spinta ad abbandonare il suo comodo sedile d’archivista nell’Ufficio Coordinamento Selezioni, per il quale comunque avrà speso una parte non certo disprezzabile del suo tempo e delle sue capacità, diciamo così, operative. Non venga a recitare con me il ruolo della Vittima Innocente Di Un Gioco Più Grande Di Lei. Per certe attività è necessaria una naturale predisposizione o, ancora meglio, l’interessamento di qualcuno che conosca le nostre qualità e, soprattutto, i nostri difetti.

“Cerchi di essere molto convincente, quando me lo dirà; e lo faccia al più presto – la voce di J.M. continuava ad essere esasperantemente tranquilla, anche se si era fatta un poco più tagliente, – perché, lei ne converrà, ogni minuto che passa fa restringere di dieci maglie la rete che, a suo dire, ci hanno gettato intorno. E la sua è di certo molto meno ampia della mia.”

Il Parigino congiunse le mani sul tavolo e si protese studiatamente verso il giovane, guardandolo fisso negli occhi.

“In secondo luogo – riprese a dire con artefatta noncuranza e mantenendo sempre basso il tono dalla voce, – si sforzi di comprendere, mister Jones, che il mio problema non è proprio esattamente identico al suo: io non ho cercato nessuno, lei sí. E questo nostro incontro potrebbe benissimo essere giudicato come il tentativo di contatto di un abile agente con un traditore. Godo di molta stima in certi ambienti e sanno che corro dei rischi per affrontare di persona particolari situazioni; seguendo il mio spirito d’iniziativa che spesso non corrisponde ai tabulati dei Contratti di Dispersione.

“Infine – e nel dire questo J.M. si ritrasse indietro con pacatezza, – non sono affatto convinto della centralità della figura di Julius Gadamer. Vorrei sapere bene che ruolo ha in questa faccenda anche quell’altro poveraccio che ho vaporizzato all’ombra della torre Eiffel. Bisognerà investigare parecchio off–line per ricostruire qualcosa di attendibile su tutti e due.”

A questo punto gli occhi di Reginald Jones si illuminarono, come quelli del giocatore di poker che dopo un’attenta strategia osserva gli avversari venire a vedere il suo punto imbattibile. Poi però la sua espressione si rabbuiò e divenne quasi triste.

“Monsieur Duvalier, c’è molto di personale in quanto le sto per dire. La prego di non prendermi per pazzo. Non ho nessuna intenzione di fingere o di scherzare: so bene in che razza di situazione mi sono invischiato. Ma non avevo via d’uscita. Anche se non avessi cercato di contattarla, il mio nome era comunque andato a finire in una lista d’attesa, sulla quale nessuno vorrebbe comparire. Lo sapevano in pochi negli Uffici Coordinamento Selezioni dell’Orchestra. Credo che neppure Nogarjuv lo sapesse, anche se la cosa lo avrebbe certamente reso felice. Non mi ha mai potuto soffrire. Sono stato molto bravo, anche se, intuendo che qualcosa si era messo storto, sapevo in che direzione andare a frugare: ho violato i codici d’accesso interni, i più difficili da sbancare; ma ciò di cui sono venuto a conoscenza non mi ha dato molta soddisfazione. Insomma, ho scoperto che io, io sarei stato uno dei prossimi obiettivi da disperdere. Per sopravvivere non avevo altra possibilità che coinvolgerla nella mia storia; in qualche modo.”

Le uniche reazioni di Duvalier furono un lieve contrarsi delle sopracciglia ed un assottigliarsi delle labbra.

“Io – continuò sollevato Reginald – avevo dalla mia parte alcuni fattori importanti. Uno, sono abbastanza bravo nel lavorare con le macchine elettroniche della centoquattordicesima generazione, quelle che, dicono, hanno rivoluzionato il mondo; ma sono soprattutto un mago di paleoinformatica e archeosistemi: riesco a seguire tracce elettroniche ultracifrate ed infinitesimali nelle reti moderne, così estese, multifunzionali ed user–friendly, da essere molto vulnerabili da parte di chi sappia utilizzare in modo appropriato i protolinguaggi, dai quali tutte sono derivate.

“Due, sono ammalato. Di una malattia che per adesso hanno in pochi, ma sembra che si stia diffondendo. Non è pericolosa per chi ce l’ha, però può sconvolgere il mondo di chi ne è immune. E quindi deve essere combattuta come tutte quelle antiche malattie che minacciarono di sovvertire un tempo l’ordine sociale: la peste, il colera o l’AIDS; di fatto sopprimendo fisicamente i malati. È la malattia ideale: basta combattere ed eliminarne i sintomi per fare scomparire le cause non solo di questa, ma anche di altre potenziali epidemie, rafforzando l’igiene e l’ordine del mondo. Questa, capisce?, è la ragione più profonda che mi ha spinto ad abbandonare appena possibile il sedile dell’archivio e che mi ha dato la forza insperata di ribellarmi al mio destino: la coscienza di poter contribuire a cambiare anche quello di tanti altri.”

“Beva qualcosa, mister Jones. Ha la gola secca,” si intromise J.M. con una sfumatura di scetticismo lievemente beffardo; ma Reginald continuò inarrestabile.

“Tre, ho scoperto che nel suo dossier sono riportate alcune testimonianze più o meno intime, dalle quali risulta che anche lei ne è rimasto contagiato, e questa è la ragione altrettanto fondata che mi ha spinto a coinvolgerla: così, non solo le avrei scombinato i piani, almeno per un po’, ma l’avrei convinta a darmi il suo aiuto fraterno.

“Quattro, si dà il caso che io conosca, realmente e non virtualmente, la persona che ci può far incontrare Julius Gadamer. E sa anche chi era l’uomo che lei ha disperso a Parigi. È pronta a dirci tutto a voce, se la raggiungeremo. Non si fida dei telecontatti. Questa persona sa perché l’Orchestra le ha disdetto il contratto di dispersione all’ultimo momento.

“Ecco, ho finito. Mi dica qualcosa lei, adesso” concluse in un fiato, dopo una breve pausa, Reginald Dwight Jones.

Ombre

Jean Michel Duvalier si appoggiò allo schienale della sedia, piegando leggermente il capo da un lato. Sorrise per la prima volta all’indirizzo di Reg Jones, che lo guardava speranzoso, e chiese con ironia:

“Da quale malattia sarei affetto, Dwight?”

“Ombre. Lei vede delle ombre. Lei, io, e molti altri, vediamo delle ombre. Ogni tanto” fu la titubante risposta di Reginald.

“Mister Jones, lei sa che uno dei più azzeccati soprannomi ricevuti nella mia carriera, e che l’Orchestra conosce per l’imbarazzante voglia di pettegolezzo dei miei colleghi, è «Kodak». Perché so fotografare le situazioni che mi si presentano e valutarle meglio degli altri, dicono. Forse è vero. Ma più che di abilità, per così dire, tecnica, si tratta di istinto.”

La voce di Duvalier si era fatta di nuovo seria; sorseggiò un po’ di liquore, lo assaporò e fece schioccare leggermente la lingua. Poi continuò:

“Ora, Dwight, mi creda: se l’istinto non mi avesse subito suggerito di trovarmi di fronte ad un individuo sincero, non sarei stato a sentire le sue chiacchiere per tutto questo tempo. Però adesso ci sono alcune cose che J.M., detto Kodak, vuole fotografare meglio e gliele elencherò.

“Lei ha detto, in sostanza, che siamo tutti e due in pericolo: un po’ perché abbiamo fatto arrabbiare l’Orchestra con le nostre stonature, ma soprattutto, e in questo siamo in compagnia più numerosa, perché soffriamo di una malattia, diciamo di natura neurologica, che ci rende potenzialmente pericolosi per l’Organizzazione e il sistema che essa rappresenta e protegge. E questo, mi pare di capire, vale in special modo per Julius Gadamer. È giusto?”

Reginald fece di sí con la testa.

“Bene – continuò Duvalier, – però prima di andare dall’oculista ne dovremmo sapere di più, non crede? È vero: io da un po’ di tempo vedo delle ombre intorno a me, ma questo non mi ha impedito di diventare qualcuno nella difesa dell’ordine costituito e l’Organizzazione lo sa e le sta bene così. Tanto più che a me queste ombre non dicono niente. Che c’entrano le ombre con la destabilizzazione del sistema?”

“Infatti, monsieur Duvalier, non si tratta di andare dall’oculista né dal neurologo – rispose Jones, – ma da persone semplici che non abbiano dimenticato il senso profondo della nostra vita in questo mondo e cerchino di metterlo in pratica, anche contro le regole consolidate da tempo di questo sistema ad una dimensione, tanto ben organizzato da considerare eversivo e perseguitare qualsiasi embrione di esistenza alternativa. Lo so che per un archivista informatico come me e per un dispersore come lei potrebbe essere considerata una perdita di tempo ed una scelta controproducente, ma la prego di concedermi soltanto quarantott’ore. Ho una… ho rimediato una vecchia automobile per spostarci più liberamente, senza l’incubo dei rilevatori dell’aviotraffico; così…” e qui Dwight fu costretto ad interrompersi per qualcosa che non ebbe neanche il tempo di definire paura.

Tutto si susseguì come in una visione olografica rallentata.

Vide l’espressione di Duvalier farsi determinata e crudele, e per un attimo si sentì perduto. Poi si rese conto che non guardava verso di lui, ma fissava un punto dietro le sue spalle. Lo vide ergersi risoluto dalla sedia, allontanandola contemporaneamente con un calcio della gamba destra, e rovesciare il tavolino per mezzo di un colpo secco del braccio sinistro, accompagnato da un rumore di vetri infranti e un tonfo metallico.

Reginald si abbassò per schivare i frammenti dei bicchieri e le stoviglie che gli cadevano addosso, proprio nell’istante in cui qualcosa gli passava vicinissimo e perforava il muro di fronte. Sentì le urla spaventate degli altri avventori e notò il medio inanellato della mano destra del Parigino, rimasto freddo ed impassibile, scattare verso la tasca superiore della giacca e agganciarvisi con un rumore secco. Poi vide un piccolo cilindro nero spuntare dall’interno della stoffa come risucchiato, e aderire strettamente al pollice e l’indice, in una via di mezzo tra un’antica pistola e l’impugnatura di un annichilatore da guerra miniaturizzato.

La mano di Duvalier si distese con tutto il braccio in direzione di una donna che si era spostata verso l’uscita, dopo aver scagliato la borsetta in faccia al suo accompagnatore terrorizzato a terra, anche lui accanto ad un tavolino rovesciato. La donna stava puntando di nuovo un’arma verso di loro, ma non fece in tempo a sparare una seconda fiondata. Una folgore azzurrina scaturì dall’anello di J.M. e andò a scaricarsi nel centro della fronte della donna.

La scena fu impressionante, anche perché Reginald non aveva mai assistito di persona ad una annichilazione.

I capelli della donna svanirono in una fiammata, mentre la testa si tramutò in un grosso grumo di poltiglia bollente che, liquefacendosi e colando giù, divorava friggendo tutto il resto del corpo; finché alla fine sul pavimento non rimase che una pozza di liquido denso e fumigante. Un odore disgustoso si diffuse all’intorno, mentre anche quella evaporava.

Il Parigino, fatto sparire l’annichilatore, afferrò con vigore il braccio di Reginald che stava ancora accovacciato per terra.

“Non vedo solo le ombre. Andiamo via, presto – gli bisbigliò strattonandolo. – Magari avessimo quarantott’ore!”

