Racconti fantastici

Il racconto della nassa

(Giannino)

Dove si proietta una parte autonoma dell’anima, nasce una persona invisibile. i

Carl Gustav Jung

Giannino sul greto

Giannino osservava le spire dell’acqua che mulinando si allontanavano da lui e dalla riva, e piano piano svanivano. Si sollevò rassegnato sulle ginocchia e strillò spazientito: “Vengo subito, mamma!” pulendosi i pantaloncini e sbuffando.

La mamma lo chiamava da un bel po’, per farlo tornare alla tavola che lei e la zia avevano apparecchiato vicino al fiume; in quella spianata situata proprio là dove l’ansa più stretta rallentava la corrente e, dalla sommità del vecchio ponte poco distante, si vedeva il panorama più bello. Il padre stava un po’ più lontano, con lo zio e il cuginetto maggiore, nel punto in cui l’acqua era più profonda e la pesca abbondante.

“Antonio! Carlo! Igino! Venite anche voi!”

Stavolta la voce della mamma era stata più forte ma assai meno perentoria, e questo a Giannino non andò giù. Perché le mamme, con tutti quelli che portavano i calzoni lunghi, erano più rispettose?

Si incamminò per il sentiero di ritorno, fischiettando e tirando calci ai sassi che incontrava… E poi, perché il babbo e lo zio Carlo avevano portato con loro a pesca Igino, proprio quando dovevano inaugurare quella specie di cesta di paglia che chiamavano, con un nome buffo, «nassa»? Quando il babbo gliel’aveva fatta vedere tre giorni prima, era rimasto incantato dal rumore che faceva e dall’odore che mandava; pur se gli era piaciuto di meno lo scopo per cui era stata costruita, immaginando il terrore che dovevano provare i pesci quando, penetrativi dentro attirati dalla curiosità, scoprivano troppo tardi di essere caduti in una orrenda trappola dove, respinti dai ritrosi, si ammucchiavano sempre più numerosi e impauriti.

Comunque, anche a lui sarebbe piaciuto tanto accompagnarli sul greto scivoloso del fiume, per vedere i cerchi e le bollicine dell’acqua nel momento in cui immergevano la nassa e come diventavano i pesci morti quando l’avrebbero ritirata su. Gli dispiaceva per i pesci, ma non sapeva resistere all’idea di vedere come era fatto qualcosa di morto.

“No. È meglio di no!” aveva esclamato la mamma quando lui, prima della partenza per la gita, le aveva chiesto se poteva andare sul greto con loro a pescare, mentre il papà lo aveva guardato con due occhi che sembravano diventati improvvisamente di ferro.

Giannino nella radura lucente fra albori e bagliori

Proprio mentre stava rimuginando tutto ciò, mise un piede in fallo sul ciglio fangoso e sdrucciolevole. Perse l’equilibrio e si ritrovò immerso nel fiume fino alle ginocchia. Per fortuna lì l’acqua era calma; si tenne alle felci che crescevano numerose sull’argine ed evitò di precipitare del tutto nella corrente. Poi, con un notevole sforzo per un bambino della sua età, fece un lesto balzo e risalì sul sentiero sassoso.

Ebbe la strana sensazione che la luce all’intorno fosse diventata molto più intensa, ma forse era l’effetto del contrasto con l’oscurità del luogo in cui poco prima era scivolato.

Si era appena rimesso in cammino quando, da dietro un cespuglio, sentì provenire una melodia dolcissima, accompagnata da un cicaleccio allegro. Scostò alcuni alti rovi, pungendosi e graffiandosi infilandocisi dentro, ma non vi fece caso. E guardò al di là.

Nei pressi di uno dei tanti rivoli che il fiume, ritirandosi all’approssimarsi della primavera, lasciava a intridere, come piccoli stagni, le minuscole radure dove i gitanti si radunavano nelle domeniche di maggio, Giannino vide, rizzata su un trespolo di giunchi al centro dello spiazzo, proprio quella che gli pareva una nassa. Attorno svolazzavano centinaia di passeri, mentre un crocchio di ragazzini si rincorreva e ballava alla musica di un flauto nelle mani di un vecchietto, con un basco in testa, che li contemplava sorridente e beato. Sull’imboccatura della nassa era appollaiato un grosso uccello variopinto il quale, chinando ogni tanto il capo, sembrava proprio stare ad ascoltare il suono che ne usciva, come dalla tromba di uno di quei giganteschi altoparlanti grigi che lui vedeva in paese, fissati in alto sui pali, durante la festa di San Silverio.

Giannino si diresse incuriosito verso quella stramba combriccola e si rivolse direttamente al vecchio, domandandogli a bruciapelo: “Cos’è quell’affare?”

L’uomo lo squadrò sorridendo e rispose: “È un acchiappapasseri.”

“E a che serve?”

“Serve ad acchiappare i passeri.”

“Ma quello non serve per prendere i pesci?”

“Sí, ma noi ci acchiappiamo i passeri!”

“Perché dovete acchiappare i passeri?”

“I passeri sono piccoli e tanti. Volano e se ne vanno. E li vedi nell’aria. Come i nostri ricordi. Noi li acchiappiamo, li teniamo un po’ con noi e poi li lasciamo liberi. Qualche volta ritornano: qualcuno se ne va, qualcun altro ritorna e rimane con noi. Tutto sta a dargli fiducia, a non mettergli paura e, soprattutto, a non ucciderli. Poi, se sentono la musica, ne chiamano pure altri e si affollano cinguettando tra noi.”

“E non li uccidete?”

“Se li uccidessimo, sarebbe come uccidere i nostri ricordi e se uccidessimo i nostri ricordi, sarebbe come uccidere noi stessi. Ci fanno più compagnia da vivi.”

“Tu lo sai come si diventa da morti?”

Il vecchio, che fino a quel momento aveva continuato a sorridere a Giannino, improvvisamente si fece serio e chiese: “Li vedi tutti quei bambini? Li vedi come sono allegri?”

“Sí, li vedo. Mi piacerebbe giocare un po’ con loro.”

“Quei bambini un giorno erano tutti morti. Una volta, quando ero ancora un cacciatore, sono volati qui decine di passeri e io li ho presi con l’acchiappapasseri. Si erano infilati tutti dentro alla nassa e strillavano come matti. Non so perché, ma da quel momento in poi non fui più capace di ucciderli. E diedi loro la libertà. Di quel gruppo di passeri, nessuno volò via. Quei passeri, erano tutti i ricordi di quei bambini. Io ho ridato loro la vita con la libertà e adesso capita ancora che tra i passeri liberati ce ne sia qualcuno che diventa un bel bambino felice, con tutti i suoi ricordi, che balla e canta.”

“Ma allora ogni nassa può trasformarsi in un acchiappapasseri e ridare la vita!”

“Beh, non proprio tutte. Devono essere colorate, esposte all’aria e non immerse nell’acqua. Devono emanare odori, sapori e bagliori. Ma soprattutto devono essere portate in luoghi solitari, che solo i vecchi e i bambini conoscono.”

“Ma quell’uccello più grande, che ci sta a fare sull’acchiappapasseri?”

“Quell’uccello colorato ha un nome difficile, si chiama Psicopompo. Vuol dire «colui che accompagna le anime» dal mondo dei vivi a quello dei morti. Ma può fare anche il viaggio all’inverso, se l’anima glielo chiede. L’anima allora ritorna, ma nessuno la può vedere. Solo i bambini riescono a vederla, e la vedono bambina come loro.”

“Nessun altro riesce a vedere le anime?”

“Qualche volta ci riescono quelli che sono capaci di dare gli ori al mondo: i pittori, gli scultori… ma non le vedono bene come i bambini.”

“E come mai ci riescono?”

“Perché le loro opere non rappresentano solo i ricordi di quelli che sono già esistiti, ma anche i ricordi futuri, di quelli che verranno.”

“Ma loro come fanno a conoscerli?”

“Infatti non li conoscono; però fanno molti sforzi per immaginarseli. Invece i bambini sanno bene quali sono i ricordi degli altri bambini. Anche di quelli che devono venire.”

“E tu, com’è che invece sei vecchio?”

“Perché io non sono morto. Sto aspettando di diventarlo, e poi ritornerò.”

“Allora i morti possono ritornare!”

“Solo quando muoiono da bambini. O come se fossero rimasti bambini.”

Il vecchio tacque per un momento e poi aggiunse:

“Chi muore da grande, non ritorna mai.”

Giannino non fa ancora ritorno

“Giannino! Giannino!”

“Giannino rispondi! Dove sei?”

Da tutte le parti i gitanti invocavano il nome di quel bambino, che in molti davano già per disperso, e perlustravano palmo a palmo la zona. Qualcuno cominciava a dire di chiamare i pompieri e la polizia. E Clara, la madre di Giannino, a questo punto si era messa a urlare come un’ossessa e si era sentita male.

Intorno alla disperazione di Clara e Antonio, dello zio Carlo, della zia Amalia e di Igino, si era raccolta l’incredulità e l’angoscia di tutto il paese. A Clara e Antonio volevano tutti bene; in particolare a quel loro figlietto un po’ sognatore, ma intelligente e buono. Ma la vita certe volte riserva le più tragiche sorprese, proprio a chi meno se le merita.

E intanto le ricerche continuavano. Soprattutto vicino agli argini del fiume.

Giannino allarga le braccia e spicca il volo

“Bisogna acchiappare i passeri e tenersi vicini i ricordi. Soprattutto quelli colorati e odorosi. Ecco a che serve veramente quell’affare…” disse il vecchio indicando verso la nassa, sull’imboccatura della quale si era posata adesso una grossa farfalla dalle ali d’oro come il sole.

“Ma pure io, se un giorno morirò, potrò ritornare?”

“Senti, Giannino… Ti chiami Giannino, no?”

Il bambino trasalì al pensiero di come il vecchio avesse fatto a conoscere il suo nome.

“Ascolta, Giannino. A questo punto ti voglio dire una cosa importante: nessuno, proprio nessuno dico, può essere sicuro di ritornare. Neanche i bambini. Ma un tentativo lo possono fare tutti. Hai visto: lo Psicopompo ci aiuta, i passeretti pure, la musica e i ricordi anche. Ma è fondamentale la nassa. La nassa non deve stare sott’acqua a catturare i pesci, in un mondo che non è il nostro. Essa deve stare all’aria, in mezzo a noi e a quello che ci colpisce. Ciascuno deve prendere il proprio acchiappapasseri e portarselo nel posto che crede più opportuno e mettersi a raccogliere tutto quello che un acchiappapasseri può agguantare. Il luogo non è detto che debba per forza essere grande e lontano, anzi può essere vicinissimo e piccolissimo, purché sia il nostro. È solo lì che si radunano centinaia di passeri.”

“Ma come faccio a trovarlo?” chiese Giannino, tirando fuori dalla tasca dei calzoncini un fazzoletto di cotone blu e giallo per soffiarsi il naso.

“È necessario mettere le ali alla fantasia. O meglio… E va bene, seguimi e vedrai!”

Il vecchio si alzò adagio da terra posando il flauto quasi con rincrescimento; anche se, fin da quando aveva cominciato a parlare con Giannino e aveva smesso di suonarlo, la musica era continuata lo stesso. Porse la mano al bambino e si incamminò verso un filare di pioppi, che nascondeva la vista al di là della radura.