On the road again

Reginald guidava con attenzione un’antica automobile Chevrolet della fine del ventesimo secolo. C’erano ancora dei matti che preferivano viaggiare su quattro ruote piene d’aria, per le vecchie strade ampie di quelli che un tempo erano chiamati gli Stati Uniti d’America. Così queste macchine avevano ancora un mercato fiorente e quasi legale. E lui l’aveva potuta acquistare senza tante storie, con un nome falso.

J.M. era seduto sul sedile a fianco, e osservava il panorama da dietro un paio d’occhiali scuri. Il sole si era da poco alzato dietro di loro, su di un orizzonte desertico. Avevano viaggiato per un giorno e una notte, percorrendo una delle vecchie interstatali, in direzione ovest, da Amarillo a Tucumcari. Ora, lasciatisi alle spalle Albuquerque, stavano per giungere a Flagstaff, ai limiti dell’Altopiano del Colorado, dopo aver attraversato il Texas, il New Mexico e parte dell’Arizona.

“Ce l’ha una sigaretta, Dwight?” chiese il Parigino senza voltarsi dal finestrino aperto.

“Sí. Certo che ce l’ho. Lei fuma?”

“Ho smesso anni fa. Ma in certe situazioni non ha alcun senso non fumare.”

Prese una sigaretta sintetica dal pacchetto che Reginald gli porgeva, poi continuò a dire, assorto nelle sue considerazioni:

“Quella donna aveva un annichilatore magneto–meccanico. Non sono armi comuni: in dotazione ce l’hanno solo le squadre speciali di intercettazione. Non sono distruttivi come quelli tradizionali, ma sono più facili da nascondere e da usare. L’ideale, per una donna. Sparano senza il minimo rumore minuscole biglie di metallo, rese micidiali dall’enorme velocità d’impatto dell’iperpropulsione magnetica. Siamo stati fortunati. Quel foro che ha visto nel muro, ce lo poteva fare nelle nostre teste. Una dietro l’altra. Se non avessi avuto quella reazione, nessuno si sarebbe accorto di nulla. Dopo un po’ ci avrebbero scoperto con le teste bucate, reclinate una accanto all’altra sul tavolino, come due ubriachi addormentati. Scena ordinaria in quel tipo di locali. E la donna avrebbe avuto tutto il tempo di sparire indisturbata; dopo aver sistemato anche il suo amichetto, magari. Mentre a noi, ora, ci tocca correre. Il lampo di un annichilatore da guerra non è tanto facile da dissimulare, e quello che è successo nell’autobar adesso starà già nero su bianco sulla scrivania di Noham Nogarjuv, che invece s’aspettava un rapporto di dispersione di tutt’altro genere.”

“Ci può giurare, monsieur Duvalier.”

“Non è venuto anche per lei il momento di apostrofarmi in modo meno formale? – Nel dire questo Duvalier si era voltato, si era tolto gli occhiali da sole e aveva sorriso a Reginald. – Mi chiami J.M., o Michel, è il nome che preferisco.”

“Perché non Kodak?” chiese Reginald.

L’espressione di Duvalier si fece seria, mentre inforcava di nuovo gli occhiali, rimettendosi a guardare l’orizzonte.

“Mi ricorda un’abilità che non è merito mio. E che si è consolidata a seguito del dolore di molte persone. Non mi piace che un nome stupido me lo rammenti. Il passato può passare davvero, a patto che lo si dimentichi completamente. Ma qualcosa rimane sempre, e anche una parola può riportarlo alla luce. Per questo bisogna stare attenti nel parlare: si possono scegliere le parole giuste, volendo.”

“Qualcosa da ridire sul suo passato, Michel?”

“Non lo so – Duvalier soffiò un’ultima boccata di fumo e spense il mozzicone nell’antiquato portacenere dell’auto. – Forse per me le prossime quarantott’ore saranno più importanti di tutti gli anni precedenti. Saranno definitive. Ma vorrei arrivare a sapere perché. Un tempo ho avuto una madre che ha sputato sangue per dare qualcosa di più a me e a mio fratello. È morta durante una campagna di disinfestazione etnica su Polar, quando si è trovata a difendere la parte sbagliata. Di mio fratello non so più nulla. Potrei ritrovarlo, se volessi. Ma non credo che mi farebbe una grande impressione: l’ultima volta che ho sentito il suo nome è stato quando anni fa si preparava per battere il record di salto ipogravitazionale. Era uno di quei matti che si mettono in mostra e fanno soldi con le imprese estreme. Certe volte mi chiedo come è stato possibile che da una madre come la nostra, siano venuti fuori due figli così. Me, in particolare. Mio fratello non ha mai fatto fuori nessuno; almeno credo.”

“Lo ha detto prima, Michel. Qualcosa rimane sempre. Da una parte o dall’altra, per una ragione o per l’altra, un bel momento cambiamo e riusciamo a lasciare finalmente delle tracce. E tutto quello che abbiamo fatto prima ci appare senza significato e senza scopo.”

“Anche la morte di altre persone, Dwight?” disse Duvalier, continuando a guardare fuori dal finestrino, con le braccia conserte.

“È storia, Michel! Sono proprio quelli come lei, che un giorno, se vogliono, possono smettere di distribuire dolore e morte e consentire a tanti altri di vivere ed essere felici. Per il grande ciclo dell’universo può non significare nulla, ma per l’esistenza di un singolo individuo è tutto. Nell’antichità la chiamavano redenzione, o nirvana. Le conseguenze dei nostri atti possono essere tante. E se abbiamo fatto bene o male lo si può sapere solo dalle tracce che ci lasciamo dietro. Solo gli altri ne sapranno qualcosa, quando se le troveranno davanti. Per noi è difficile individuarle e valutarle. Possiamo farlo soltanto con quelle lasciate da altri, a loro volta.”

“Sono queste le ombre di cui parlava, Dwight?”

“Non lo so. Ma so che ci lasciamo sempre un’ombra dietro. Noi dopo un po’ dimentichiamo pure che esiste. Gli altri, però, la vedono.”

“Lei, Dwight, vede la mia?”

Reginald distolse lo sguardo dalla strada, che stava percorrendo a bassa velocità per godersi il paesaggio. Si volse verso il Parigino e sorrise, poggiandogli con simpatia una mano sulla spalla.

“Io ancora no – disse con garbo. – Ma la sto portando da una persona che certamente è in grado di vedere quella di tutti e due. La sua e la mia.”

“E chi è?”

“È una donna. Anche lei ha un nome strano: si chiama Julie. Julie Nativité.”

Out

“Qui potete stare tranquilli. Almeno per un po’.”

Colei che aveva parlato con voce delicata era una giovane donna minuta e slanciata; con un bel viso dalla carnagione chiara, che faceva risaltare l’intenso marrone degli occhi dai riflessi corvini, come i suoi lunghi capelli ondeggianti alla brezza leggera del pomeriggio, nella landa desertica dove Reginald e Jean Michel erano finalmente arrivati. Nei dintorni c’era soltanto qualche casetta sparsa.

La donna stava in piedi, vestita di un abito di fibra naturale decorato con piccoli disegni floreali, davanti ai muri intonacati a calce di un piccolo edificio che aveva tutta l’apparenza di essere una casa colonica ancora in costruzione, influenzata dalle antiche architetture amerindie; al di là della staccionata del recinto posteriore si intravedevano le figure affaccendate di un ragazzo e di un cane saltellante. La gonna le arrivava fino alle caviglie e sventolava al di sotto di un corto giacchino di pelle, che lei teneva stretto intorno alla vita con le braccia conserte. Duvalier si chiese come la donna avesse potuto realizzare o rimediare quel genere di abitazione e di vesti. Erano secoli che certe arcaiche tecnologie di costruzione e tessitura si erano perse.

Gli occhi sinceri della donna lo avevano incantato. Non poteva fare a meno di contemplarli, mentre sentiva la sua bocca pronunciare gentili parole d’accoglienza e notava le ombre di tutti loro proiettarsi, come ascoltatori cortesi e silenziosi, sui muri candidi, dorati dalla calda luce del sole basso all’orizzonte. Non si era mai accorto di come le ombre fossero capaci di esistere indipendentemente dagli uomini. Ci doveva essere qualcosa di vero in quello che Dwight aveva raccontato a proposito della malattia delle ombre, pensò.

“Non è una malattia, monsieur Jean Michel – disse con un sorriso la donna. – Come le avrà già sicuramente ricordato Reg, gli atti degli uomini non sono mai stati senza conseguenze. Oggi quelle negative sono diventate talmente gravi, che perfino le ombre sembrano volerne prendere le distanze, rendendosi autonome e quindi più visibili. Perciò coloro che hanno conservato degli occhi buoni, ora le percepiscono meglio.”

“Come ha fatto a leggermi nel pensiero, signorina Julie?” chiese sorpreso Duvalier.

“Forse questa è una malattia. Ereditaria, però.”

“Ah! E da chi l’avrebbe ereditata?” volle sapere l’uomo, con tono scherzoso, ma non del tutto.

“Si tenga forte, Jean Michel. Da quella che io ritengo essere insieme mia madre, mia sorella e me stessa. Ma qualcosa devo aver preso anche da mia nonna, o madre, a seconda dei precedenti punti di vista.”

“Come sarebbe a dire?”, l’espressione di Duvalier era comicamente costernata.

Julie Nativité si fece una schietta risata e disse:

“Beh, ha proprio ragione. La storia è un pochettino complicata, ma si potrebbe riassumere in questo modo. Una trentina d’anni fa una grande biologa di nome Anna Gadamer – e qui Duvalier diede un’occhiata interrogativa a Reginald che invece non batté ciglio – perse in circostanze drammatiche quella che potremmo definire la sua seconda figlia. Costei non era altri che un clone della vera figlia che Anna aveva avuto dal marito Humbert Nativité e che era morta giovanissima di una malattia inguaribile. Anna ed Humbert decisero di sfruttare le loro conoscenze scientifiche, facendo rivivere mediante un rischioso processo di clonazione una copia di questa loro prima figlia Julie. E nacque così la seconda Julie Nativité. Quando costei, come le dicevo, una trentina d’anni fa venne assassinata, Anna Gadamer, che era ancora viva, riuscì a recuperarne le spoglie per clonare una terza Julie, che sarei io. Quindi, come vede, a seconda di come si giudichi il rapporto di parentela che il processo di clonazione instaura, la seconda Julie potrebbe essere considerata come mia madre, mia sorella od anche un’altra me stessa. E il medesimo ragionamento si può fare per Anna Gadamer. È chiaro adesso?”

“Sì. Beh, no. Non tanto, ma mi ci abituerò” rispose Duvalier in modo cortese. Poi soggiunse:

“Però non ha risposto alla mia prima domanda: come ha fatto a leggermi nel pensiero?”

“Un po’ di telepatia. Credo che sia una conseguenza dei ripetuti processi di clonazione. Essi hanno in qualche modo distillato e raffinato in me le tenui capacità telepatiche già presenti in Anna Gadamer. Le successive clonazioni non hanno fatto altro che isolarle geneticamente ed evidenziarle. Del resto le capacità telepatiche del mio fratellino sono ancora più strabilianti. Ora lo vado a chiamare…”

“Sono già qui” disse una voce da ragazzo proveniente da dietro di loro.