Giannino ammaliato lasciò cadere il fazzoletto a terra e allargò le braccia; poi si afferrò alla mano del vecchio e gliela strinse forte.

Giannino nel Sacco

“Venite qui!”

“Presto, accorrete!”

“Hanno trovato qualcosa, andiamo!”

Sembrava che tutto il paese si fosse riunito sugli argini del fiume. Qualche poliziotto cercava di tenere lontana la ressa, ma inutilmente. Comunque i pompieri stavano facendo il loro lavoro nella maniera migliore possibile; e in effetti qualcosa avevano rinvenuto.

“Chiamate qualcuno che lo conosce. Magari lasciate stare i genitori. Se è suo sul serio, il colpo sarebbe troppo forte per loro!”

“Sí, sí. È meglio che lo riconosca un parente e, se è davvero il suo, poi glielo dice un po’ per volta…”

“Comunque, non è che hanno trovato proprio lui. C’è ancora speranza!”

“Ma perché? Che hanno trovato?”

“Boh, non lo so. Dicono che i pompieri hanno ripescato qualcosa.”

“Avviciniamoci. Quel pompiere ce l’ha in mano…”

I pompieri che dragavano il fiume si erano frattanto accostati alla sponda, e uno di loro caracollò dal barcone per arrampicarsi fin sull’argine e inoltrarsi oltre il cordone dei poliziotti, verso il gruppo delle persone in ansia sulla riva.

“Questo l’abbiamo ripescato proprio al centro del fiume. Qualcuno lo riconosce? Era del bambino?” domandò con voce agitata il pompiere, mentre il suo braccio si alzava al di sopra delle teste vocianti.

Nella mano stringeva uno straccetto gocciolante.

Era un fazzoletto. Un fazzoletto di cotone blu e giallo.

Giannino fra rumori e motori e sonori cantori

Era ancora giorno; un giorno intensamente luminoso quando il vecchio e il bambino, percorsi un paio di chilometri, si erano trovati di fronte ai due marchingegni. Ma Giannino non se ne stupì più di tanto: dovevano essere trascorse un bel po’ di ore per essere ancora così giorno; ma era pur vero che l’eccezionalità degli eventi che lo avevano coinvolto forse l’aveva un po’ confuso e ingannato sul senso del fluire del tempo.

“Ecco, siamo arrivati. Questo è quello che ti volevo far vedere. Guardalo bene e non dimenticarlo mai” disse il vecchio, fissando Giannino negli occhi.

“Oh, mamma mia!” esclamò stupefatto il bambino.

Davanti a lui c’erano una strana macchina che trasmetteva all’aria circostante una profonda vibrazione, piacevole e ipnotica, e un ancor più insolito congegno che emetteva come un sussurro, a metà strada tra le parole sommesse della nonna, quando gli raccontava le favole prima d’addormentarsi, e la melodia del carillon che la mamma teneva sul comò, proprio vicino alla sua fotografia.

La macchina era formata da due luccicanti ruotone di bicicletta senza gomme; per evitare pure il fastidio di doverle ogni tanto gonfiare e smontare per ripararle – pensò con soddisfazione Giannino. Nello spazio fra le ruote si avvertiva la presenza di un motore invisibile che ronzava basso e gradevole. Davanti all’altrettanto invisibile ma comoda sella era appoggiato un bell’acchiappapasseri nuovo fiammante. Il secondo congegno, che stava poco distante da quella sorta di bicicletta, era costituito da un cavalletto che sosteneva sulla sommità un altro acchiappapasseri, questo però molto più antico e caratterizzato da una protuberanza ritorta che, collegata alla parte più stretta, conferiva all’inusitato strumento la forma di una imponente tromba.

“Perché uno è vecchio e l’altro è nuovo?” chiese Giannino.

“Quello nuovo è per te. È una specie di bicicletta che ti porterà dove vuoi. Ha un motore resistentissimo e potentissimo che va a pedali, anche se non si vedono. L’altro è mio. Da tanto tempo.”

“Ma tu, chi sei?”

“Io sono un Sonoro Cantore, e quello è il mio strumento. Con quello io suono e canto per attirare vicino a me i ricordi e le anime. Almeno quelle dei bambini. Qualche volta ci riesco e così sono felice. Felice perché li vedo di nuovo vivi ed allegri e non se ne sono andati per sempre.”

“Ma solo tu li puoi vedere?”

“No. Se passano davanti a coloro che li hanno amati, anche loro li vedono.”

“E che dicono?”

“Niente. Il più delle volte pensano che sia una visione. Ma un po’ li consola.”

“E invece esistono sul serio!”

“Già”, concluse pensosamente il vecchio. E poi, circondando con il braccio le spalle di Giannino, lo sospinse verso la bicicletta.

“Salici sopra. E pedala forte! Ormai non ti fermerà più nessuno!” esclamò il vecchio.

“Davvero posso andarci? Posso ritornare con quella da mamma e papà?”

“Sí, certo. E ricordati di piazzare l’acchiappapasseri nel posto giusto.”

“E tu che farai?” chiese con una punta d’apprensione Giannino.

“Io nel frattempo mi metterò dietro al trombone – lo rassicurò ridendo il vecchio – e ti accompagnerò con la più bella musica che tu abbia mai ascoltato. Ma adesso va, non fare troppo tardi.” Poi soggiunse sottovoce: “Altrimenti non ti vedranno…”

“Ma che dici? Andrò veloce come il vento. Noi ci rivedremo?”

“Se ripasserai di qui… Ma l’acchiappapasseri preferisce i luoghi solitari, te l’ho detto. E io sto qui già da tanto tempo.”

“Allora ciao, Sonoro Cantore!”

“Ciao Giannino!”

Il bambino inforcò la bicicletta con facilità, quasi l’avesse sempre posseduta; se ne andò pedalando forte come gli aveva suggerito il vecchio e tenendo ben stretto sotto il braccio l’acchiappapasseri.

Giannino sul ponte

Clara guardava affranta le spire dell’acqua che si allontanavano da lei e dalla riva, e l’affannarsi convulso dei soccorritori, che si prodigavano ormai da parecchie ore alla ricerca del corpicino. Ma ormai era quasi notte e di Giannino nessuna traccia.

Quando il pianto sommesso stava per prendere il posto delle urla concitate, ad uno dei soccorritori sembrò di vedere distintamente, alla luce della luna, qualcosa o qualcuno transitare sulla sommità del vecchio ponte. Se gli fosse stato chiesto, avrebbe pure giurato di aver sentito, prima di sollevare lo sguardo, una musica. La musica più bella che avesse mai sentito.

“Là, guardate là!”

Tutti quanti alzarono gli occhi e fu Igino a vedere meglio degli altri un bambino, vestito proprio come Giannino, allontanarsi su due ruote di bicicletta con una cesta di vimini sotto il braccio.

“Zio, zio! Quello sembrava proprio Giannino! E se fosse lui? Se fosse ancora vivo e fosse ritornato? Ma di chi era quella bicicletta e che ci faceva con una cesta così sotto il braccio?”

Antonio distolse lo sguardo da quella visione e, fissando in silenzio il nipote per alcuni lunghi istanti, disse poi senza più emozioni ma con gli occhi umidi:

“Quella non era una cesta. Era una nassa.”



Capitani coraggiosi

(Waterworld)

L’illusione, semplicemente, si trova nel nostro punto di vista, se pensiamo che le forme e le strutture, le cose e gli eventi attorno a noi siano realtà della natura, invece di comprendere che sono concetti della nostra mente la quale misura e classifica.ii

Fritjof Capra

Avvistamenti

Dopo diciassette giorni di imprevista bonaccia e di stentata navigazione, oltrepassato di poco l’equatore verso l’emisfero australe, erano apparse all’orizzonte le arche.

Il capitano, con un gesto deciso ed esperto, estrasse con rapidità la bitta più vicina dal suo alloggiamento sulla murata. Osservò la cima liberarsi oscillando e il controfiocco distendersi lentamente verso l’albero di bompresso, alla poca forza del vento. Rise beffardamente e fece un fischio verso l’equipaggio in coperta per attirarne l’attenzione. Sollevò il cappello e si passò una mano sui capelli appiccicaticci di sudore. Poi abbozzò un’espressione che, insieme alla chiarezza glaciale dei suoi occhi, trasformò quella risata scettica in un sarcasmo scostante.

“Così andremo più veloci e vedremo presto da vicino quello che il signor nostromo ha avvistato, e con tanta sicurezza definito come «due arche»!”, disse con ironia poco convinta.

Il nostromo fece finta di nulla e continuò ad assuccare una gomena a babordo, poco lontano, come ipnotizzato dal chiarore del mare calmo all’orizzonte e dallo sciabordio delle onde sulla carena…

Alla Ricerca delle Arche

La scialuppa avanzava piano. Il suo lento procedere era inversamente proporzionale all’ansioso interesse del nostromo che, immobile a prua, fissava le due arche galleggianti.

Il rumore vischioso dei remi che si immergevano nel mare piatto metteva i brividi, allorquando interrompeva il silenzio dell’aria stagnante e il fruscio della chiglia che si apriva un varco nell’acqua blu, richiudentesi subito dopo con un gorgoglio sull’imperscrutabile abisso marino.

I rematori non dicevano niente. Le loro espressioni erano indecifrabili, dopo le parole uscite dalla bocca del capitano. E la curiosità per quello che era stato avvistato dal nostromo, non bastava a scioglier loro la lingua. Remare era sempre stato il loro destino. Non era certo la scoperta di un relitto misterioso che lo avrebbe mutato.

Però era la prima volta, dopo quasi cinque anni di navigazione da un archiporto all’altro, che l’orizzonte marino pareva odorare di terra.

Una Musica Fantastica

Il nostromo, con un ginocchio poggiato sulla fiancata della scialuppa e l’altra gamba saldamente agganciata alla biscaglina penzolante dal barcarizzo di dritta, tratteneva con una mano la gomena bianca, calcinata dal sole e dal salmastro, e con l’altra indicava verso le arche che aveva rimorchiato sottobordo. Con uno sguardo di muta rivincita osservava gli occhi increduli del capitano, che si sporgeva dal ponte di coperta.

Una nebbia calda, di un lucore irreale, stava diffondendosi all’intorno e faceva risaltare le lastre nere dipinte e incastonate nei telai lignei delle arche, cullate dalla risacca. Ora pure il capitano poteva considerare da vicino quei messaggi misteriosi provenienti da un altro luogo e da un altro tempo. Per un attimo sembrò voler dire qualcosa al nostromo che lo squadrava dal basso, poi ci ripensò e sputò con un ghigno oltre la murata.

“Abbiamo anche avvistato terra, signore,” disse a voce alta il nostromo con finta noncuranza, rivolto al suo superiore e continuando a guardarlo fisso.

Il comandante scrutò l’orizzonte, ma non vide nulla.

“Sopravvento, capitano! Sono tre isole. Tutte uguali,” insisté l’altro con una punta di derisione.

“Oh andiamo, signor nostromo! Lo sa bene che sono più di due secoli che tutte le terre emerse sono scomparse, inghiottite dalle acque. E poi, un tempo, in questi mari le isole si somigliavano tutte,” sottolineò il capitano con aria di sufficienza.

“Nossignore, nessuna allucinazione. È proprio la stessa isola che si ripete identica all’orizzonte!” ribatté il nostromo.

Il capitano aggrottò le sopracciglia e fece una smorfia, accingendosi a rispondere per le rime, più che all’enormità del marinaio, al suo tono venato d’insolenza.

Ma fu proprio in quel momento che percepì profumo di aranci e una musica lontana provenire da sopravvento.

Nature Morte

Dall’alto del promontorio il capitano esaminava la vasta pianura che si stendeva in basso, fino all’orizzonte terrestre.

La pattuglia di esploratori sbarcati sulla terraferma era composta, oltre che dal capitano e dal nostromo, anche da cinque marinai esperti nell’antica arte del disegno, incaricati di riprodurre con esattezza sul portolano di bordo, durante il viaggio di ritorno al Primo Archiporto, la testimonianza diretta di quello che tutti i loro occhi avevano visto e che la loro fantasia non aveva di sicuro immaginato.

Si erano avvicinati per vedere meglio, e giù, al centro del bassopiano, nonostante il sole calante all’orizzonte, distinguevano nitidamente un’enorme stele rappresentante una mano puntata a nord est, in muto ed estremo avvertimento, verso due fiumi d’acqua limpida, che nel loro scorrere circondavano un sito premarino, caratterizzato da un insediamento produttivo della fine del Ventesimo Secolo: nell’abbandono e nell’oblio giacevano intorno le suppellettili e le masserizie tipiche di quell’età, accompagnate da arcaici ed insulsi oggetti di consumo che, tuttavia, sembravano ancora recare l’impronta dell’intimità e della dimestichezza di coloro ai quali erano appartenuti.

Costoro sembravano aggirarsi ancora nei dintorni. Come se non potessero essersi allontanati da molto tempo…

Figure nella Notte

La notte era sopraggiunta, ma la temperatura era rimasta piacevolmente mite. Avevano acceso un fuoco di legna, per la prima volta da tempo immemorabile, solo per il gusto di ammucchiare rami e sterpaglie senza la preoccupazione di scialare. Vi si erano seduti intorno e avevano respirato l’aria della notte, impregnata d’odore di terra e d’erba. Riscoprivano con sorpresa infinita il frinire delle cicale, lo scintillio delle lucciole e il rumoreggiare del torrente poco lontano.

Dopo un po’ i cinque marinai disegnatori non resistettero alla stanchezza e all’emozione e si addormentarono con la testa sui fogli di squame di pesce, nel timore che i loro abbozzi della natura terrestre, veduta allora per la prima volta, potessero disperdersi successivamente a causa della brezza mattutina.

“Presto potranno ricominciare a disegnare su della vera carta!” esclamò con un sorriso il capitano, accennando ai marinai addormentati e volgendosi verso il nostromo, che fece di sí con la testa senza restituirgli lo sguardo.

“La cosa che mi ha impressionato di più è l’odore dell’aria,” proseguì il capitano sempre osservando il nostromo al suo fianco, il quale sorrise ma continuò a fissare il buio, senza dire nulla.

Passò qualche minuto in cui il crepitare delle faville fu padrone assoluto del silenzio della notte.

“Chissà cosa mai ci avranno voluto lasciar detto, con tutto ciò?” chiese come a se stesso il capitano, ma volgendo ancora una volta gli occhi al nostromo.

Costui si scosse e si decise finalmente a ricambiare l’occhiata. Poi, con un sospiro, si alzò e sparì al di là del falò, nell’oscurità.

“Questo non lo so – disse con una risatina, ritornando dopo un po’ alla luce del fuoco, – ma la rotta che abbiamo creduto di seguire per tanto tempo doveva essere tutta sbagliata!”

E porse con la mano illuminata dal bagliore delle fiamme un’arancia al capitano, mettendogliela proprio sotto il naso.



Legno, Ferro e Mani

(L’epoca degli Oldomàn)

In mezzo al prato

Lucio camminava sul bordo del fosso e si guardava la punta delle scarpe. Erano un po’ consumate, ma ancora potevano bastare a percorrere quella manciata di miglia, prima di arrivare al Pozzo della Salute, togliersele dai piedi stanchi e sdraiarsi al sole.

Ogni volta era così, per tutti. Da alcuni decenni. Ma lui, grazie al cielo, era ancora lontano dal fatale traguardo dei vent’anni.

Lo mandavano a cercare cose da rivendere: carabattole varie, pezzi di stoffa o di metallo abbandonati, ma lui se ne tornava sempre con qualcosa di prezioso per sé ma insignificante per gli altri. Così i guadagni erano sempre proprio pochi. Però lui non si lamentava: non avrebbe certo interrotto questa pacchia per un vestito dal taglio più moderno o un paio di scarpe nuove.

Qualche decina di metri più indietro aveva adocchiato la carcassa di uno di quei vecchi motorini che tanto tempo prima erano molto usati dai ragazzi, soprattutto nelle città di un’epoca antica. Adesso che le cose erano cambiate e le condizioni di vita si erano ridimensionate, ciascuno se ne stava buono buono nel suo paese ed il traffico si era ridotto, e certo quei motorini non servivano più; però sarebbe stato bello se fosse stato capace di accollarsi quella vecchia ferraglia, per riportarla da Oldomàn dei Senzatempo. Chissà quanto gliel’avrebbe pagata…

Il suo cane si era messo ad annusare sospingendolo avanti, e lui ora era indeciso se tornare sui suoi passi. Però ci pensava…

E ci stava pensando ancora quando da un cespuglio sul lato della strada, al di là del fosso, in mezzo ai prati incolti, era sbucata all’improvviso una testa tutta sporca di grasso lubrificante.

Legno e Ferro

“Ehi, giovane, passami quel ramo lì per terra!” aveva detto la testa sporca di grasso.

“Io sono Lucio, e di solito non rispondo agli sconosciuti!”

“Andiamo, Lucio! Non fare tante storie. Qui mi conoscono tutti. Il mio nome è Nanni, ma mi chiamano Mano e Peggio per la mia abilità nel lavorare legno, ferro e cemento. Se mi allunghi quel ramo riusciremo a sollevare quella carcassa di motorino e potrai comprare un nuovo collare di cuoio vero al tuo cane Vasco, anche se a te non interessano scarpe o abiti nuovi.”

“Come fai a sapere il nome del mio cane? E a conoscere il corso dei miei pensieri di poco fa?”

“Eh, ragazzo!… Tu stai vivendo in un’epoca di plasticherie e roba fatta da robot. Io invece ho imparato a sopravvivere quando le mani erano importanti. Si realizzava quasi tutto con le mani. E il bello era che, prima di realizzarlo, dovevi disegnarlo, fare il progetto. Oggi tu non sai nemmeno che cos’è un progetto. Vivi alla giornata e raccogli quello che trovi o che ti concedono i Senzatempo. Noi non ci fermavamo alle apparenze ed eravamo capaci di creare. Dal cervello alle mani, dalle mani al cervello. Sotto il selciato, la spiaggia! dicevamo. Ecco perché adesso riesco ad aggiustare tutto; per me è uno scherzo leggere negli occhi e nella mente delle persone oneste, specie dei giovani come te! Con quelle come Oldomàn, mi riesce un po’ più difficile.”

“Oldomàn è onesto, non essere maligno!”

“A parole. Per te non è mai stato un problema, ma prova a chiedergli un paio di scarpe nuove; poi vedi…”

“Aiutami a portargli quella carcassa di motorino, e vedrai tu!”

“Sí, d’accordo. Ma facciamo in fretta. E dimenticati il Pozzo della Salute, per oggi almeno.”

Lucio guardò esterrefatto Nanni, ma raccolse il ramo e glielo porse in silenzio.

“Andiamo!” disse la testa sporca di grasso oltrepassando il fosso.

Tronchi dipinti e ingranaggi smontati

Nanni e Lucio stavano ritornando muti dall’officina di Oldomàn. Vasco li seguiva sul viottolo, sbuffando e annusando qua e là.

Lucio teneva il capo chino e Nanni si rivolse a lui con un sorrisetto beffardo.

“Che t’avevo detto? Quello, un tempo, era un sogno per tanti giovani come te. Quei motorini li costruivano personaggi come Oldomàn nel ventesimo secolo. Eppure per quella rara carcassa oggi Oldomàn non ti ha dato neppure la metà di quello che ti dà quando gli porti una arcaica rivista pornografica conservatasi sotto le rocce del deserto della Padania. Quel motorino lo potevi lasciare a me.”

“Tu non mi avresti dato neanche uno scudo sgarrato!” rispose con rabbia Lucio.

“Sí, ma avresti imparato molto, guardando le mie mani che lo facevano rinascere. Magari come attrezzo agricolo o mensola da salotto!”

“Tu non mi hai detto niente. Non me l’hai chiesto!”

“Certe cose si devono capire al volo. Ben prima di arrivare a vent’anni!”

Ci fu una pausa di silenzio mentre i due proseguivano verso l’imbrunire. Poi Nanni riprese a parlare in tono affettuoso.

“Prima di andare al Pozzo della Salute, vieni da me. Vedrai legno e ferro vero: tronchi dipinti e ingranaggi smontati. E berrai vero caffè e fumerai vero tabacco!”

“Ma è proibito! Da un sacco di tempo! Altrimenti come faremmo a raggiungere i venti anni?” esclamò inorridito Lucio.

“Ragazzo, è per questo che i Senzatempo si sono inventati la storia del Pozzo della Salute. E voi vi ci siete andati a buttare dentro come allocchi, tutti. Ma nessuno torna guarito da lì. È la gente come Oldomàn dei Senzatempo che vi fa ammalare e morire anzitempo. Non c’è nessun pozzo sacro che possa ridare la salute e allungare la vita. Che ti ho detto prima? Dal cervello alle mani, dalle mani al cervello.”

Nanni tacque con un sorriso di indulgenza e fu a questo punto che Lucio gli osservò attentamente, per la prima volta, la faccia.

E si accorse che era piena di rughe.



Il punto zero

«Ciò che io sono è un nulla; questo procura a me e al mio genio la soddisfazione di conservare la mia esistenza al punto zero, tra il freddo e il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine, tra il qualche cosa e il nulla come un semplice forse»iii

Sören Kierkegaard

Testa con cane

Un vecchio cane nero ha oltrepassato la linea di mezzeria ed è andato ad accucciarsi stremato sul bordo opposto della via. Si guarda impaurito intorno, meravigliato di essere sopravvissuto, ancora una volta, all’attraversamento di una di quelle strade larghe che i bipedi solcano a tutta velocità, rinchiusi nel ventre di quegli animali di ferro che hanno misteriosamente addomesticato, senza dar loro neppure del cibo.

Poi ha incominciato a leccarsi insistentemente le zampe; un po’ per asciugarle, un po’ per riscaldarsi. Ha sbuffato due o tre volte, si è acciambellato appoggiando il muso sulle estremità posteriori, ha chiuso gli occhi e si è assopito.

La testa di un uomo si è rizzata leggermente da dietro il guardrail; il suo sguardo si è fatto attento e la mano destra è corsa rapidamente sul bordo superiore della barriera, afferrandolo per sostenere il corpo nel sollevarsi da terra.

Il cane è a pochi metri e lui può ascoltarne il soffio regolare del respiro nel sonno profondo.

L’animale è probabilmente sopravvissuto ad una giornata di stenti, coronando il sogno di un riposo tranquillo e sazio, dopo aver attraversato una strada a scorrimento veloce, nella più completa oscurità come epica conclusione.