“Che le dicevo, Jean Michel?” disse Julie sorridendo e prendendo la mano del nuovo venuto. Poi continuò:

“Le presento il frutto di una mia privata clonazione, più complessa delle precedenti dato anche il programmato cambiamento di sesso: quello che io considero un mio fratellino minore. Le presento Julius Gadamer Nativité. Julius, questo signore si chiama Jean Michel. L’altro già lo conosci, da quando è venuto qui tempo fa.”

“Ciao, Reg. Piacere, Jean Michel! Questa è Yaska” disse gioioso il ragazzo, additando la cagna che gli si era avvicinata, scodinzolando.

Duvalier notò che l’ombra dell’animale era molto meno netta delle loro e osservò per alcuni istanti il volto adolescente di quel ragazzo che non aveva più di quindici anni. Si era rimesso sul viso una mascherina antipolvere ed era tutto imbrattato di frammenti metallici e schizzi di vernice. L’uomo tese incerto la mano verso di lui che la strinse vigorosamente.

“È un po’ sporco – spiegò Julie, – ma con quelle mani sa fare di tutto. Questa casa, l’ha fatta lui. Anche i miei vestiti. Li ha disegnati tutti e mi ha aiutato a tessere la stoffa e a cucirli. Ora sta ricostruendo due antiche biciclette. Dice che sono meglio delle aviomobili! Presto, noi tutti della comunità, ci sposteremo con quelle.”

Jean Michel socchiuse leggermente le labbra per la sorpresa e si volse a guardare Reginald, il quale gli sorrise argutamente, dicendo in tono sereno:

“Siamo fuori, Michel. Siamo finalmente out. Fuori dall’Organizzazione e dall’Orchestra, fuori dalle camere a gas del sistema. Stiamo riconquistando i nostri antichi sentieri e per questo ora ci temono. Non riescono a controllare chi può fare a meno del loro mondo senza ombre. Siamo nel luogo dove tutte le cose si vedono da una prospettiva diversa e le ombre ci precedono per farsi riconoscere e metterci in guardia dalle conseguenze delle nostre azioni. Benvenuto a Flatlandia, monsieur Duvalier! Le auguro di avere occhi buoni, da oggi in poi.”

Punti di fuga

“Possibile che io dovevo eliminare un adolescente come Julius Gadamer? E perché non avrei dovuto più farlo con quell’altro tizio, a Parigi?” chiese in tono recriminatorio Duvalier, seduto insieme alla donna e a Jones nel soggiorno della casa colonica. Fuori, Julius ed un’altra ragazza si rincorrevano, inseguiti da Yaska.

Reginald tossicchiò per schiarirsi la voce e poi, dando un’occhiata alla donna, disse dubbiosamente:

“Beh, alla prima domanda potrei rispondere io, perché Julie e tutti gli altri Vedenti della comunità me l’hanno spiegato bene…”

Poi, ad un cenno concorde di Julie, continuò:

“Julius Gadamer rappresenta un grave pericolo per l’Organizzazione perché è un nuovo esempio di essere umano. Come non ne nascono da almeno tre secoli. Caro monsieur Duvalier, noi ci siamo dovuti ammalare per vedere le ombre che ora ci danno la possibilità di riflettere e comprendere un po’ di più, ma lui è nato già guarito. È come se la clonazione, di cui è frutto, avesse purificato tutti i suoi geni dalle scorie accumulatesi durante i secoli negli esseri umani. E senza tutti i condizionamenti precedenti. È un ragazzo che disdegna le falsità dell’apparenza a cui l’Organizzazione ci ha assuefatto da secoli, che apprezza il lavoro manuale, il vivere parco, il parlare sincero con gli altri e l’esercizio della ragione e della tolleranza; insomma un complesso di ideali che sono lo specchio di una concezione del mondo e dell’esistenza esattamente opposta a quella su cui poggiano gli ordinamenti e il potere dell’Organizzazione in tutto il Sistema Solare, da alcuni secoli. Noi, qui a Flatlandia, ad un tale livello di discernimento ci arriveremo a poco a poco. Però lui e la ragazza con la quale giocava, Emma Rae Niehaus, sono esito entrambi delle più recenti tecniche di clonazione, ed oltre ad avere questa rinnovata sensibilità umana, hanno anche forti doti telepatiche, molto più profonde di quelle di Julie, come altri giovani della comunità. Costituisce un contrappasso spaventoso il fatto che per far nascere nuovamente degli esseri umani veri, si debba ricorrere alla clonazione.”

Reginald fece una pausa preso da uno scrupolo improvviso, e scrutò interrogativamente J.M., domandandogli:

“Mi segue, monsieur Duvalier?”

J.M. fece un piccolo cenno affermativo, e disse con un sorriso malinconico: “Sí, comprendo molto bene.” Ma i suoi occhi lasciavano trasparire una consapevolezza molto superiore a quella che Reginald e Julie avrebbero potuto immaginare.

“Per quanto riguarda la seconda domanda…” ricominciò a dire Reginald, interrompendosi però subito, imbarazzato ed incerto.

Julie allora guardò prima Duvalier e poi Reginald.

“Posso spiegarglielo io, Reg?” intervenne rivolta al giovane, che accennò di sí con la testa e poi la chinò.

“Quell’uomo che lei ha ucciso a Parigi – disse Julie, – proveniva da qui. Da Flatlandia. Questo luogo non esiste in nessun file geografico ufficiale. Ci siamo nascosti bene, qui nel deserto, noi e la piccola comunità di Vedenti che ci si è formata attorno. Però l’Organizzazione era sulle nostre tracce. E aveva introdotto fra di noi un infiltrato, un uomo apparentemente pulito, che lei era convinto di inseguire in tutt’altra parte del mondo: infatti, pur dandogli la caccia per diciotto mesi, non l’ha mai trovato. Le informazioni riservate che ogni tanto riceveva erano ben manipolate dall’Orchestra per depistarla. Costui, Stavros Mikojan, stava invece qui a fingersi uno di noi, per eliminare al momento opportuno Julius Gadamer; il fatto che Stavros ufficialmente fosse ricercato da un’altra parte, doveva impedire la sua localizzazione qui, dove agiva sotto falso nome. Anche noi prendiamo le nostre contromisure, ma non avremmo mai potuto scoprire in mezzo a noi uno come Stavros, se risultava continuamente sotto tiro da parte sua in Europa. Poi è accaduto qualcosa di strano: chissà come, l’Orchestra è venuta a conoscenza del fatto che anche lei, Michel, vedeva le ombre. Qualcuno deve aver alterato un suo file d’archivio al momento giusto – nel dire questo Julie si volse verso Jones e sorrise, – scombinando tutti i piani degli Orchestratori che hanno perso la testa; hanno pensato che lei fosse diventato il principale pericolo per l’Organizzazione: un Vedente come noi e per di più esperto in ogni genere di dispersione di Terra. Così hanno richiamato a Parigi Mikojan con l’ordine di eliminarla, mentre a lei intimavano di sospendere la selezione.”

Julie tacque per un attimo e sorrise a Duvalier, sfiorandogli una mano con simpatia, poi riprese:

“Il seguito doveva essere grosso modo questo: lei, alla ricerca impossibile di Julius Gadamer, nel frattempo sfuggito alla caccia vera di Mikojan arrivatogli vicinissimo, si sarebbe scoperto le spalle e sarebbe stato disperso da Mikojan stesso, trasferitosi alle sue calcagna. Però il nostro archivista misterioso ci ha dato di nuovo una mano. Ha fatto ritardare di alcuni provvidenziali giorni la consegna a lei dell’ordine di Cessazione di Selezione, di cui si è poi comunque infischiato. Così a Parigi lei ha veramente trovato Stavros che era lì per eliminarla, ma se ne stava tutto tranquillo, convinto che lei avesse già smesso di cercarlo in seguito all’ordine che supponeva già comunicatole. Al nostro amico misterioso è bastato ritardare uno dei due ordini per renderne gli effetti completamente opposti. Poi, a cose fatte e ormai definitivamente bruciato, è scappato per rifugiarsi da noi e gli abbiamo chiesto il favore di mettersi in contatto diretto con lei. Ed ora siete tutti e due qui.”

“Beh, non è stato così semplice inserirsi nei codici dei file cifrati della rete elettronica di sicurezza dell’Orchestra! – esclamò Reginald. – Comunque ho fatto del mio meglio per disorientarli un po’.”

A questo punto J.M. sbottò:

“Quindi, se io non avessi continuato a cercarlo e non fosse rimasto fermo ad attendere la conferma della mia avvenuta Cessazione di Selezione da parte dell’Orchestra, Stavros durante quei pochi giorni avrebbe potuto disperdermi in ogni momento. Lui a me! Vero, mister Reginald Jones?” la voce del Parigino si era fatta di nuovo tagliente, mentre scrutava torvo il giovane.

Julie intervenne a salvare il povero Reginald che era impallidito, e disse:

“Sí. C’è stato un periodo di drammatico black–out, ma Reg era pronto ad avvisarla e a cercare di aiutarla in tutti i modi, dopo il suo necessario e obbligato coinvolgimento.”

Duvalier fece una smorfia e disse:

“Sí, me lo immagino proprio. Ah, maledizione!” e nel proferire quest’unica imprecazione lo videro alzarsi, calare un pugno sul tavolo e ritirarsi nella camera accanto, sbattendo la porta.

Reginald fece per alzarsi a dirgli qualcosa, ma la mano di Julie Nativité lo fermò con un gesto deciso.

“Lascialo stare. È provato da troppe cose. Vedrai che capirà. Presto si renderà conto di quanto anche tu abbia rischiato” sussurrò al giovane che si rimise a sedere, guardandola perplesso.

Controsenso

“Perché fra tanti dispersori in giro a suonare la musica dell’Orchestra, è andato a cercare proprio me, Dwight?” chiese J.M., voltandosi a guardare il giovane che gli stava a fianco. Il tono tranquillo indicava che il disappunto della sera precedente si era dileguato.

Erano tutti e due vicini alla staccionata del recinto e il sole ormai alto nel cielo disegnava le loro ombre al suolo con precisione. Ma ancora più nitide erano le ombre di Julius e di Emma Rae, la stessa ragazza del giorno precedente che si divertiva con lui poco lontano. L’unico spicchio di realtà nel campo visivo di J.M. era la parte posteriore dell’auto che Reginald aveva parcheggiato pochi metri più avanti il giorno prima, appena arrivati.

Quando all’alba si era alzato, Julie aveva dato a Jean Michel un cappellaccio floscio e un vecchio poncho di stoffa indiana, nel quale si era avvolto tutto per proteggersi dal freddo del mattino, visto che si era svegliato con qualche linea di febbre. Adesso tremava ancora un po’, ma gli pareva di stare meglio.

“Mi sembrava quello più stanco di suonare, e così ho cercato di darle l’opportunità di lasciare in tempo il quartetto d’archi. Ed era il più bravo!” rispose sorridendo Reginald, dopo essere stato qualche minuto a contemplare distrattamente la punta del suo stivale smuovere i sassi del sentiero, che costeggiava la staccionata.

“Inoltre – aggiunse poi in tono più serio, – da quello che leggevo sui monitor, lei era quello più ammalato di tutti, anche perché certi precedenti della sua vita, non mi parevano quelli propri di un suonatore per passione, ma per necessità. L’ha detto lei che ci scelgono tutti più per i nostri difetti che per le nostre qualità, no?”

Duvalier increspò le labbra e chinò il capo.

“In effetti, molti anni fa, mi venne prospettata un’offerta che non mi fu reso possibile rifiutare” disse J.M. in tono assorto, mentre i suoi occhi, puntati nuovamente verso l’orizzonte, sembravano scrutare la scena di un vecchio film, visto e rivisto tante volte.

Ci fu un momento prolungato di silenzio e Reginald si mise a guardare la bionda Emma Rae che rideva allegra, davanti all’imbarazzato Julius. Non fece in tempo a spiegarsene il motivo, che Duvalier gli chiese alzando il tono della voce:

“Perché l’ombra del cane non è nitida, come quella dei due ragazzi? O come la mia e la sua, da quando siamo qui?”

“Kodak non riesce più ad inquadrare bene la realtà! – ironizzò in tono benevolo Reginald. – È per via della loro sostanza. Essa, mi hanno spiegato, si accresce mano a mano che diminuisce la nostra. Questo per due motivi distinti: uno, il nostro cedere al male e, due, il nostro resistervi. Un giorno, le ombre si staccheranno da noi. Speriamo che lo facciano per proteggerci, e non per abbandonarci. E quelle degli animali sono sempre state meno nitide. Con essi vanno d’accordo. Le loro sostanze non si contrappongono, perché vivono indipendenti e gli animali non tendono né al bene né al male, quando decidono per qualcosa. Ombre e bestie non si separano mai, come accade a noi.

“Mia madre mi faceva discorsi simili, quando ero piccolo. Ma… Chissà se è andata davvero così, tra me e lei?” concluse pensoso Reginald.

“Questa storia della sostanza, chi gliel’ha raccontata?” chiese J.M. con imbarazzata curiosità.

“La prima volta che sono venuto qui – rispose il giovane, – anch’io volevo sapere qualcosa di più della malattia delle ombre. Allora Julie e i Vedenti mi hanno condotto a poche miglia da qui. In uno di quegli antichissimi insediamenti, che un tempo gli indiani chiamavano pueblo, vive un vecchio sciamano. Il suo nome è Washokadunish, grosso modo Colui Che Cavalca Il Serpente. Washokadunish ci portò tutti in una spelonca. Accese un fuoco in mezzo a noi e ci diede da bere e da fumare, non so che cosa. So però che dopo un po’ le nostre ombre non ci stavano più appiccicate dietro, sulle pareti della caverna; ma si erano avvicinate a noi e ci guardavano negli occhi. Non ho mai provato una sensazione simile. Una di loro, quella che mi stava più vicina, pareva avesse il volto di mia madre. Beh, poi…– la voce di Reginald si era abbassata ed aveva assunto un tono commosso. – Poi non ci crederà, ma l’ho udita sussurrare una frase che mia madre mi ripeteva spesso: ‘Quando io non ci sarò più, certe cose dovrai imparare a farle da te. E poi non è detto che io debba essere morta per non vederti più.’ Ha detto proprio così. Mi sono voltato e l’ho vista sorridere. Ha steso una mano, o almeno quella che avrebbe dovuto essere l’ombra della mia mano, e mi ha accarezzato il viso.

“Al ritorno ho chiesto a Julie se avesse avuto delle allucinazioni come me. Ma lei, con tutta calma, ha risposto che aveva visto un’ombra accarezzarmi e parlarmi. Ed ha ripetuto le stesse parole che l’ombra mi aveva sussurrato. Quelle parole le aveva sentite anche lei, accovacciata al mio fianco. Ancora adesso non mi ci raccapezzo. Washokadunish però ci aveva dimostrato che quando noi perdiamo la sostanza del nostro essere, in un modo o nell’altro, le nostre ombre si distaccano e vivono oltre noi. E questa non è una malattia.”

Reginald si scosse, passandosi una mano sugli occhi. Si voltò a guardare J.M. ed accennò un sorriso, dicendo:

“Domani, se vuole, andremo da Washokadunish. Vedrà la sua ombra di fronte a sé, e anche lei potrà cavalcare il serpente.”

Duvalier fissò Reginald con uno sguardo intenso. Inspirò profondamente, quasi sospirando. Poi si volse verso l’orizzonte, dando le spalle al giovane. Scostò il poncho dal fianco e mise una mano in tasca per trarne il suo anello nero. Se l’infilò al dito; chiuse e riaprì il pugno più volte. Reginald lo osservava senza parlare.

“No, Dwight – disse J.M.; – la febbre è già passata. Domani riprendo la mia via, ma in direzione opposta. Voglio ripercorrere la mia vita controsenso. Devo scoprire quando ho incontrato il bivio che mi ha fatto sbagliare strada. Così, forse, tornerò a vedere le ombre. Sempre.”

“Buon per lei, J.M.! Però si ricordi che al di là di questo recinto magico dove l’ho portata, ci sono ancora debiti di gioco da pagare e qualche spartito da completare. Mi sarebbe piaciuto vedere l’effetto che fa a uno come Noham Nogarjuv finire nella grotta di Washokadunish!”

“No, Dwight. Non ha capito. Non abbandono il gioco, se è questo che teme. Soltanto, voglio provare come si sta dall’altra parte del tavolo e andare a vedere io le carte del banco.”

Duvalier si voltò e guardò con una sfumatura di complice familiarità Reginald, continuando senza alcun malanimo:

“Sono arrivato al giro di boa, mister Reginald Jones. Ormai, dietro di me, posso tollerare unicamente la mia ombra, ammesso che continui a venirmi appresso. Tutti quelli di prima devono lasciarmi in pace, o sparire. Forse sarà un po’ di stanchezza, ma non sopporto più un mondo dove gli ammalati sono costretti a rifugiarsi nel deserto. Comincio ad ammirarla molto, sa? Anche se non ha mai usato un annichilatore e non porta addosso alcun detettore!” J.M. fece un sorriso e proseguì:

“Fino adesso, con la razionalità dei miei metodi, ho mascherato l’irragionevolezza di quello che mi obbligavano a fare. Ora so invece che esistono tante ragioni irrazionali per compiere qualcosa di ragionevole. Quindi non sarà Noham Nogarjuv ad entrare nell’antro di Washokadunish, ma J.M. detto Kodak ad entrare in quello di Noham Nogarjuv. O me o loro, Dwight. Per l’ultima volta!” concluse Duvalier.

“Allora, se sarà un duello, conservi quel cappellaccio e quel poncho. Sembrerà proprio un eroe western!” consigliò scherzosamente Reginald.

J.M. lo guardò col sorriso sulle labbra e disse:

“Non avrei mai pensato che lei fosse un appassionato di quei vecchi film. Ma questo non sarà un duello. Sarà piuttosto una guerra.”

“Perché? Dove è diretto, monsieur Duvalier?”

“Vado nel luogo dove credo sia situato quel bivio che mi ha fatto sbagliare strada. Ritorno ad Oklahoma City, nei sotterranei dell’Orchestra che lei conosce anche col nome in codice di Passoscuro, dato che vi lavorava dentro le viscere elettroniche. Voglio posare il mio anello sulla scrivania di Noham Nogarjuv.”

“Dopo di lui ne troverà sempre un altro, a darle la caccia. E, comunque sia, dovrà aprire le elettroporte di parecchi reparti di sicurezza ed ingannare innumerevoli ricognitori automatici d’identità.”

“Non ha detto di essere un mago di paleoinformatica e di archeosistemi? I nostri ospiti hanno case e vestiti antichi, ma sembrano molto ben forniti in quanto a compuserver, connessioni di rete e LAN satellitari. Si dia da fare allora, e mi spiani la strada col vecchio DOS!”

“Monsieur Duvalier, lei sta ridando gusto alla mia vita! – esclamò soddisfatto Reginald. – Non la facevo anche un raffinato antiquario.”

“Infatti. Vorrei che mi rimanesse il tempo per coltivare tali nobili interessi anche in vecchiaia. Dopo.”

“E allora avrà bisogno di alleati!” concluse Reginald, dando un calcio ad un sasso e spedendolo oltre il recinto, con uno schiocco secco.

Julius Gadamer e Emma Rae si volsero all’improvviso, percependo un’eco indecifrabile da una lontana regione della loro mente, e li guardarono preoccupati e perplessi.

Così come Julie Nativité, che li osservava ormai da parecchi minuti sulla soglia del piccolo portico, sbriciolando pane agli uccellini.

Ritorno al DOS

Mister Reginald Jones aveva svolto senza errori il suo compito. La telepatia di Julie e del suo fratellino, non avrebbero potuto far molto per aiutare J.M. a tremila chilometri di distanza. Il giovane si era offerto di accompagnarlo, ma Duvalier aveva insistito affinché, rimasto a Flatlandia, gli aprisse la via nei sotterranei più protetti del Sistema Solare, manomettendo con antichissimi comandi DOS, ormai somiglianti a formule magiche, il funzionamento di compuserver, reti e ricognitori di sorveglianza.

Sfruttando la sua dimestichezza con i protolinguaggi, aveva immesso alcune fondamentali istruzioni, in disuso da tempo, nei file compilatori di supporto ai nucleosistemi, che comunque continuavano ad essere il piccolo arcaico cuore pulsante di tutte le schede iperveloci di controllo e autodiagnosi.

Colloquiando via LAN dalle console di Flatlandia, Reginald aveva reso ciechi e sordi tutti i sistemi di sicurezza di Passoscuro, sovrapponendo alle istruzioni giuste quelle di false routine, molto più antiquate ma proprio per questo più efficaci: come se le macchine sentissero maggiormente il richiamo di un linguaggio arcaico e diretto, preferendolo al fascino invadente di linguaggi attuali, più rapidi ma meno convincenti.

Con l’implementazione di complicati file–batch, che ormai soltanto lui sapeva editare, il giovane aveva scambiato la configurazione delle enormi memorie correnti con quella dell’originaria memoria convenzionale, completamente dimenticata e sepolta all’interno degli archeosistemi; inadatta alla gestione di quelli contemporanei, ma ancora validamente utilizzabile per mezzo delle paleoistruzioni giuste, che egli conosceva alla perfezione.

Così Reginald aveva provocato continui falsi allarmi e costretto le forze di sicurezza di Passoscuro a guardia di obiettivi fasulli, mentre J.M. trovava la strada sempre più sgombra.

Però, una cosa non l’aveva potuta fare.

L’antro di Noham Nogarjuv da questo punto di vista era inespugnabile: infatti era che Reg aveva lavorato fino a qualche tempo prima, e tutti i sistemi elettronici ed informatici erano stati installati da lui, riveduti e corretti.

Lì, il suo, era stato un vero e proprio ritorno al DOS. Noham Nogarjuv non ne capiva un’acca ma sapeva della sua bravura, così non aveva aperto bocca quando Reg aveva scombussolato tutti i collegamenti, le macchine e le attrezzature dei reparti di sicurezza attigui al suo bunker, andando a recuperare di persona vecchi hardware, dismessi da decenni. Ora malediceva quel suo eccesso di snobistica originalità.

Lì, adesso non poteva fare proprio niente. Perché in tutti i locali di quel bunker i sistemi erano stati come vaccinati: essi conoscevano le caratteristiche dei vecchi linguaggi e avevano prodotto gli anticorpi che li proteggevano. Lui ne aveva curato personalmente la programmazione con arcaiche routine compilatrici in linguaggio macchina, quindi per essi il riconoscimento e l’esecuzione dei comandi indirizzati alla memoria convenzionale non costituivano alcun problema. In sintesi, proprio lui gli aveva insegnato a distinguere le istruzioni false da quelle vere.

Non l’avesse fatto, ora J.M. sarebbe potuto penetrare fin nel cuore di Passoscuro e avrebbe potuto affrontare faccia a faccia Noham Nogarjuv: il suo annichilatore contro quello dell’altro.