Ma che ci fa lui là, in piena notte?

Come ci è arrivato su quella strada? Da solo o ce l’ha scaricato qualcuno?

China il capo tra le mani sulla sommità del guardrail e sente sulla fronte il freddo umido del metallo. Poi cerca almeno di ricordare il suo nome.

Socchiude gli occhi per qualche istante e il buio della memoria gli restituisce soltanto i margini pallidi di una stanza spoglia, una poltrona bianca e l’eco di una risata.

Trittico con colore rosso

Quell’uomo non era suo padre: stava reagendo troppo sguaiatamente. Inarcava indietro il capo chiudendo gli occhi; derideva sghignazzando; prolungava la sua risata come supremo atto di disprezzo volgare, spalancando la bocca enorme.

Quell’uomo non poteva essere suo padre. Chi mai potrebbe essere condannato ad avere un così tremendo ricordo del proprio padre?

Eppure, dove aveva visto quel faccione brutale ed insensibile se non nella sua vecchia casa, in quella stanza illuminata da un unico assurdo globo bianco, dove quella persona, che tutti conoscevano come suo padre, trascorreva pochi momenti della giornata; e solo per urlare, rinfacciare, imbestialirsi, percuotere e commiserare chi non la pensava come lui?

Poi un bel giorno una donna vestita di rosso, stanca delle continue violenze, se n’era andata via da quella casa, portandosi dietro la figlia più piccola.

Lui ricordava bene quella figura di schiena, i lembi del cappotto svolazzanti per la fretta di lasciarsi dietro le spalle quell’inferno, nella paura di ripensarci e di non averne mai più il coraggio.

La ricordava, perché quella era la figura di sua madre e aveva abbandonato anche lui. Lì, da solo.

L’aveva vista andarsene dalla soglia di casa dando la mano alla sorellina: quella era l’ultima visione che era riuscito a conservare della madre.

Era stato per anni ad attendere che almeno la sorella ritornasse, e spesso l’aveva sognata apparire di nuovo sulla porta di casa, ma la risata triviale del padre cancellava ad ogni risveglio quell’illusione.

Perché sua madre l’aveva lasciato solo? Un lavoro che poteva sostenere una donna ed una bambina di dieci anni, non poteva mantenere anche un adolescente?

O forse sua madre aveva avuto paura che lui sarebbe cresciuto troppo somigliante a suo padre?

Figura seduta su poltrona bianca

Come in tante altre simili occasioni, stava ad osservare l’uomo davanti a lui, ancora in attesa di una parola risolutrice.

Lui ora guadagnava bene e si era potuto permettere di andare in analisi già da alcuni anni.

Ma l’altro non lo guardava neppure negli occhi, come sempre, e intratteneva un muto dialogo con la mano che teneva la sigaretta, accesa non appena lui aveva smesso di parlare. Anzi sembrava arrovellarsi non nel cercare una soluzione possibile ai suoi drammi personali, ma nel trovare le parole adatte a congedarlo senza troppa scortesia, per l’ennesima volta.

Poi il tizio, che gli stava di fronte seduto su una poltrona bianca, aveva cominciato a parlare a ruota libera.

Lui non aveva una gran cultura, però fino a lì sapeva arrivarci.

Quello, ripetendo la solita solfa, gli aveva detto di come le violenze fisiche e psichiche, e bla… e bla…, subite da parte di suo padre nel corso degli anni, e bla… e bla…, lo avessero reso dapprima succube, e bla… e bla…; poi, dopo la morte del genitore, colmo di rimorsi inconsci.

“Guardi, che questo non gliel’ho mica detto”, l’aveva interrotto lui.

“Che cosa non mi ha detto?”, aveva chiesto con sufficienza l’altro.

“Che mio padre è morto. Anzi, è ancora vivo. E vegeto!”

“Ah, ma allora è tutta un’altra questione!”, aveva esclamato rassegnato lo psicanalista.

E stavolta, dopo che ebbe sorriso, il dottore lo aveva guardato dritto negli occhi, spegnendo con solennità la sigaretta.

Figura con blue-jeans Levi’s

“Signor Leroy, lei mi è simpatico. Perciò le dirò che il dottore non è poi un gran dottore. Ci sono altri metodi per riacquistare una certa tranquillità, oltre a quelle schifezze di pillole che il dottor Paxton le ha sbrigativamente prescritto.”

Ecco, mi chiamo Leroy. Scott Leroy. Almeno questo sono riuscito a ricordarlo.

“Vede, io sono l’autista del dottor Paxton, e gliene ho riaccompagnati di clienti, a casa! Oh sí, se gliene ho riaccompagnati!”

Chi continuava a parlargli era un uomo muscoloso dal cranio rasato e dai caratteristici occhiali scuri, che non promettevano nulla di buono. In ogni caso il tono della voce pacato lasciava supporre che in qualche modo sapesse il fatto suo. Per di più aveva continuato ad orinare come se nulla fosse, infischiandosene del suo malcelato imbarazzo, quando se l’era trovato davanti sulla soglia del bagno dello studio dello psicanalista.

Ora mi ricordo anche qualche altra cosa. Vicinissima alla mia tempia sinistra, vedo e sento una grossa goccia fioccare inesorabile, in continuazione dal soffitto, da cui inoltre pende un aggeggio che sembra una telecamera puntata proprio verso l’orinatoio.

Il suono ritmico di questo sgocciolio mi appare stranamente familiare.

Per un attimo è come se mi riportasse alla memoria un analogo rumore pulsante, ancora più remoto e spaventoso.

“Bene – aveva proseguito l’uomo, – quando quei clienti li riporto a casa mezzo sconvolti, ho parlato con loro abbastanza da capire che in fondo quello che vogliono tutti è solo un’altra possibilità. Vogliono ritornare a quel punto zero che gli permetta di ricominciare. Vorrebbero un’altra identità. Purtroppo, creda a me, quando ci si imbarca in certe situazioni, gli antidepressivi non bastano.”

L’autista si era diretto al lavandino e stava ora sciacquandosi le mani.

“Se uno potesse ricominciare tutto, da qualche altra parte e senza eccessivi problemi – aveva ripreso a dire l’autista, – non crede che la smetterebbe d’impasticcarsi e di confessarsi con un estraneo che gli spilla soldi in continuazione?”

Ora il pelato lo stava fissando dritto negli occhi, da dietro le lenti scure.

“Vuole che la riaccompagni a casa io, signor Leroy?” aveva concluso, con una piega ironica sulle labbra.

Figura con specchietto retrovisore

Apro a fondo il rubinetto e l’acqua scroscia fin sopra lo specchio che ho sistemato dietro di me, per essere più accurato mentre mi rado a fondo la testa. La mia espressione è finalmente felice, entusiasta.

Bud mi ha regalato lo specchietto, dicendomi: “Mentre ti radi la testa, guardati alle spalle. È a questo che servono gli specchi!” ed è scoppiato a ridere.

Scott Leroy si era fatto riaccompagnare a casa da Bud Weiser, l’autista del dottor Paxton.

Ma prima di riportarlo sotto il portone, costui gli aveva fatto presente alcune cose.

“Non è facile tornare a casa con una nuova identità, ma non è nemmeno impossibile.”

Bud, nel dire questo, si era tolto gli occhiali e li aveva posati sul cruscotto.

“Non sto parlando di una identità ricostruita a forza di pillole e sedute, sdraiato su un divano – aveva proseguito; – parlo di una identità nuova, vera; come quelle che i servizi segreti affibbiano a certi personaggi, che così come sono non potrebbero nemmeno percorrere cento metri, prima di essere buttati vivi in un compattatore di rifiuti. Un’identità con documenti, domicilio, lavoro e annessi e connessi vari, tutti nuovi e inattaccabili. Ne ho visti, su nello studio dello strizzacervelli, di ossessivi compulsivi, nevrotici e schizofrenici, psicotici assassini o suicidi potenziali! Tutta gente che il dottor Paxton cerca di curare con pasticche e prediche. In cambio di tanti bigliettoni, s’intende. Ma gli unici che si sono ripresi davvero sono quelli che sono riusciti a fuggire e a rifarsi un’esistenza da qualche altra parte, mollando tutto alle spalle. E colui che li ha portati all’indirizzo giusto, è sempre stato il sottoscritto!”

Weiser si era voltato un attimo a guardarlo, mentre con il braccio sinistro appoggiato sul finestrino teneva con un dito il volante e con la mano destra si strofinava la superficie dei Levi’s sulla coscia.

“Non andrebbe anche a lei, Scott, una soluzione del genere?”

La mia faccia ride dallo specchietto retrovisore.

Così conciato, solo suo padre potrebbe riconoscerla.”

È vero solo mio padre potrebbe riconoscermi.

Figura seduta con calze gialle

“Non si deve sentire troppo perplesso, signor Leroy, nel voler assumere una nuova identità. Molta della violenza che c’è in questa società deriva dalla mancata accettazione della nostra identità e Bud, che ne sa molto più di Paxton, gliel’avrà già spiegato molto bene, mentre lo portava qui da me. Se no, in fondo, lui che se ne farebbe di quei bicipiti e di quegli occhiali da bodyguard?”

L’uomo che aveva parlato gli stava seduto davanti, gesticolando con le mani lunghe ed ossute, spesso puntandogli contro un indice sputasentenze.

Quel tipo che mi parla indossa stravaganti calze gialle, siede anche lui su una poltrona bianca in una stanza disadorna. Una stanza dove l’unica nota di colore, oltre a quelle calze gialle, è un ampio tappeto liso.

La stanza di un appartamento situato in un anonimo agglomerato di periferia, dove mi ha condotto Bud Weiser.

“Le identità di tutte le persone che popolano il nostro paese – stava proseguendo l’uomo – sono realizzate rapidamente e a buon mercato, a partire dai pregiudizi e dalle violenze più o meno materiali che ci propinano dalla nascita, costringendoci ad estromettere dalla nostra vita non solo quello che volentieri crederemmo normale e bello, se ci fosse permesso, ma persino i nostri ricordi: questo fino all’età dell’adolescenza. Poi ci buttano in mezzo alla strada e quello che è fatto è fatto. Alcuni si accontentano, altri se ne fanno una ragione; altri ancora non si adattano e si ammalano, ma le medicine che la società gli fornisce, per mezzo di spacciatori più o meno legali, non li guariscono, perché la maggior parte di loro non sa che un’identità non si può avere da subito. Una vera identità si costruisce col tempo, con l’esperienza e anche con gli errori, soprattutto senza escludere nessuna possibilità dal nostro orizzonte; ma questa perseveranza bisogna impararla da soli, fin da quando si è giovani. Però la nicchia in cui vivono tanti è molto stretta, e pochi hanno il coraggio di allungare lo sguardo e di trovarsene un’altra.

“Così io, invece di spacciare droghe, ho deciso di fornire sottobanco, a chi lo desidera e proprio non ne può fare a meno, una nuova identità, pulita e vergine; un punto zero, come dice Bud, da cui ripartire alla grande.

“Questo le costerà un po’ perché io sono comunque uno spacciatore: uno spacciatore di identità, se così si può dire, ma corro lo stesso dei rischi. Però, dopo che sarà uscito da quella porta, lei sarà letteralmente un altro, a cominciare dal nome. Inoltre questo significa che dovrò muovere per un po’ di tempo qualche pezzo sulla scacchiera senza rispettare le regole, e mettere gli occhi e le mani in posti non consentiti; ma questo è un problema mio.