Ma così non sarebbe stato, perché lui non era riuscito a disinstallare i sistemi automatici di rilevamento né a far disperdere la guardia di sicurezza.

Se non era già morto, J.M. ora si trovava sicuramente inquadrato nel monitor sulla scrivania di quel ciccione schifoso.

E si rammentò con terrore di una frase che Duvalier aveva buttato lì qualche tempo prima.

Voglio posare il mio anello sulla scrivania di Noham Nogarjuv.’

Enzo Lisi “Sistemi di sicurezza” olio su tela cm 183 x 120 anno 1997 mostra “Silenzio”

Passoscuro

La sua ombra era sempre più decisa e netta. J.M. la vedeva stagliarsi nitida poco oltre il cofano di una delle aviomobili di sicurezza, parcheggiate all’interno del garage del livello sotterraneo.

Il bagliore giallo–ambrato, che ritagliava la sua immagine e quella del riflesso metallico del vetro anteriore della macchina, era quello delle normali lampade di sicurezza antifumo, e basta. Strano. Se, come aveva garantito Dwight, fosse scattato un falso allarme generale, ben altre luci avrebbero dovuto essere ora in funzione; inoltre almeno alcune delle paratie antisommossa sarebbero già state chiuse e le piazzole intorno alla spirale dell’enorme parcheggio, che si arrampicava fin dentro il cuore dell’edificio centrale, avrebbero dovuto essere sorvegliate dalle squadre di sicurezza esterne. Era tutto troppo facile. Qualcosa doveva essere andato storto. Qualcosa che nemmeno quel giovane genio rosso di capelli aveva saputo prevedere.

Era come se qualcuno lo stesse aspettando. Aveva la sgradevole sensazione di essere a pochi metri da una trappola, senza riuscire a distinguerla.

Poi percepì le voci.

All’inizio era stato un sibilo, una vibrazione quasi. Una specie di feedback fisico che gli risuonava non all’orecchio, ma proprio nel centro della testa in corrispondenza dell’ipotalamo. La temperatura corporea era aumentata, costringendolo a slacciarsi il colletto della camicia. Il fruscio divenne sempre più chiaro, fino ad assumere il suono di una litania. Sentì allora una voce femminile che bisbigliava qualcosa. Erano poche parole, anzi frammenti di parole, che gli giungevano disturbate come le registrazioni delle antiche radiofonie che aveva imparato a riconoscere durante i corsi di addestramento, tanti anni prima. E forse questa vecchia abitudine lo aiutò. Pian piano, fermo al riparo di un pilastro di cemento accanto all’aviomobile, ricostruì con pazienza ed intuito quei frammenti sonori, finché divennero piccole frasi che si ripetevano, somiglianti al ticchettio ritmico di un antichissimo telegrafo e al segnale dell’eco di rilevamento di un vecchio sonar di sommergibile.

‘…no Emma Rae. Re…nald … fatto tu… … po…bile. …torno al DOS …tivo. ripeto ne…tivo … Passoscuro. Noham …rjuv sa …tto. … … teleca…re … …tterraneo. At…zione … …ginald … …ticato … … scrivania … … …no …è … … … fa …re … mano.

Fi… tra…ssione.’

Non era molto, ma era abbastanza per confermare i suoi sospetti. Dentro di sé si congratulò con la ragazza per le sue capacità telepatiche.

Non c’era tempo da perdere. Si concentrò sul resto del lavoro da compiere, tenendo a mente i punti salienti del messaggio. Non erano tutti chiari, ma il senso generale sí. I suoi sospetti venivano confermati. Che significava, però, il riferimento alla scrivania di Noham Nogarjuv? Figuriamoci se non l’avrebbe tenuta d’occhio!

Ma prima doveva arrivarvi davanti, incolume.

Istintivamente portò le mani sui nascondigli delle piccole armi micidiali che si era procurato con facilità qualche giorno prima, sfruttando i debiti di riconoscenza di un paio di trafficanti. Il trench ampio le nascondeva bene, ed erano tutte facilmente estraibili.

Diresse poi lo sguardo verso la parete che aveva di fronte. In basso a sinistra vide una lama di luce proveniente da una porta che si apriva su uno dei piccoli corridoi laterali. Nell’angolo buio, in alto a destra, scorse con non poca difficoltà l’occhio dissimulato di una piccola telecamera che lo seguiva, mentre aveva ricominciato ad avanzare.

Gli andò sotto, e alzò la testa con un sorriso. Poi tese il medio della mano destra dinanzi all’obiettivo e pronunciò due sole parole, il cui tono era quello di una implacabile volontà di vendetta.

“Fottuto bastardo!”

La faccia di Noham Nogarjuv si contrasse in una smorfia d’odio, alla vista di quel dito inanellato davanti al monitor.

Come avrebbe voluto staccare le palle a quel figlio di troia e costringerlo a ballarci sopra! Pigiò un bottone sull’interfono della scrivania e urlò:

“Dexter, Monty! Quello stronzo è stato messo sull’avviso da qualcuno! Non posso affrontarlo da solo, se sta già sul chi vive. Conosce bene la strada per venire qui. Andategli incontro e fatelo cacare sotto per l’ultima volta! Portate con voi Ivan e Puma, che vi daranno una mano. Non voglio errori, coglioni. Altrimenti ve la farò sputare dalla bocca, tutta quella merda; e la pagherete cara, prima di raccoglierla per riportarvela a casa, nel vostro cesso!”

Se quei finocchi mentecatti avessero fatto degli errori – pensò, mentre voci preoccupate rispondevano affannosamente di sí, – non avrebbe potuto far pagar caro niente a nessuno. Sarebbero stati estinti tutti i conti. Non ci sarebbero stati più né debitori né creditore. Tutto quel casino lo aveva portato all’ultima spiaggia. Doveva essere stato quel pisciasotto rottinculo di Jones a combinarlo. Chissà dove si trovava adesso? Cosa avrebbe dato per strappargli le budella e attorcigliargliele ai suoi amati computer! Dopo, ritornata la calma, come sempre l’Orchestra avrebbe eliminato tutti i suonatori stonati, compreso Monsieur Jean Michel Duvalier il Parigino detto Kodak–Di–Merda, e avrebbe ripreso in mano la direzione della sinfonia. Però non gli dava nessun cazzo di sollievo sapere che l’Organizzazione avrebbe comunque vinto. Che soddisfazione c’è nel vincere, quando tu sei mortodisperso? L’Orchestra avrebbe dovuto sostituire anche il direttore. Perché lui forse non ci sarebbe stato più. Forse.

Forse?

Forse, contro il Parigino?

A meno che…

E si ricordò della scrivania.

Limite di guardia

J.M. era giunto al capolinea. Al limite di guardia. Tutte le vie di fuga se le era chiuse alle spalle. Ormai poteva soltanto proseguire fino alla poltrona di Noham Nogarjuv, e scaricargli addosso il suo annichilatore. Questo pensiero gli dava fiducia e forza. Ma sapeva che era per l’ultima volta. Era come se le sue energie di un tempo, per una ragione misteriosa, si stessero convertendo in qualche cosa d’altro. E, contemporaneamente, vedeva la sua ombra farsi sempre più nitida, quasi tridimensionale. Gli ricordava i purosangue prima della corsa, insofferenti delle briglie in attesa del segnale di partenza.

Anche per questo si era chiuso ogni via d’uscita. Voleva che qualcosa accadesse per forza. Anche lui si sentiva in attesa d’un segnale. Ma non intravedeva ancora la fine della corsa, pure se sapeva di stare ormai in pista da quando era ritornato a Passoscuro.

Si era introdotto in uno dei corridoi laterali, invece di andare diritto verso l’ufficio di Nogarjuv, come sicuramente i suoi scagnozzi si aspettavano. Aveva scavalcato con facilità, nonostante la sua età non più verde, un alto parapetto che dava su una terrazza all’esterno. Da lì avrebbe osservato meglio il probabile disporsi delle guardie del corpo, e una sua azione d’attacco avrebbe potuto essere risolutiva, con un po’ di fortuna. Non si aspettavano certo un’incursione dall’esterno, proprio dove il suo bersaglio poteva essere inquadrato meglio e disperso dagli annichilatori di grosso calibro, installati sulle pareti del bunker centrale, presso cui era ormai arrivato. Ma, proprio per questo, lui aveva il vantaggio che aveva fatto vincere sempre tutte le battaglie: quello della sorpresa. Sapeva bene che non avrebbe mai vinto la guerra, ma assistere alla dispersione del lardo di Noham Nogarjuv era una soddisfazione troppo grande per meditare la ritirata. E poi una battaglia vinta è sempre una battaglia vinta, specie quando sei da solo contro tutti. E lui non aveva ancora sparato un colpo.

Ma quando sollevò per un attimo lo sguardo dal bastione antiraggi di titanio azzurrognolo, dietro il quale si era rifugiato, capì che il momento della sparatoria era arrivato. Però, se avesse agito con astuzia, i colpi sparati avrebbero potuto essere soltanto i suoi.

Alcuni metri più in là vedeva l’ombra lunga di una delle guardie del corpo, che imbracciava l’asta di un fulminatore d’assalto. Dietro ne veniva un’altra che stringeva nelle mani le catene di due cani mastini da guerra, dall’espressione ottusa e feroce: quei due li avevano addestrati senz’altro bene, a loro immagine e somiglianza. Lo capì anche dalle ombre nettissime che uomini e cani proiettavano sull’asfalto della terrazza.

J.M. individuò subito il punto debole dello schieramento avversario proprio nell’uomo con i cani al guinzaglio. In nessun caso avrebbe potuto reagire così rapidamente come la situazione avrebbe richiesto; l’inevitabile stupore gli avrebbe fatto trattenere quelle belve una frazione di secondo in più del dovuto.

Se avesse avuto una buona mira, la via per giungere davanti a Noham Nogarjuv era spianata.

Però doveva agire in fretta, finché si trovava ancora alle loro spalle; e prima che quelli, ancora indifesi all’aperto, voltassero l’angolo opposto dello spiazzo; altrimenti si sarebbe ritrovato sotto il tiro incrociato degli annichilatori, con le guardie che si mettevano definitivamente al riparo e intanto liberavano i cani.

Raccolse un frammento di calcestruzzo dal suolo e trattenne per un attimo il respiro. Poi balzò con un colpo di reni fuori dal riparo che lo proteggeva e scagliò il sasso davanti ai piedi dell’uomo coi cani. Quindi si buttò a terra e rotolò velocemente dall’altra parte della terrazza con l’annichilatore in pugno.

L’effetto di questa azione combinata fu devastante.

La prima guardia percepì lo schiocco secco del sasso dietro di sé ed istintivamente si voltò indietro col fulminatore puntato; ma dalla parte sbagliata, perché J.M. era già rotolato nella direzione opposta. Inoltre la figura del compagno gli ostacolava gran parte del campo visivo.

Costui, invece, continuò a guardare stolidamente davanti e a destra, mentre i cani che tratteneva cominciavano ad abbaiare e a tirare furiosamente.

Il Parigino sbucò all’improvviso da dietro a sinistra, con un annichilatore in ogni mano. Con uno fece subito fuoco, mirando alla faccia della guardia col fulminatore; poi sparò con l’altro alla gola dei mastini che il secondo scagnozzo aveva lasciato precipitosamente per estrarre la pistola annichilatrice dalla fondina. Non fece in tempo a tirarla fuori neanche per metà e a girarsi, che il suo cuore fu evaporato dal quarto e definitivo sparo di Duvalier.