“Lei si dovrà preoccupare, per adesso, solo di assomigliare un po’ di più a Bud, diciamo. Così conciato, solo suo padre potrebbe riconoscerla. Se fosse vivo.”

“Ma mio padre è vivo, signor Daroux!” aveva interloquito Leroy.

Ecco, un altro frammento si aggiunge al puzzle che sto cercando di ricostruire: il tipo strano che mi ha fatto conoscere Weiser si chiama Daroux, Hector Daroux; è di origine francese e di professione fa il procacciatore illegale di identità.

“Be’, dei tipi strani come lei c’è poco da fidarsi, per la verità – aveva ribadito Daroux, dando un’occhiata interrogativa a Weiser, che assisteva in disparte al colloquio; – d’altronde, non do mai nulla per scontato, quando si tratta della sicurezza dei miei clienti. Farò comunque delle ricerche in tal senso, glielo assicuro. Nella mia professione è opportuno avere accesso ad informazioni di qualsiasi genere, anche le più riservate e protette. Un po’ come fa Bud con i pazienti del dottor Paxton…

“Lei intanto cominci col radersi il cranio. Non ne vale la pena, signor Scott Leroy?”, aveva concluso Hector Daroux con una risatina.

Figura nell’ombra

“Scott caro, non puoi continuare così. Non serve a niente nascondersi al passato che ritorna. Quello te lo porti dentro e neanche una nuova identità ti potrà far star meglio.”

Leroy era seduto accanto al termosifone e una figura in penombra gli carezzava una spalla, sussurrando piano quella che a lui pareva una favola tragica.

“Quando la mamma ed io ce ne andammo da casa, io ero troppo piccola per capire tutto. La mamma mi ripeteva spesso ‘Frances, un giorno torneremo da Scott, ma tuo padre no, non voglio più vederlo!’ e mi raccontava poi, con le sue parole sempre discrete, i tormenti che quell’uomo le aveva fatto passare. Ecco perché non ci hai più viste. Ma ora sono tornata e staremo sempre insieme.”

È mia sorella che parla; si chiama Frances.

“No, Frances! C’è qualche altra cosa. Qualcosa che ancora mi sfugge. E io devo saperlo, anche a costo di andare a ritrovare mio padre, dopo tanto tempo!”

“Ma che cosa dici, Scott? Papà è morto. È tanto tempo che è morto! La mamma non ebbe il coraggio di rivederlo neanche in ospedale, e poi morì anche lei.”

Lei si chiama Frances e mia madre si chiamava Margareth.

Figura bianca con tappeto arancione

Stavolta Leroy c’era andato da solo da Hector Daroux.

Era salito in fretta su per una ripida scala viola, che dal pianerottolo centrale, ricoperto da un lurido tappeto arancione, portava ai piani superiori. Non aveva incontrato nessuno, comunque aveva evitato con cura di essere inquadrato dalla telecamera della sicurezza interna.

“Salve, signor Leroy!” l’aveva salutato Daroux, quando era apparso sulla soglia. Il procacciatore sembrava non essersi neanche mosso dalla posizione in cui l’aveva lasciato l’ultima volta che si erano incontrati. Portava ancora calze gialle.

“Sta molto bene tutto rasato. Se mettesse degli occhiali adeguati, sembrerebbe proprio una specie di Bud Weiser” lo aveva apostrofato l’ospite, accogliendolo con un gesto d’invito ad avvicinarsi.

“I capelli ricresceranno presto, Daroux; e io non voglio somigliare a nessuno”, aveva sbrigativamente risposto Leroy.

“Bene, questo depone a favore suo e della sua nuova identità!”

“Non voglio neppure una nuova identità!”

“Ma io ho cominciato già a muovere le mie pedine e a fare delle accurate ricerche; anche in archivi alternativi, diciamo così, Scott.”

“La pagherò ugualmente, Daroux; ma lasci perdere la procedura: ora voglio solo avere delle informazioni. I miei soldi saranno più che sufficienti per questo!”

“È vero; anzi ci guadagnerò. Ma su che cosa vuole avere informazioni?”

“Ha saputo qualcosa di mio padre? Mio padre è ancora vivo, vero?”

“Ahimè! Proprio no, temo. Ormai.”

“Cosa vuol dire, Hector?”

“Voglio dire che ormai dovrebbe farsene una ragione: sono trascorsi più di vent’anni da quando suo padre è stato assassinato.”

Scott Leroy era ammutolito e guardava con occhi spenti l’indice di Daroux, ancora una volta puntato contro di lui.

Adesso ricordo meglio: quell’uomo che sta reagendo troppo sguaiatamente non è mio padre. Inarca indietro il capo chiudendo gli occhi.

Spalanca la bocca enorme.

Quell’uomo nonpuò essere mio padre. Chi mai potrebbe essere condannato ad avere un così tremendo ricordo di suo padre?

Ora metto a fuoco meglio la scena: sul pavimento c’è una macchia rossa che si sta espandendo.

“Per ridare un’altra identità ad un individuo, bisogna che costui abbia ben chiara la sua, per riuscire a conoscere da cosa vuole fuggire veramente. Io ho dovuto faticare non poco, per convincere il dottor Paxton a condividere con me almeno alcuni dei segreti professionali accumulati nei suoi riguardi, Scott. Lo vada a trovare. Stenterà a riconoscerlo, ma è in via di guarigione e la lingua ancora ce l’ha.”

L’indice del procacciatore aveva continuato ad agitarsi verso di lui, mentre proseguiva:

“Forse il dottore si deciderà a comportarsi da amico e le dirà tutta la verità. Io non l’ho trattato propriamente come tale, e comunque a me ha detto tutto quello che sapeva!” aveva concluso Daroux, con un ghigno sarcastico sul volto.

Figura sulle scale

Gli era costato molto: buona parte del suo orgoglio residuo. Ma si era deciso a ritornare dal dottor Paxton e a ripercorrere ancora una volta quelle scale come aveva fatto per tanto tempo, nel periodo della sua analisi.

Mentre stava risalendo il penultimo piano, aveva visto svolazzare nel vuoto al di là della ringhiera un foglio di giornale che scendeva verso il basso ballonzolando, come attaccato ad un filo invisibile. Così aveva fatto in tempo a distinguervi una foto innocente, come tante pubblicate sulle prime pagine dei giornali. Ma questa gli aveva esibito una somiglianza casuale, che andava al di là della quotidianità e lo aveva precipitato nel passato remoto.

Sono ancora piccolo e vedere sul giornale la mia foto insieme a quella di mio padre mi fa battere forte il cuore.

Un signore dietro una scrivania mi parla, con un distintivo in mano e una grossa pistola agganciata alla cinghia dei pantaloni. Mi ripete che devo dire la verità, perché se la dico tutti saranno più buoni con me.

Ma io non so cosa dire.

“Cosa le posso dire, signor Leroy?”

Il dottor Paxton era seduto sulla solita poltrona bianca, ma parlava lentamente e a bassa voce. Aveva il volto tumefatto. Un occhio era completamente chiuso e le labbra erano mostruosamente gonfie, tanto che a malapena riusciva ad aprirle per parlare. Inoltre aveva il braccio sinistro sospeso al collo e la mano completamente fasciata.

“A mia discolpa posso solo affermare che nei casi come il suo, quei casi che noi psicanalisti definiamo di rimozione fobica, cerchiamo di far pervenire il paziente alla verità gradualmente, perché è stato egli stesso a rimuoverla per tanti anni, ossessionato dalle proprie paure per le conseguenze di ciò che ritiene di aver fatto o di non aver fatto.”

A questo punto il dottor Paxton aveva sospirato, interrompendo il discorso. Successivamente lo aveva scrutato attentamente negli occhi.

Infine, stimando si fossero venute a creare le circostanze opportune, aveva ripreso a parlare. A lungo.

Tre figure sulla soglia

Tanto tempo prima, un adolescente allampanato aveva sentito dei rumori e delle grida provenienti dalla camera accanto: aveva attraversato la soglia della sua cameretta, uscendone di corsa per bloccarsi raggelato su quella della sala da pranzo.

Sto scrutando dalla soglia. Vedo il corpo di mio padre rovesciato all’indietro sulla sedia. Ha la bocca completamente spalancata. Ma non per le sue solite risate di scherno. Ha la lingua tumefatta, e un rivolo di sangue gli corre lungo tutta la guancia destra. Abbasso lo sguardo e vedo il manico scuro di un coltello da cucina spuntargli dal centro del petto.

Io ho gli occhi gonfi di lacrime per il dolore e per la paura. Mi avvicino e sosto qualche attimo davanti alla mole corpulenta di mio padre; successivamente, mentre mi accingo a togliergli il lungo coltello dal cuore, mi pare di vederlo sobbalzare, ridere ancora una volta ed afferrarmi per il collo. Ma è freddo e rigido come un blocco di marmo, così continuo ad estrarre la lama, fino a che non è venuta fuori del tutto. Poi abbasso il coltello, osservandolo. Delle grosse gocce di sangue sgocciolano dalla lama e vanno a depositarsi in una macchia sul pavimento, che si allarga sempre di più con un orrendo pulsante stillicidio.

“Scappiamo, figlia mia! Perché sei ritornata indietro? Oh mio Dio, perché sei ritornata indietro? Non guardare, ti prego! Non guardare più!”

Queste urla di disperazione erano state emesse da una figura avvolta in un cappotto rosso, avvicinatasi anche lei sulla soglia, mentre abbracciava una bambina che già si era portata davanti alla soglia, qualche minuto prima.

Io mi volto a guardare indietro, cercando l’aiuto di qualcuno; ma vedo soltanto due figure uscire di corsa dalla porta di casa spalancata: una indossa un inconfondibile cappotto rosso.

Figura con monitor

Bud Weiser, come aveva fatto già tante volte in precedenza per carpire i segreti dei pazienti del dottor Paxton, si era nascosto nell’altra stanza e si era sistemato ad assistere a tutto il lungo colloquio tra Paxton e Leroy, davanti a un monitor. Aveva lasciato accesa la telecamera posta nello studio ed aveva inserito l’audio; così, ad ogni particolare scabroso che avrebbe appreso, si sarebbe eccitato malignamente sempre più e la sua bocca si sarebbe spalancata in una sconcia risata.

Come gli era accaduto già in precedenza, si era messo a sproloquiare da solo di fronte allo schermo.

“Gli sta bene a quello stronzo! Paxton ha patito nel fisico, era ora che pure il signor Scott Leroy sapesse come stanno realmente le cose e soffrisse ancora di più nell’anima.”

Però, stavolta, erano state queste le uniche parole che Weiser era riuscito a dire, prima di sprofondare assorto al cospetto della dolorosa scena che proveniva dallo studio dello psicanalista.

“Allora, chi ha ucciso mio padre, dottor Paxton?”

Leroy gridava, per esprimere tutta la sua rabbia e il suo scoramento.

“È possibile che non l’abbia ancora capito?” gli aveva risposto sofferente l’altro.

“Lo voglio sentire chiaramente. Lo voglio sentir dire dal mio psicanalista!”

“Fu lei, Scott! Proprio lei.”

Louis Paxton aveva alzato anche lui, per quanto gli era stato possibile, il tono della voce, e queste poche parole erano cadute come pietre nell’ammutolito silenzio che si era di colpo diffuso nello studio, mentre i due uomini si fissavano vicendevolmente, quasi a sostenere ciascuno il peso della propria verità.

“Fu la sua mano di adolescente a conficcare quella lama fino in fondo, nel cuore di suo padre.

“La polizia fece un ottimo lavoro – aveva continuato con voce più bassa il dottor Paxton; – e così pure il giudice dei minori. Considerati i comportamenti e le responsabilità di suo padre in tutta la vicenda, per lei valsero tutte le attenuanti possibili ed immaginabili, e se la cavò con pochi anni di istituto correzionale; solo che lei poi ha dimenticato tutto, in un processo di rimozione progressiva, fino a giungere all’istanza imprescindibile di voler annullare la sua identità.

“Soltanto ora che sta cominciando ad accettarsi, i suoi ricordi stanno riaffiorando insieme alla verità” aveva affermato Paxton, con tono di voce tornato normale e quasi professionale.

Scott lo aveva guardato a lungo con commiserazione mista a disillusione, senza proferire parola. Poi si era alzato dal divano su cui si era seduto, stavolta senza mai sdraiarsi, e aveva detto:

“Dottor Paxton, lei crede troppo nelle possibilità delle sue conoscenze. È vero che i miei ricordi stanno piano piano riaffiorando, ma certo non insieme alla verità. Quello che sto riportando alla memoria non corrisponde affatto a quegli eventi che lei mi ha riferito e che mi ha fatto vedere poco fa, riportati sui giornali dell’epoca. Lei li ha ricercati e conservati, nel lodevole intento di guarire una buona volta il suo paziente; ma la mia versione dei fatti è completamente differente. E quello che mi sta tornando in mente non sta scritto su nessun giornale, e nemmeno sulla sentenza del mio processo!

“Il mio punto zero – nel dire questo Leroy aveva alzato significativamente gli occhi verso la telecamera e gli era quasi sembrato di vedere Bud Weiser mentre esultava scompostamente – è ancora lontano. Ma ora so dove cercare e come arrivarci.”

Figura con tubi

Hector Daroux lo aveva ascoltato pazientemente, stavolta senza nemmeno puntare per una volta il suo indice. Poi, dopo essersi aggiustato i pantaloni su quelle sue orribili calze gialle, si era alzato dalla poltrona, aveva indossato il soprabito e l’aveva accompagnato alla porta, uscendo insieme a lui.

Si era chiuso l’uscio dietro le spalle e aveva detto in tono amichevole:

“Scott, lei dice di stare per trovare il suo punto zero. Bene, dove si trovi precisamente questo punto lo può sapere prima o poi soltanto lei; però io posso condurla in un luogo che, secondo me, gli è vicino parecchio, anche se la costringerà a tornare molto indietro nel tempo.”

Erano discesi in strada e Daroux l’aveva fatto salire sulla sua auto, conducendolo in uno degli edifici più grandi e più antichi della zona. Erano entrati per l’ingresso principale, mentre decine di persone salutavano con molta deferenza Hector Daroux, che evidentemente con i suoi metodi si era fatto rispettare anche lì; in poco tempo, e senza che Daroux avesse dovuto sbottonarsi troppo, avevano trovato ampio ascolto e il tipo giusto che li aveva guidati nei vasti locali dell’interrato.

“Vede, signor Leroy? È proprio qui – aveva detto Hector Daroux, indicando con un largo gesto del braccio le pareti ed il soffitto del locale – che ho fatto le più approfondite ricerche sul suo caso. In questo scantinato pieno di tubazioni, c’è l’archivio di quello che lei ha visto essere uno dei più importanti quotidiani del paese. Sicuramente quello che si appassionò di più al suo caso, e andò più vicino di tutti alla verità. Io mi sono fatto una certa idea su quello che le è capitato, ma sarebbe bene che si leggesse tutti i resoconti di quell’epoca, per farsene lei stesso una sua propria. Un’idea un po’ più adeguata, diciamo così, a tutto quello che ha passato. Alcuni giornalisti coraggiosi si espressero, all’epoca, cantando fuori dal coro; e leggere oggi i loro reportage e le loro indagini parallele potrebbe essere molto interessante per lei. Non so se ho reso l’idea, Scott, ma ho paura che molti dei suoi problemi non siano ancora finiti; e questo sinceramente mi dispiace, visto il concetto che mi sono fatto della sua lealtà: almeno per quel poco che l’ho frequentata, mi è sembrato molto meno tocco di tanti altri. Adesso, io la lascio qui a scartabellare tra questi vecchi giornali del periodo dell’omicidio di suo padre.

“Spero che quando avrà finito, si sarà fatto un’idea sostanziale di chi veramente avrebbe potuto essere stato. A commetterlo.”

Dopo aver pronunciato questa frase enigmatica, Daroux l’aveva guardato in modo indecifrabile. Poi sorridendogli e portandosi due dita alla fronte per salutarlo, era sparito. E lui era rimasto da solo nella penombra dei tubi e dei fogli di giornale.

Ancora una figura nell’ombra

“Frances, fosti tu o mamma?”

“Che vuoi sapere, Scott? Che stai dicendo?”

Leroy si era passato nervosamente una mano sulla bocca sospirando e poi aveva ripreso a parlare alla sorella con tono più deciso, fissandola intensamente.

“Voglio dire che avevi ragione tu: papà è morto, ma non morì in ospedale!

“Chi uccise nostro padre, Frances? Fosti tu o la mamma? Ho ricostruito finalmente la scena cruciale di quel giorno tremendo. Fino ad ora avevo sovrapposto due immagini, invertendone la sequenza; ma ora so chi vidi per prima sull’uscio di casa aperto!”

Un bel giorno una donna vestita di rosso se ne va via di casa, portandosi dietro la figlia più piccola. È mia madre Margareth con mia sorella Frances.

Ora ricordo bene quella figura di schiena, i lembi del cappotto svolazzanti per la fretta di lasciarsi dietro le spalle le violenze terribili di mio padre, nella paura di ripensarci e di non averne mai più il coraggio.

Io l’ho vista andarsene dalla soglia della porta di casa dando la mano a mia sorella, e quella è l’ultima visione che sono riuscito a conservare di mia madre.

Però non è l’unica visione. Prima ce n’è un’altra.

Sono stato anni ad attendere che mia sorella ritornasse e spesso l’ho sognata di nuovo sulla soglia di casa.

Perché io l’ho già vista davvero su quella soglia. Da sola.

“Immediatamente dopo essere uscite per abbandonare la casa, la mamma stava per ripensarci, vero? Allora tu sei tornata indietro di corsa. Hai suonato, io ti ho aperto e ti ho vista. Mi sono tranquillizzato, pensando che anche la mamma sarebbe tornata di lì a poco, ho lasciato aperta la porta di casa e sono tornato a studiare in camera mia. Poi ho sentito tutto quel trambusto e le grida in sala da pranzo e sono tornato lì a vedere che cosa fosse successo. E quello che ho visto non era solo papà, ma anche la figura di mia sorella che gli aveva squarciato il cuore con un coltello e con la forza di un irrefrenabile odio infantile. Quando mi sono avvicinato al corpo per estrarre la lama, la mamma ti ha abbracciata e ti ha trascinata via. Io mi sono voltato e vi ho visto, per l’ultima volta, attraverso la porta di casa mentre fuggivate; ma solo dopo che tutto era successo.

“Dimmi, Frances, la mamma ha sempre creduto che fossi stato io ad uccidere papà, vero? E tu gliel’hai lasciato credere, no? Come hai fatto a giustificare la tua mano insanguinata?”

“Le ho detto che mi ero avvicinata per toccare papà, dopo che tu avevi vibrato il colpo.”

“E lei ci ha creduto?”

“Forse ha voluto crederci.”

“Perché avete permesso che mi condannassero e mi avete lasciato da solo? Come hai fatto tu, per tutti questi anni?”

Frances non tenta neanche di rispondermi: sa bene che è l’unica risposta che non potrebbe mai darmi. Specialmente dopo la morte della mamma.

A questo punto Frances si era avvicinata talmente a Scott da insospettirlo.

Frances tiene il braccio destro nascosto dietro la schiena.

Io l’ho già vista un’altra volta in questa posizione e so già che cosa stringe in pugno.

“No, Frances, ti prego, non farlo! Non farlo mai più!” aveva gridato Leroy, mentre si scansava per evitare il fendente direttogli contro, verso il centro del petto.

La sorella aveva urlato come un’ossessa avventandosi contro di lui, ma trovandosi all’improvviso senza bersaglio era precipitata in avanti, inciampando su se stessa e stramazzando al suolo.

Frances è sdraiata bocconi a terra davanti a me, e dalla sua gola fuoriesce un denso liquido di colore rosso vivido. La rivolto su se stessa e scorgo il manico scuro di un coltello da cucina che le si è conficcato nel collo. Io la chiamo, la chiamo; invoco il suo nome, ma i suoi occhi sono già completamente sbarrati. Impugno quel manico maledetto ed estraggo la lama velocemente.

Un fiotto di sangue schizza dalla ferita e inonda tutta la mia faccia china su di lei. Lascio cadere il coltello e mi guardo le mani imbrattate. Sento la mia bocca emettere un grido forsennato e fuggo.

Sto correndo a piedi verso l’autostrada.

Punto zero

Il volto di un uomo lordo di sangue si è sollevato al di sopra del guardrail; il suo sguardo è di nuovo smarrito. Sente un rumore lontano, come quello del tramestio di gente che si avvicina.

C’è un cane a pochi metri da lui e può ascoltarne il soffio regolare del respiro nel sonno profondo e sereno.

L’animale deve essere sopravvissuto ad una giornata di stenti, coronando il sogno di un riposo sazio e rilassato dopo aver attraversato un’autostrada, nella più completa oscurità come epica conclusione.

Gli sembra quasi di invidiarlo. Come si può provare invidia per un animale?

Ma che ci faccio qui, in piena notte?

Come ci sono arrivato su questa strada?

Ho creduto per un momento di aver ricordato tante e tante cose. Ma di nuovo tutto è ripiombato nella nebbia oscura della mia mente sconvolta. E ho la sensazione di aver compiuto lo stesso fatale errore per la seconda volta.

I rumori si sono fatti voci, voci di inseguitori: è me che stanno cercando?

Punto zero.

Cos’era il mio punto zero?

China il capo tra le mani, l’appoggia sulla cima del guardrail e sente sulla fronte il freddo umido del metallo. Poi l’uomo tenta ancora per una volta di ricordare il suo nome.



Echi

Prima eco

Luigino ha aperto l’uscio lentamente, per non fare rumore. Nemmeno un lieve cigolio. Sporge il capo con fare circospetto al di là della porta, trattenendola per la maniglia quasi come trattiene il respiro. Sente il gioioso baccano dall’altra parte della sala e, con un po’ d’attenzione, può sperare di non farsi scorgere. È piccolo, e in mezzo all’atmosfera festosa dei brindisi nessuno farà caso al suo ciuffo biondo che spunta dallo stipite bianco, ben lontano dalla tavolata.

I grandi non hanno voluto che lui ed Armando, il suo cuginetto più grande, rimanessero per l’ultima parte del banchetto matrimoniale. Si è fatto troppo tardi, e poi la fine della festa è sempre quella in cui si stappano le bottiglie più scure e più gelosamente conservate, quelle non adatte ai bambini. Così li hanno spediti su, nella sua cameretta, a dormire tutti e due nello stesso lettino; uno da capo e uno da piedi, come anni prima imponeva la mamma, a lui e a suo fratello, quando c’erano ospiti a casa.