Cessati i sibili dei colpi, fu nuovamente silenzio.

Da lontano, avrebbero potuto soltanto aver udito il breve latrato dei cani. Ma nient’altro.

A parte il lezzo della carne bruciata, per il resto del mondo era come se nulla fosse successo.

J.M. si mise a correre con tutte le forze prima che altri potessero individuarlo, e si infilò dentro al pianerottolo, precipitandosi con le armi in pugno per le scale che portavano direttamente nell’ufficio di Noham Nogarjuv. Mentre balzava sui gradini a due a due, l’unica cosa che gli venne in mente fu un pensiero ridicolo: perché le guardie indossavano ancora quei buffi elmetti ingombranti, completamente inutili visto il potere vulnerante delle armi in circolazione?

In tutto questo trambusto, Duvalier non si era accorto dei movimenti indipendenti che la sua ombra, prima, aveva fatto davanti al bastione antiraggi e, dopo, proprio nel bel mezzo della sparatoria.

“Come saresti contento se mi mettessi in ginocchio qui, ad implorarti! Eh, Kodak? – Le parole di Nogarjuv stavano scaturendo dalla sua bocca come la lava di un’eruzione, covata a lungo nelle viscere di un vulcano ed esplosa improvvisamente dall’orifizio principale. – Ma non ho paura di te, brutto pezzo di merda. Anzi, ho goduto quando nell’Orchestra si è diffusa la notizia che proprio il migliore si era ammalato, e cominciava a vedere le ombre! L’opportunità di potermi legalmente sbarazzare di te mi faceva venire più di una puttana negra. Non vedevo l’ora di riaverti qui davanti, da quando il tuo solito buco di culo e l’imbroglio di quello strusciaminchie di Jones ti ha fatto sfuggire ad uno come Stavros Mikojan. E poi, non c’è da chiudere qualche conto rimasto in sospeso fra noi, in tutti questi anni? Dammi solo la possibilità di difendermi ad armi pari. Levati dal dito quell’anello magnetico del cazzo che finora ti ha permesso di impugnare sempre un attimo prima degli altri l’annichilatore che ti porti nascosto nella giacca, ed estrai lealmente! È con quella specie di protesi, che hai sempre disperso i tuoi obiettivi. Non si è mai trattato di abilità, ma di paura. Paura di non farcela, coglione! E poi, non sei curioso di sapere che fine ha fatto il tuo caro fratellino? Come sarei felice di ragguagliarti, in merito!”

La faccia di Noham Nogarjuv era lucida e rossa di rabbia e di tensione. Grosse gocce gli imperlavano la fronte e Duvalier ne intravedeva i riflessi, alla poca luce che trapelava dalla stanza accanto, attraverso il vetro divisorio, mentre la lampada centrale dell’ufficio del coordinatore delle selezioni era spenta e la mole del corpaccio di costui spiccava per la sua camicia bianca segnata dalle bretelle rosse e da larghe chiazze di sudore.

Immerso in quella nebbia azzurrognola di semioscurità, J.M. osservava attentamente ogni cosa. Arrivato lì dentro aveva perso di vista la sua ombra, proprio ora che da un po’ di tempo aveva cominciato a farci caso. Sulla parete alla sua destra scorgeva solamente il profilo del ventre di Noham che sussultava e quello delle sue mani che si agitavano come ombre cinesi impazzite sul muro. Tutto il resto dell’ufficio era deserto. Nell’edificio non c’era probabilmente più nessuno. Il panico si era diffuso in fretta, come in fretta si sarebbe dissolto.

Quindi lui doveva fare molto più in fretta.

Non raccolse le provocazioni di Noham Nogarjuv, ma restò pietrificato nell’ascoltare l’inaspettata allusione fatta a proposito di suo fratello.

“Perché? Cosa hai fatto ancora ad Alain?” chiese J.M., lasciando trapelare un sincero sgomento nel tono della voce. Per la prima volta, dopo tanto tempo.

Molti anni prima l’avevano costretto a passare nella clandestinità omicida della Dispersione di Terra, ricattandolo con la minaccia dell’eliminazione sommaria di suo fratello Alain, rimasto invischiato in una storia pericolosa che lo aveva portato fuori dal Mondo Occidentale, in Oriente, sulle tracce di un gigantesco complotto ordito dall’Organizzazione; questo almeno gli aveva confidato l’ultima volta che si erano potuti incontrare.

Proprio Noham Nogarjuv, a quell’epoca giovane e magro agente senza scrupoli in ascesa nei ranghi dell’Orchestra, gli aveva permesso di rivedere il fratello dopo la cattura; poi l’aveva subito fatto sparire, garantendogliene la salvezza, se avesse accettato la proposta, prima sempre rifiutata, di entrare nel corpo speciale dei Dispersori Esterni; quelli ai quali, per la loro inesorabile abilità, venivano affidate le operazioni più sporche e pericolose. Lui aveva dovuto acconsentire.

E la scrittura di un artista efficiente come il Parigino nei ruoli dell’Orchestra, era stata un’ottima pedana di lancio per la carriera di Noham Nogarjuv.

Duvalier ebbe il tempo sufficiente per ricordare l’intera sua vicenda rivivendone, nella successione di pochi attimi, gli aspetti più atroci: l’espressione sadica dei carnefici, lo sguardo sfuggente dei vili corrotti, le mute preghiere delle vittime innocenti, il suo disperato senso d’impotenza di fronte all’ineluttabilità della violenza. E, sempre, la perversione insita nell’esercizio del potere; il caso benigno, a volte, anche con chi non lo avrebbe mai meritato. Anche lui stesso.

Poi la voce irosa del personaggio peggiore del dramma lo scosse dal suo incubo.

“Metti quell’anello del cazzo sulla scrivania e ti dirò tutto, Kodak! Prima di estrarre l’annichilatore. Poi chi vivrà, vedrà.”

L’ultima frase di Noham Nogarjuv suonò insospettabilmente convincente e, a suo modo, risolutiva.

J.M. diede un’occhiata alla scrivania. Pareva tutto normale. Era ingombra di innocue carte e solo il monitor, ormai inutilizzabile, faceva bella mostra di sé.

“Era proprio quello che volevo fare. Dopo, preparati a friggere, carogna” disse senza alcuna enfasi Duvalier.

Noham Nogarjuv fece uno strano sorriso, si distese sullo schienale della poltrona, portò entrambe le mani sul bordo della scrivania ed aspettò.

J.M. avanzò di alcuni passi e cominciò a far scivolare l’anello dal medio della mano destra, con un gesto lento, quasi solenne. Mentre lo faceva, non spostava gli occhi da quelli del coordinatore. Quando lo ebbe sfilato completamente, prese l’anello tra il pollice e l’indice della mano sinistra sollevandolo un poco per farlo vedere a Nogarjuv, che fece un cenno con il testone riccioluto.

Il Parigino passò piano l’anello nel palmo della mano destra, abbassandola ostentatamente verso il piano della scrivania, mentre portava la sinistra vicino alla falda dell’impermeabile, per scostarla il più rapidamente possibile allorché avesse percepito il minimo movimento nello sguardo dell’altro.

Forse fu per questa sua attenzione agli occhi dell’avversario, che Duvalier non si rese subito conto della mossa impercettibile del pollice sinistro di Noham Nogarjuv che spingeva un invisibile pulsante sul bordo interno della scrivania, mentre la sua mano destra si appoggiava sul ripiano.

Ci fu il rumore secco di uno scatto metallico. Apparve uno sportellino che si aprì come un’orrenda, minuscola bocca dalla quale fuoriuscì una chiostra di denti metallici che si serrò inesorabilmente intorno al polso di J.M., dilaniandolo. Il dolore che provò fu tremendo, ma non emise un gemito; tuttavia non riuscì ad impedire un riflesso istintivo del palmo della mano che si aprì alla morsa della tagliola e fece scivolare accanto l’anello magnetico.

Duvalier si trovò sbilanciato e scivolò, con il braccio destro bloccato sulla superficie della scrivania dalla presa del temibile bracciale.

Nell’attimo disperato in cui gli tornavano alla mente gli inutili avvertimenti telepatici dei suoi amici, si accorse che il ciccione con imprevedibile agilità si era alzato dalla poltrona, scagliando lontano l’anello e slanciandosi verso le sue spalle. Da dietro gli arrivò un terribile calcio alle ginocchia che lo fece afflosciare su se stesso repentinamente, mentre udiva un agghiacciante scrocchio sprigionarsi dal braccio e dalla giuntura del gomito, e sperimentava un altro insopportabile dolore. Adesso era inerme ed alla completa mercé dell’avversario. Fitte lancinanti si diffondevano dalla spalla fino alla punta dei piedi. Con tutto ciò, la sua mano sinistra si muoveva a tentoni per cercare di estrarre l’annichilatore che portava sul fianco sinistro, sotto al trench. Ma Nogarjuv intuì le sue intenzioni e arrivò per primo: uno spaventoso pugno alle costole lo lasciò senza respiro, penzolante dalla scrivania, attaccato per il braccio destro fratturato. Noham lo circondò con le braccia e gli sottrasse, oltre all’annichilatore, tutte le armi che aveva addosso, compreso il minuscolo elettropugnale che portava nascosto dietro il colletto della camicia.

“Vedi che conosco bene le tue piccole abitudini, sacco di merda!” gli alitò puzzolente in faccia Noham Nogarjuv, mentre completava puntigliosamente la perquisizione.

“Tu sei bravo – continuò il coordinatore delle selezioni, – ma anch’io me la cavo. Anzi, mi sa che stavolta il solo a cavarsela sarò proprio io, eh? Che ne dici, testa di cazzo? Aspetta che vado ad accendere la luce. Mi piace vederti così ben sistemato. Te l’eri dimenticata la trappoletta, eh? O stavi già all’estero quando quel leccamoccio di mister Reginald Jones ha fatto quella modifica invisibile sul ripiano della mia scrivania, specie a luce spenta? Ha inserito un antiquato ma sensibilissimo relè a variazione di campo magnetico individuale, collegato con i file di riconoscimento dei dati fisiologici dei miei nemici più stretti. Io, mentre ti aspettavo, ci ho aggiunto il tuo. È stato un giochetto, anche per uno negato come me. Non è una splendida trovata? Basta che un nemico vecchio o nuovo posi la mano sulla mia scrivania e, zacchete!, si ritrova inchiodato come uno stoccafisso. Lo sai come è fatto quel frocio minchione, no? È un eccentrico: gli piacciono le bizzarrie, le anticaglie. Che, però, – eh, hai visto? – qualche volta funzionano proprio al momento giusto!” Il tono del ciccione si era fatto via via sempre più concitato.

Nogarjuv si allontanò per andare verso la parete, dove oltre al variatore automatico della luce, attivato subito con un gesto della mano, c’era anche la teca dell’ascia di sicurezza antincendio. La sfondò con un colpo della sedia metallica accanto e si impossessò dell’attrezzo, ridendo forsennatamente. Poi si rivolse di nuovo al Parigino, che ansimava esausto vincolato al ripiano: ora l’ufficio era totalmente illuminato.

“Voglio mantenere la parola data: ti parlerò di tuo fratello, visto che volevi sapere che cosa gli ho fatto.” La voce di Noham Nogarjuv era quasi stridula.