Non osa andare oltre, ma già da lì riesce ad ascoltare le battute fatte ad alta voce, insieme alle risa dei parenti e degli amici.

Ormai tutti gli invitati sono abbastanza alticci da barcollare nell’accennare qualche prolungato passo di danza, al suono della fisarmonica di Michele il calzolaio. Addirittura lo zio Stefano, quello con i baffi più belli e più folti della combriccola, ha abbracciato forte la zia Liliana e la sta baciando sulla bocca, mentre entrambi ridono scompostamente, di un riso che va ben oltre l’allegria del ballo: c’è un altro significato che gli sfugge e non sa spiegarsi il motivo. Ma non se ne cruccia più di tanto; la mamma gli ha raccontato spesso, quando da piccolo piccolo stentava a riaddormentarsi dopo un temporale improvviso, come molte cose della vita, pur non avendo un senso comprensibile, siano perfettamente naturali. Però sa che il tono delle risate di zia Liliana e di zio Stefano, somiglia molto a quello delle risatine di sua sorella e del suo sposo; anche se queste, per la verità, gli sembra che abbiano una cadenza più elettrizzata ed impaziente.

All’improvviso sente un fruscio dietro di sé ed ha un sobbalzo nel vedersi a fianco Armando, che come lui non ha saputo resistere alla tentazione di assistere alla fine della festa almeno da lontano, ed è sceso di soppiatto al piano inferiore, in camera da pranzo.

Luigino osserva Armando che dirige lo sguardo verso i due novelli sposi con un sorrisetto malizioso, facendo capolino da dietro la porta. Poi il cugino si ritrae e si volta verso di lui per osservare la sua espressione perplessa; allora si porta una mano sulla bocca e si china per nascondere uno sghignazzo volgare.

I grandi, tutti i grandi, spesso sono volgari sapendo di esserlo. E suo cugino non fa eccezione.

Ma com’era splendida, oggi, sua sorella tutta vestita di bianco!

Seconda eco

La notizia è arrivata all’improvviso: un fulmine a ciel sereno, come gli ha insegnato a scrivere sui temi la maestra.

Luigino sa che una frase come questa ha un nome preciso: si tratta di una similitudine, e la usano spesso i poeti per descrivere qualcosa di così grande che non si hanno le parole adatte per farlo. Così come tanto grande è stato il dolore del babbo e della mamma nell’apprendere la notizia della morte di Lorenzo, un commilitone di suo fratello Alberto, da qualche mese entrambi volontari in missione di guerra all’estero.

Alberto e Lorenzo erano amici fin dall’infanzia e si sono arruolati insieme. Ora che Lorenzo non c’è più perché è saltato su una mina, la mamma e il babbo hanno paura che la stessa cosa possa succedere ad Alberto che si trova nella medesima zona di operazioni. E questo rende il loro dolore ancora più grande e preoccupato.

La maestra, qualche giorno dopo, ha insegnato a lui e ai suoi compagni di classe come talvolta sia necessario usare la forza militare, per riportare la pace in una terra straniera lontana o vicina che sia. Infatti i telegiornali le chiamano «missioni militari di pace». Però non ha saputo spiegare il fatto che un soldato come Lorenzo sia saltato su una delle mine fabbricate proprio dal suo paese, e disseminate in quella zona da altri eserciti stranieri in guerra tra loro, a cui il suo stesso paese le aveva vendute qualche anno prima.

Questa obiezione alla maestra gliel’ha fatta Luciano, che ha un padre che gli spiega tutto, anche nei momenti più difficili; e che nessuno vede di buon occhio perché dicono che è l’unico comunista dichiarato rimasto in paese.

Al momento di questa discussione in classe, Luigino si è voltato e ha visto, all’ultimo banco dietro di lui, Daniele, il fratello di Lorenzo, chinare la testa e mettersi a piangere in silenzio.

Allora Luigino, che pure vuole tanto bene a suo padre Alfredo e a sua madre Tilde, ha pensato che qualche volta, almeno per trovare le parole giuste, non gli dispiacerebbe avere un padre come quello di Luciano, anche se è un comunista.

Terza eco

La mamma è tutta contenta: sua sorella ha scritto una lettera per comunicare che aspetta un bambino per il prossimo anno. Anche il babbo è contento, ma non lo dà a vedere. Se la prende sempre con Fausto, il marito di Rina, che l’ha portata a vivere troppo lontana. Luigino pensa che quando due si sposano possono andare a vivere dove vogliono, anche lontano dalla famiglia, se no che si sposano a fare. Ma non lo dice; perché ha paura di dare un grosso dolore ai suoi genitori, ora che Alberto e Rina non stanno più con loro e che la mamma spesso gli ricorda che lui deve essere buono e bravo, perché è l’unico figlio che è rimasto a casa, vicino a lei.

Lui, una sera a cena, ha provato a domandare al babbo perché Fausto abbia portato Rina lontano, e siano andati tutti e due a vivere in un paese straniero. Il padre l’ha guardato sorpreso e gli ha risposto che è stata tutta una questione di soldi. Allora Luigino ha insistito chiedendo se Fausto avesse tutti i soldi all’estero. Il babbo gli ha fatto uno di quei suoi sorrisi che, a mano a mano che lui diventa più grande, si fanno sempre più rari; poi ha detto alzandosi dal tavolo e dirigendosi verso la camera da letto:

“No, Luigino. Fausto è andato all’estero a lavorare perché non aveva soldi; non ne aveva neanche qui e io non gliene potevo dare. Come non ho potuto darli a tuo fratello per farlo restare e non farlo andare soldato. Ecco perché ora Rina ci farà nascere un nipotino all’estero, e Alberto ha dovuto imparare a marciare in mezzo alle mine.”

“Allora un giorno, forse pure io dovrò andare in guerra!” ha esclamato Luigino, con un po’ di ansietà.

“No. Speriamo di no. Ecco perché ti dico sempre di studiare, Luigino. Chi studia può fare altri lavori che quello del soldato.”

Luigino ha pensato che babbo Alfredo stavolta gli ha parlato come avrebbe parlato il padre di Luciano.

Quarta eco

Luigino passeggia insieme a Luciano, vicino al greto del fiume. È felice perché tra qualche giorno il papà ha promesso che lo porterà a pesca proprio qui, insieme alla mamma, lo zio Stefano, la zia Liliana ed Armando. Ma ora sta attento ad ascoltare le parole di Luciano che, nonostante abbia solo qualche mese più di lui, sembra uno molto più grande; però senza prenderlo in giro.

“Mio padre dice che non si può fare la pace, senza fare un paese che la mantenga. E poi dice che un paese non si fa se non esistono tante persone che sono d’accordo sui principi fondamentali della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza; ma che per sentirci tutti liberi, uguali e fratelli ci dobbiamo anche sentire protetti dalla giustizia. Allora, in fin dei conti, se non c’è giustizia non c’è pace, perché senza quella giustizia non si crea nemmeno un paese che vuole e mantiene la pace.”

Luigino ascolta le parole di Luciano e poi chiede:

“Ma che cos’è la giustizia?”

“Giustizia è quando il tuo paese non fabbrica le bombe su cui vanno a morire i suoi stessi soldati. Magari per far fare i soldi proprio a quelle persone che fanno scoppiare le guerre a questo scopo, e che poi organizzano le missioni militari di pace per vendere non solo altre armi, ma anche altre cose che servono dopo una guerra, come fai conto: i letti, le case, i treni, le automobili; e che sempre loro producono. Così anche la pace dopo la guerra diventa una manovra economica. Mio padre dice che è un circolo vizioso, che si può interrompere solo con la conoscenza e poi con la volontà.”

“Ma in che modo, Luciano?”

“Vedi Luigino,” ha continuato Luciano facendo frusciare con la mano tesa le foglie delle felci che costeggiano il sentiero lungo il fiume, “ papà mi ha detto che giustizia è anche permettere alla maggior parte delle persone di sapere come stanno davvero le cose; e questa non è la conoscenza che ti danno la televisione e i giornali, o per lo meno non è solo quella. La conoscenza vera te la dà il parlare con gli altri, soprattutto con le persone più grandi di te. È questo parlare che ti fa comprendere le cose che non vanno, e ti dà pure l’entusiasmo e la volontà di cambiarle.”

“E dove lo pigliamo quest’entusiasmo?” chiede Luigino interessato.

“Io sono contento quando ascolto mio padre che mi racconta i fatti della sua vita, così come quando mio nonno mi raccontava quello che gli è capitato durante la Guerra Mondiale. Mio padre poi dice che quest’entusiasmo ce lo dà per prima la scuola e poi l’arte, che è insieme conoscenza e volontà alla portata di tutti, anche di quelli che non sanno né leggere né scrivere. Perché in definitiva, anche a guardare cose che non capisci, sei costretto a pensare; magari da solo, senza l’aiuto di nessuno.”

“E se non avremo queste possibilità neanche da grandi?”

“Allora ce ne andremo via. Papà dice che l’unico motivo per andarsene dal proprio paese è il desiderio di conoscenza”, conclude perentorio Luciano.

Luigino fa cenno di sì con la testa, però pensa che il suo babbo avrebbe aggiunto anche un altro motivo e immagina papà Alfredo che gli dice:

“Guarda Luigino, che se proprio te ne devi andare dal tuo paese, è solo per andare a fare un lavoro buono. Se no è meglio che rimani nella tua casa, accanto ai tuoi. Almeno finché saranno in vita.”

Quinta eco

Sono passati alcuni anni. Ormai Luigino è diventato un esperto consulente d’affari e lavora presso un’importante ditta finanziaria estera, ma sta per ottenere un contratto di collaborazione ancora più vantaggioso, con un’altra impresa molto più affermata sul mercato mondiale.

Qualche giorno fa è dovuto tornare nel suo paese per accompagnare al cimitero il feretro di suo padre. Luigino pensa che babbo Alfredo non si è mai mosso da qui e in fondo sarà felice di riposare in questa terra, anche se lui l’ha abbandonata senza troppi rimpianti.

Mamma Tilde, dopo le esequie, gli si è avvicinata in lacrime, insieme agli zii, ai fratelli e a Fausto che tiene per mano l’ultimo figlioletto John. La madre lo ha abbracciato forte forte, come quando era piccino, e anche lui si è commosso. Così le ha promesso affranto che si fermerà con loro, posticipando la sua partenza almeno di un’altra settimana.

Sulla strada verso casa, Luciano lo ha affiancato per porgere le condoglianze a tutta la famiglia. Durante questi anni si sono persi di vista, ma mai col cuore. A Luigino fa un grande piacere ritrovarselo ancora vicino, come quella giornata di tanti anni fa, lungo la riva del fiume.

Luciano li accompagna in silenzio per un po’.

“Che fai adesso, Luciano?”, si informa allora con gentilezza Luigino.

“Cosa vuoi che faccia? Insegno in una scuola in città e dipingo. Ho già partecipato ad alcune collettive, con un certo successo.”

“Già: l’arte è conoscenza e volontà, giusto?”

Luciano fa una risatina e dice:

“Vedo che le cose importanti te le ricordi.”

Luigino allora gli chiede sottovoce, con un sorriso complice:

“Sei sempre di quell’idea, eh?”