“Stai tranquillo è vivo, ma non so se la sua può definirsi vita. È un bel po’ che si trova in un ottimo Obliteratorio Zonale, dove sta passando i più begli anni della sua esistenza, domandandosi chi sia e a che cosa gli serva tutto quel sacco di merda moscia che gli è rimasto attaccato sotto la testa. Però ha una notevole resistenza, lo sai? Non è come quella ciucciacazzi di tua madre che, quando le mettemmo le mani addosso nella cripto sala degli interrogatori coatti, ci schiattò davanti prima che la potessimo magnetizzare tutta. Uh, ma che fai? Piangi, povero stronzo? Questo non te l’avevo detto? Non te l’avevo detto che mi ci sono trovato anch’io in mezzo alle sottane strappate di tua madre? Ma come? Ero proprio io che conducevo gli interrogatori più interessanti! Dicevo: ‘Mettetele un piede qua… Una coscia là… Una mano su… Apritele la bocca…’; e lei zitta, poverina! Non diceva più niente. Cooome mi dispiace! Ma se te l’avessi detto, chissà se avresti accettato di suonare con l’Orchestra, per tutti questi anni? Mi sa proprio di no.”

Il tormento e la rabbia di Duvalier si fecero insostenibili. E non riuscì a capire a che tipo di dolore fossero dovute le lacrime che avevano riempito i suoi occhi.

“Mi sa che non ti ammazzo nemmeno – riprese a dire Nogarjuv. – La merda, quando è secca, non dà più nessun fastidio e la puoi pulire meglio, dopo. Mi limiterò a farti qualche modifica: prima alle mani…”

Nel dire questo Noham Nogarjuv tirò a sé il medio ormai livido della mano di Duvalier, bloccata sulla scrivania; e con un colpo improvviso della scure glielo troncò. Il Parigino non riuscì a trattenere un urlo lacerante.

“E poi – continuò l’altro, mentre J.M. rantolava e sussultava, – siccome un dispersore, per cacciare la preda ha bisogno delle gambe e soprattutto degli occhi, te li modificherò per renderli più efficaci, cominciando proprio da questi, che ultimamente hanno avuto qualche problemino nel vedere un po’ troppe ombre…”

Nogarjuv posò l’ascia sulla scrivania e raccattò l’elettropugnale del Parigino, accostandoglielo sempre più minacciosamente al volto.

La luce si era fatta abbagliante. Le ombre che vedeva vorticare intorno a sé, spingevano Duvalier a guardare in tutte le direzioni, nella speranza irrazionale di evitare fino all’ultimo la tremenda ustione dell’elettropugnale.

Ma ce n’era una che non stava esattamente nella posizione in cui avrebbe dovuto trovarsi. Quella del ciccione seguiva fedele le mosse del suo sciagurato padrone, ma la sua, che era improvvisamente riapparsa nettissima, come una statua michelangiolesca sembrava volersi scrollare di dosso un’invisibile corazza, agitandosi tutta finché se ne liberò. Con un balzo lo abbandonò, distaccandosi dalla parete e dal pavimento su cui si proiettava, e si piegò sulla scrivania, verso la scure abbandonata da Nogarjuv.

Nell’attimo in cui la punta dell’elettropugnale stava per toccare le palpebre di Duvalier, l’ascia si sollevò alta nell’aria e calò giù con violenza, conficcandosi con un rumore orribile nel mezzo del cranio di Noham Nogarjuv che strabuzzò gli occhi e si portò le mani sulla faccia, lasciando cadere il pugnale.

Tra le dita e i capelli di Nogarjuv, J.M. vide colare sangue e materia grigia. Poi sentì il tonfo dell’enorme massa lardosa schiantarsi al suolo.

Mi piacciono quelli grossi come te, perché quando cadono fanno tanto rumore’, queste parole gli riecheggiarono nella mente, ma non riuscì a ricordare dove e quando le avesse sentite.

La vista gli si stava offuscando ma, prima di perdere del tutto i sensi, fece in tempo a scorgere la sua ombra andare dietro la scrivania e chinarsi a cercare qualcosa sul pavimento.

Poi non vide e non sentì più nulla.

Enzo Lisi “Limite di guardia” olio su tela cm 150 x 360 anno 1998

Ritorno da Flatlandia

“È stata Emma Rae Niehaus che l’ha salvata davvero, J.M. – disse Reginald, posando una mano sulla spalla di Duvalier, – non deve ringraziare noi. Noi siamo soltanto venuti a prelevarla. Emma si è mantenuta in costante contatto telepatico con Passoscuro e quando lei le ha trasmesso l’immagine della sua mano che stava per poggiare l’anello sulla scrivania, ha capito che non sarebbe riuscito ad evitare la trappola. Così ci siamo subito messi in viaggio per tentare di recuperarla in tempo. Emma Rae e Julius hanno costituito un intenso campo di forza telepatico, che ha reso per qualche giorno inoffensivi tutti i sorveglianti di Passoscuro. Mentre Julie Nativité ed io siamo andati ad Albuquerque con la macchina e da lì, con l’aviomobile di un amico dei Vedenti di quella città, l’abbiamo raggiunta il più velocemente possibile. Il percorso nei corridoi in mezzo alle mura di Passoscuro è stato abbastanza tranquillo, anche perché lì tutti sembravano diventati degli insensibili zombie e non ci filavano per nulla, grazie all’aiuto da lontano dei due ragazzi. L’abbiamo trovata nel bunker. Stava steso per terra malconcio, ma vivo e libero. Qualcuno, o qualcosa, l’aveva sciolta da quel dannato marchingegno. E le aveva poggiato un sacchettino sulla pancia. Abbiamo preso lei e il sacchetto in fretta e furia; e siamo ritornati qui di corsa, prima che tutti quegli zombie si risvegliassero dalla trance telepatica. Adesso ha la mano come nuova, grazie alle tecniche chirurgiche strane, ma anche un po’ magiche, di Washokadunish. Forse non lo muoverà più tanto bene, ma quel dito è tornato al suo posto. E anche l’anello.”

Stavano seduti tutti intorno al tavolo nel soggiorno della casa di Julie Nativité, che lo guardava commossa. Festeggiavano la sua guarigione, dopo una lunga convalescenza. Duvalier ricambiò lo sguardo e fece un sorriso. Poi diede un’occhiata alla mano fasciata e al braccio che portava ancora legato al collo, e disse:

“Grazie a tutti voi, comunque. Va bene così. Il dito non dovrà più fare quello che faceva prima. L’anello, più che un’arma, era una specie di talismano portafortuna ed ora diventerà anche un ricordo vostro e di questa comunità. Mi ricorderà più quello che ho trovato che quello che ho lasciato.”

“Sei proprio deciso ad andartene, monsieur Duvalier? Ogni volta che sono stata in contatto con te, ho percepito sempre tanta sofferenza. Ma non sono riuscita a capire a che cosa, o a chi, fosse dovuta.” Colei che aveva parlato era Emma Rae Niehaus, la dolce bionda ragazza dagli occhi azzurri, la cui voce melodiosa era sinceramente addolorata.

J.M. fissò a lungo tutti i suoi amici intorno al tavolo. Sorseggiò un po’ della sua bevanda, mentre gli altri lo stavano a osservare interrogativamente. Si schiarì la voce e disse con tono rispettoso, ma fermo:

“No. Non è che me ne vada. Non me ne andrò mai da Flatlandia – e sottolineò queste parole con uno sguardo eloquente alla volta di Julie e di Emma Rae. – Mettiamola così: la mia partenza sarà un ritorno da Flatlandia. Se quella carneficina ha avuto un senso, esso è stato di farmi riavvicinare non solo alla mia ombra, ma anche a quelle di mia madre e di mio fratello. Devo andare a cercarle, quelle ombre. Forse lui è ancora vivo; e la tomba di mia madre sarà da qualche parte. Lei, Reginald, poco più di un mese fa, ma sembra un secolo, ha alluso a certi miei precedenti che non conosceva affatto, o che altri le avevano fatto sapere in modo molto distorto, giusto? Su mio fratello non le dissi tutta la verità, e non le ho mai raccontato nulla di quei trascorsi. Stavano ancora tutti dietro e dentro di me. Erano il mio bivio da ritrovare, le dissi. Nemmeno io li conoscevo così a fondo, perché i precedenti di ciascuno di noi non sono tali del tutto, finché non si intrecciano con quelli di coloro che ci sono vicini, e non scopriamo che si assomigliano. Per qualsiasi motivo, anche solo perché abbiamo la loro stessa malattia.”

J.M. s’interruppe passandosi una mano sugli occhi e tirando fuori dal pacchetto che Reginald gli porgeva una sigaretta. L’accese piano con la mano sinistra che tremava leggermente e osservò Emma Rae che lo guardava con gli occhi lucidi, la testa appoggiata sulle braccia conserte sul tavolo. Julie Nativité tratteneva il respiro per non disturbare quell’attimo di affettuoso silenzio.

“Quanto a te, Emma Rae – riprese Duvalier, – tu per me sarai sempre la voce o la presenza dietro le quinte, come lo sei stata a Passoscuro. E sarai pure quella figlia che non ho avuto mai il coraggio di mettere al mondo. La famiglia che mi è toccata in sorte, ha avuto un altro destino. Non adoperare mai le tue capacità per spiegare la sofferenza di certi ricordi, miei o di altri. Lasciali sepolti, lì dove sono. Allevia soltanto la sofferenza di chiunque, senza chiedertene il motivo. Se ti capiterà di interpretare troppo bene qualcuno di quei ricordi, non dirlo a nessuno. Serba tutto per te.

“Forse adesso è giunto il momento di mettermi alla ricerca della mia ombra. È un po’ che non la vedo. E la devo ringraziare del dito e dell’anello! – continuò con un filo di ironia Duvalier, dopo aver stretto a lungo la mano di Emma Rae. – Voi tutti, qui, le vostre ombre non le avete mai perse. Anzi, avete imparato a vedere anche quelle degli altri. Io ho imparato che il più grande dispersore di Terra di tutti i tempi si è salvato, nel momento decisivo, grazie all’ombra che lui aveva sempre considerato meno che niente. A parte la malattia degli ultimi tempi. E quindi, anche se non posso occuparmi delle ombre di tutti coloro che ancora non vedono, devo preoccuparmi almeno di quelle di chi mi è stato più vicino, finora. Il mio ritorno da Flatlandia mi riporterà alla luce, dopo un lungo viaggio nel regno delle Ombre; come gli antichi eroi.”

Reginald sorrise e disse:

“Vede, caro monsieur Duvalier, avevo ragione nel considerarla un colto e raffinato antiquario oltre che, a suo modo, un eroe!”

“Sí, quasi. La differenza è che, dove ritorno io, coloro che si stanno ribellando non sono gli uomini, ma soltanto le loro ombre. Vedrò di svegliarli un po’, dopo aver portato almeno fiori sulla tomba di mia madre.”

“Vi voleva bene, vero Jean Michel?” si intromise Julie Nativité.

“Sí. Ma non solo a me e ad Alain. Mia madre voleva bene a tutti. Per questo l’hanno ammazzata” rispose Duvalier e la sua espressione si era fatta, per la prima volta da quando Julie l’aveva conosciuto, dura e crudele. Poi si calmò e si rivolse a Reginald e a Julius, dicendo in modo canzonatorio:

“Voi due, proteggete bene questa comunità a tutti i costi! Fatela sopravvivere almeno per un paio d’anni. Può darsi che un giorno ci ritorni. Mi piacerebbe cavalcare il serpente con Washokadunish. E se avrete costruito abbastanza biciclette, smetterò di salire sulle aviomobili e mi metterò a pedalare!”

“Sarà un piacere accompagnarla, monsieur Duvalier” disse Julius.

“E alla sua età, sarà tutta salute!” sfotté Reginald, mentre scansava il tovagliolo che Julie gli aveva gettato sulla bocca.

Si misero tutti a ridere, poi Duvalier si alzò e uscì sul patio che dava sulla parte posteriore. Nessuno di loro lo seguì, se non con lo sguardo.

Stette lì fuori, da solo, in attesa della sera. Sapeva di dover aspettare.

Infatti di lì a poco, alla luce dorata del tramonto, accanto ad uno dei pilastri del porticato sotto al quale era rimasto in piedi, a fianco del muretto che costeggiava il sentiero di terra battuta che conduceva oltre il recinto, vide la sua ombra stagliarsi netta sul muro di fronte.

Era ben attaccata ai suoi piedi, ma non avrebbe dovuto trovarsi .

Il sole stava tramontando dall’altra parte della casa.

Enzo Lisi “Ritorno da Flatlandia” grafite su carta intelata cm 60 x 113 anno 1998

Fine stagione

Non ci si poteva appropriare dell’identità di Dio e approfittarsene così impunemente. E neanche di quella degli uomini.

Reginald lo aveva pensato un paio d’anni prima e lo pensava tuttora, in una situazione analoga e sulla stessa strada.

Monsieur Jean Michel Duvalier se n’era andato e non si era fatto più vedere. Anzi, precisamente: nessuno l’aveva più visto. E questo, nel caso di un dispersore abile come il Parigino, non era un brutto segno. Tutt’altro.

L’inverno era trascorso due volte, e due volte era tornata l’estate. E poi l’autunno. L’aria si era fatta di nuovo pungente e la neve era apparsa sulle cime più alte.

Fine stagione: il terzo inverno stava per arrivare.

E da più di tre giorni si era inoltrato sull’Interstatale Secondaria, come molto tempo prima.

Ritorneranno a cercarci, non si faccia illusioni. Tutti.

Ricordava le parole di J.M., quando lo aveva stretto forte a sé per salutarlo.

Inciampò sbadatamente su un sasso; credette proprio di non farcela più e di cadere, ma il peso dello zaino lo aiutò a controbilanciare la spinta in avanti e si rimise in equilibrio. Forse era venuto il momento di sedersi e fermarsi un po’. La sera non era del tutto calata, ma stavolta il desiderio di riflettere e di riposare non fu più forte della voglia di avvicinarsi in incognito il più possibile alla città. E poi sarebbe sicuramente passato un po’ di tempo, prima che gli Orchestratori si potessero accorgere che c’era stato qualche sopravvissuto alle ultime sanguinose incursioni; tra gli esseri umani e, soprattutto, tra le ombre che loro non avevano trovato il modo di disperdere. Almeno fino adesso. Ancora una volta, aveva cercato di fare le cose per bene, proprio allo scopo di poter ritornare senza affanno e, sfruttando come un tempo le sue conoscenze di paleoinformatica e sistemi operativi arcaici, riorganizzare una sorta di resistenza. Nuova identità e nuovo passato, almeno per quello che era stato possibile inventarsi con le macchine e le reti superstiti della comunità. Si accese una sigaretta e guardò all’orizzonte, voltandosi indietro verso il sole che stava per tramontare. La temperatura non era certo mite, a fine stagione. Stavolta non sarebbe stato sufficiente infilarsi nel sacco a pelo e addormentarsi. Per ripararsi dal freddo doveva trovare un tetto. Le braccia e le gambe gli dolevano, ma purtroppo non era ancora giunto il momento di risparmiarsi ulteriori fatiche. Così si diresse di buona lena verso un antico motel abbandonato che si affacciava sull’interstatale, tra Santa Rosa e Tucumcari. Distava poche miglia, e in bicicletta ci sarebbe arrivato prima di notte. Così, almeno per quella notte…

Quando giunse davanti al motel, che qualche volta era rifugio di vagabondi, non c’era nessuno fuori. La serata era molto luminosa: insolitamente, per quell’ora e per la fine della stagione. Inoltre la costruzione, pure se deserta, dava l’impressione di essere di nuovo abitata. Viva.

Ma Reginald non avrebbe saputo dire perché. Forse arrivando aveva notato qualche particolare inconsueto per una dimora disabitata, che adesso gli sfuggiva.

Appoggiò la bicicletta sotto la tettoia a lato dell’edificio e si diresse all’ingresso della locanda. Sospinse un’antiquata porta di legno e vide la sua ombra proiettarsi sul pavimento del corridoio verso l’interno, accanto ad una vetrina tutta impolverata, come se fosse stato ancora giorno. Ma, cosa ancora più inquietante, di fianco a sé ne vide un’altra che sembrava volesse accompagnarlo dentro. Tutto il resto del locale, invece, era immerso nel buio.

“Mister Reg Dwight Jones, lei è il benvenuto. E, mi creda, non c’è niente di inquietante in un antico motel abbandonato, senza automobili e soprattutto senza clienti. A parte lei, adesso.”

Nel sentire quella voce improvvisa aveva avuto un sussulto, ma si era subito ripreso mettendosi a scrutare nell’oscurità. Non riusciva a distinguere la figura del tizio che gli aveva parlato leggendogli nel pensiero, e la cui voce giungeva da dietro il banco della malandata reception, avvolta dalla semioscurità.

La voce continuò:

“Anch’io ho conosciuto Washokadunish. Ho cavalcato il serpente insieme a lui. Ho imparato in questo modo a leggere nel pensiero, a rendere autonoma e felice la mia ombra e quella degli altri. Ritornai da queste parti qualche tempo fa. Nessuno se ne accorse. Cercavano tutti troppo lontano. Non così la mia ombra, però, che era rimasta qui e voleva ricongiungersi con me. Sapeva che stavo cambiando: non mi avrebbe salvato la vita, annientando quella di un altro, se non avesse compreso che cominciava a valerne la pena. Ha capito che, per cambiare del tutto, io dovevo ripercorrere controsenso la mia esistenza; non verso Passoscuro, ma verso Flatlandia. E mi ci ha riportato, aspettandomi proprio qui.”

Al di là della vetrata oltre il bancone, si sentì abbaiare da fuori; e la voce, sempre nell’oscurità, intimò:

“Zitta, Yaska! È tornato un vecchio amico.”

Reg mise a fuoco in quell’istante il particolare che gli era sfuggito arrivando al motel. Una cuccia. Nessuna dimora abbandonata possiede all’esterno una cuccia per cani, con qualche panno ancora dentro!

“Ma è… Lei è… Yaska era sparita da… da quando lei se ne andò… Ma lei dov’era? Lo sa che cosa è successo poi a Flatlandia?” Reginald, preso dall’eccitazione, nel pronunciare queste frasi monche ed insperate, aveva assunto un tono quasi incredulo.

“Sí, che lo so. Non vi ho mai dimenticato – fu la risposta; – e a volte mi mettevo in vostro ascolto. Washokadunish mi ha anche insegnato a rimanere in collegamento con gli altri, attraverso le ombre. In questo modo ho potuto praticamente restare in mezzo a voi. Ed inoltre ritrovare quelli che non vedevo più da troppi anni.

“Il mio ritorno da Flatlandia, come le dissi quando ci lasciammo, mi ha riportato alla luce. Ma per rivedere completamente la luce, ho dovuto attraversare l’intero territorio delle Ombre.

“So bene che ci sono stati attacchi delle milizie dell’Organizzazione contro le comunità dei Vedenti, dovunque. È segno che ormai incutete paura, se fanno scorrere il sangue su larga scala. Non più soltanto con l’intervento limitato di vecchi specialisti. Come me, un tempo.

“Ma ci sono stati anche molti sopravvissuti, oltre a lei e fuori da Flatlandia. Li ritroverete. Li ritroveremo tutti, perché non tutti sono morti!” disse fiduciosa la voce dietro il banco. Tacque per alcuni secondi, e poi riprese con tono pacato e sicuro:

“Non riescono più ad essere invincibili, Dwight. Dovunque tentino di colpire, c’è un’ombra che li abbandona e si schiera dalla nostra parte. Anche senza violenza da parte nostra, tra non molto tempo saranno loro gli ammalati!

“In certi casi bisogna scomparire e tenersi lontani, per avvicinarsi di più. E riapparire solo al momento giusto; come ha fatto la mia ombra con me. E con lei, proprio quando poco fa ha aperto quella vecchia porta, e ha avuto il coraggio di entrare qui dentro!”

Yaska riprese ad abbaiare. Ci fu lo spalancarsi di una porta e si avvertì l’inconfondibile rumore di uno scodinzolare festoso e un tramestio di zampe che irrompevano dietro al bancone.

Finalmente Reginald Dwight Jones riuscì a scorgere qualcosa, nell’oscurità che andava attenuandosi.

Dalla penombra vide provenire il riflesso scintillante di un anello nero, intorno al dito medio di una mano che si muoveva, accarezzando un muso adorante, completamente ristabilita.



Ringraziamenti

Sono molto riconoscente a tutti quegli artisti che, con le loro opere esposte in mostra, hanno in parte ispirato l’invenzione e la stesura di questi racconti.

Li ringrazio tutti, in rigoroso ordine alfabetico:

Emilio Cafiero

Enzo Lisi

Claudio Spoletini

Enrico Smith

* Androide robot maggiordomo, in uso dalla fine del ventunesimo secolo.

i M. Heidegger, Lettera sull’«Umanismo», a cura di Franco Volpi, Milano, Adelphi Edizioni, 1995, p. 47.

ii F. Weismann, Wittgenstein e il circolo di Vienna, Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. 55; citato in: Umberto Galimberti, Invito al pensiero di Heidegger, Milano, Mursia, 1992, p. 21.

iii Da un’intervista raccolta da Francesco Erbani e pubblicata sul quotidiano La Repubblica del 13 ottobre 1995.

iv Dall’Enciclopedia Universale Rizzoli Larousse, Milano, Rizzoli Editore, 1968, vol. VII, p. 269.

v Amleto, II, 2; trad. Eugenio Montale; in: Aforismi sul gran teatro del mondo, a cura di Anna Luisa Zazo; Oscar Mondadori 1992; p. 159.

vi H. Marcuse, L’uomo a una dimensione; Nuovo Politecnico Einaudi, 1967; trad. Luciano Gallino e Tilde Giani Gallino; p. 158.

vii Ibidem; p. 30.

viii Ibidem; p. 31.

ix Ibidem; p. 75.

x Ibidem; p. 161.

xi M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo; Einaudi Paperbacks, 1982; trad. Renato Solmi; p. 165.

xii M. Heidegger, Lettera sull’«Umanismo»; Adelphi Edizioni Milano 1995; a cura di Franco Volpi; p. 76.

xiii Quanto precede trae in parte spunto dal racconto “Presagi, Paesi e Paesaggi” ispirato alla mostra omonima; Romberg Edizioni 1995.

xiv Faccina o emoticon che nella comunicazione scritta attuale di Internet significa ironia.

xv Faccina o emoticon che nella comunicazione scritta attuale di Internet significa strizzatina d’occhio.

xvi M. Foucault, Le parole e le cose; trad. Emilio Panaitescu, BUR 1985; p. 351.

xvii C. Castaneda, da un’intervista di Mausi Böhm riportata su “la Repubblica” del 17 maggio 1998.

xviii Dal film “Per un pugno di dollari”; frase riportata in Levati la pistola e mettiti le mutande – Tutto il western in un pugno di parole, a cura di Sabrina Manfroi; ed. Edimar, Milano 1997; p. 67.