“Beh, con un padre come il mio cosa puoi aspettarti? Figurati che a luglio siamo scampati insieme per un pelo alle botte della polizia!”

Luigino non ha domandato di più, perché ha visto l’espressione di Luciano rabbuiarsi, come ad un ricordo doloroso.

Lui a luglio era negli Stati Uniti a discutere i termini del suo nuovo contratto, e non può sapere cosa sia successo a Luciano, qui in Italia.

Ultima eco

Mentre i ricordi del passato rispondono ad ogni eco della sua memoria, Luigino, nell’arco di un momento che sembra non dissolversi mai, rivede gli occhi buoni di mamma Tilde e di babbo Alfredo, di Rina ed Alberto, di Fausto e John, degli zii; e infine riode le parole di Luciano. Promette a se stesso che presto tornerà a trovarli tutti, ricacciando indietro la commozione con un filo di indefinibile rammarico.

Esce dall’ascensore che l’ha portato nel centro del centro del mondo e della sua vita.

Volge lo sguardo verso le grandi finestre di cristallo rischiarate dal sole e poi si ferma un istante a consultare il grande orologio sulla parete di fronte.

È in perfetto orario per la sua prima importante assemblea d’amministrazione.

Infatti, all’orologio del novantaquattresimo piano della Torre Nord del World Trade Center a Manhattan, sono da pochi minuti passate le otto di martedì 11 settembre 2001.



I racconti del Grande Cacciatore Bianco

Passaggio a Pretoria

Nel Congo c’erano aeroplani che sganciavano bombe sui villaggi africani. I villaggi africani non hanno difese contro le bombe. E i piloti non possono sapere su chi stanno sganciando le bombe. … Quei piloti che guidavano aerei pieni di bombe e le sganciavano sui villaggi africani, stavano massacrando donne, stavano massacrando bambini, stavano massacrando neonati. Qui, non avete sentito nessuna denuncia dei bombardamenti. …

Nessuna denuncia, nessuna solidarietà, nessun aiuto, nessun coinvolgimento, perché la stampa non aveva dipinto le cose con toni destinati a suscitare la vostra simpatia. Sanno come mettere una notizia in modo che voi ne siate coinvolti anche emotivamente, e sanno come metterla in modo che voi ne proviate ripulsa. Vi dico che sono maestri in questo. E se non sviluppate una capacità analitica di leggere fra le righe di quello che loro dicono, vi ripeto che costruiranno forni crematori. E prima di svegliarvi sarete in uno di quei forni, proprio come gli ebrei finirono nelle camere a gas in Germania. ….

Avevano chiamato dei mercenari, e quei piloti lo sono. Un mercenario non uccide perché è un patriota. Vi uccide per soldi che grondano sangue, è un assassino a pagamento. Questo significa il termine mercenario. Quelli sono capaci di assumere questi assassini a pagamento, metterli alla guida di aerei americani, con bombe americane, per sganciarle su villaggi africani, riducendo in pezzettini uomini neri, donne nere, bambini neri, neonati neri, e voi, gente nera, ve ne state qui calmi, come se la cosa non vi riguardasse affatto. Siete dei pazzi. Oggi lo fanno a loro, e domani lo faranno a voi. Perché voi e io e quegli africani siamo la stessa cosa. Lo chiamano un progetto umanitario e dicono che lo stanno mettendo in pratica in nome della libertà. ….

Poi prendono Ciombe. Avete sentito parlare di Ciombe. È il peggiore africano che sia mai nato. Il tipo più spregevole che sia mai nato. Lui stesso è un assassino. È l’assassino di Lumumba, il precedente primo ministro, il solo primo ministro legittimo del Congo. …

Quando giocate a pallone e vi hanno intrappolato, non tirate via la palla, la passate a quello dei vostri compagni di squadra che è libero. Questo fecero le potenze europee. Erano intrappolate nel continente africano, non potevano restare lì; erano visti come colonialisti e imperialisti. Quindi dovevano passare la palla a qualcuno la cui immagine fosse diversa, e passarono la palla allo Zio Sam. Lui la raccolse e da allora ha continuato a correre. Era libero, non era visto come uno che avesse colonizzato il continente africano. A quell’epoca, gli africani non potevano capire che sebbene gli Stati Uniti non avessero colonizzato il continente africano, avevano colonizzato ventidue milioni di neri in questo continente. Perché noi siamo tanto completamente colonizzati quanto qualsiasi altro popolo colonizzato.iv

Malcom Xv

Getsemani

Nella notte senza luna, Tsambei, Nduga e Isike scrutavano, accovacciati dietro il muretto di mattoni di fango essiccato, la luce gialla che trapelava attraverso una delle finestre dall’interno della baracca. Trattenevano istintivamente il respiro, per paura che i bianchi di guardia potessero accorgersi di loro. A quella distanza, dell’interrogatorio che si svolgeva dentro, potevano percepire solo suoni indistinti; e, ogni tanto, colpi sordi e lamenti soffocati. Ma, tutti e tre i bambini, avevano sufficiente esperienza dei metodi dei mercenari per immaginarselo.

Sinedrio

Il nero fissò il mercenario biondo davanti a lui, mentre un rivolo di sangue gli sgorgava dagli angoli della bocca. Un nugolo di braccia lo serrava alle spalle e al collo, bloccandolo sulla panca posta di fronte al tavolo dietro cui era seduto il suo inquisitore.

“In quali villaggi si sono rifugiati? Si decida a rispondere, una buona volta!” sibilò pieno d’ira costui.

“Gliel’ho già detto: in tutti e in nessuno,” rispose con un filo di voce l’inquisito, respirando affannosamente.

“Cosa vuol dire: ‘in tutti e in nessuno’? Non mi faccia perdere la pazienza. Non creda che abbia terminato il mio repertorio di atti di persuasione. Finora ha sperimentato soltanto quelli più amorevoli.”

“Come potete pensare che, quanto è accaduto in questi anni nel nostro paese, sia dipeso solamente da me e dai miei seguaci? Ma siete ciechi? Non capite che io sono solo un servo della volontà di tutto un popolo, destinato infine a riscattarsi. I miei seguaci sono tutto il popolo, ed allora essi si trovano in tutti e in nessuno dei nostri villaggi.”

Il biondo alzò lo sguardo verso i subalterni che attorniavano e immobilizzavano l’uomo e fece un gesto con la mano. Uno di costoro digrignò i denti in un sorriso malvagio. Il nero rabbrividì, ma sentì pure il suo spirito animarsi di coraggiosa rassegnazione: si era sempre chiesto come sarebbe stato capace di comportarsi, quando fosse arrivato all’ultimo atto. E adesso che sentiva ormai le sue forze abbandonarlo per sempre, era il momento di essere all’altezza della parte che gli era stata assegnata dal destino.

Lo afferrarono per le braccia e gliele stesero di colpo sul tavolaccio, facendogli sbattere con violenza il viso che prese a sanguinare anche dal naso. Schiacciato a faccia in giù per le spalle e le braccia, era riuscito appena a voltare la testa per liberare la bocca e respirare, quando, proveniente dall’altro lato, sentì il rumore di una porta che si apriva; dei passi si avvicinarono e qualcuno gli bloccò il palmo della mano sinistra aperto sul legno. Un tramestio, qualche risata; poi avvertì un colpo appuntito e un dolore lancinante attraversare tutti i suoi nervi spossati. Infine, pacificatore, il buio.

Prima che il gallo canti

La vecchia Land Rover scoperta caracollava sulla strada sterrata, zigzagando di qua e di là per evitare le buche fatte qualche giorno prima dalle bombe dei mortai; il guidatore, un uomo sulla cinquantina, con le maniche della camicia a quadri arrotolate e un logoro cappello da esploratore, fischiettava un vecchio motivetto francese reggendo con attenzione il volante.

La grande savana arborata, vicina alla provincia del Katanga, che lui stava percorrendo, era ormai diventata una zona pericolosa: soprattutto per gli unici bianchi imbecilli che, non solo non avevano osteggiato l’ascesa al potere di Lumumbavi, ma in qualche modo l’avevano salutata con simpatia e non si erano messi in affari facili e lucrosi con i secessionisti katanghesi, appoggiati dalle potenze occidentali. E di quei tre bianchi, lui era l’unico a poter ancora parlare: degli altri due, uno era stato fatto a pezzi a colpi di machete e all’altro erano state tagliate la lingua e le dita, in agguati tesi dai miliziani di Ciombevii a distanza di pochi giorni. Inutile dire che anche lui si sentiva adesso un po’ di fiato sul collo; così, prima che il fiato diventasse un affilato colpo di machete, aveva deciso di regalare quel poco che possedeva ai suoi amici del villaggio vicino a Kizamba e, approfittando degli ultimi sussulti di vita del motore della sua Rover, filarsela verso Luputa, attraverso la pista su cui ora procedeva, per inoltrarsi sulla camionabile che portava a Luluabourg. Da lì, con un aereo e con un po’ di fortuna, sarebbe arrivato a Brazzaville e poi a Pointe Noire, dove avrebbe potuto imbarcarsi sulla prima nave diretta in Europa.

Aveva regalato tutto, ma qualcosa aveva deciso di portare con sé: nel cassone della Land Rover, erano ammucchiati i ricordi che lo stregone del villaggio gli aveva lasciato durante gli anni della sua permanenza tra gli indigeni e ai quali si sentiva particolarmente affezionato. Si trattava di tre pitture su legno, coi colori vivaci delle antiche tribù del Kasai e con l’ornamento dei preziosi giunchi profumati che crescevano sulle rive del lontano Sankuru. Il vecchio Mwene gli aveva detto che quelle tinte e quelle canne, così intrecciate, portavano fortuna. Lui non sapeva spiegarsi ancora il perché, ma, in quel momento, non aveva potuto fare a meno di credergli, non appena aveva visto quei colori e quegli intrecci: era come se con essi fosse stata tessuta la trama di un destino più grande di tutti loro, invincibile ed eterno; che li avrebbe per sempre legati e a cui quelle tre figure avrebbero sempre fatto riferimento, in ogni luogo e in ogni tempo. Finito quell’improvviso lampo visionario di consapevolezza magica, lui aveva sorriso a Mwene; gli aveva baciato le mani, si era inchinato congiungendo con rispetto le sue e aveva sfiorato le tre pitture nel senso della larghezza, per comunicare al vecchio stregone che accettava con grande piacere il dono. Mwene aveva restituito il sorriso ma gli aveva anche detto, fissandolo intensamente con i suoi occhi profondi: “Ricorda, Philippe: oggi noi e voi portiamo gli stessi vestiti e sembriamo uguali, ma un tempo noi vestivamo diversamente; come ci vedi quando danziamo nelle nostre feste. E vivevamo diversamente: quando era buio e quando pioveva, nessuno ci costringeva a lavorare. Non potete pensare di rendere gli uomini uguali, vestendoli tutti alla vostra maniera. Dovevate rispettare la nostra diversità: io non so cosa potrà accadere, un giorno… Anche se da un po’ di tempo faccio degli strani sogni!”

Il vecchio aveva avuto ragione: erano passati appena due anni e lui ora stava scappando con tre tavole dipinte, buttate dentro al cassone del fuoristrada.

Il Grande Cacciatore Bianco

I misteriosi colori dell’alba, si stavano trasformando in quelli meravigliosi di un giorno terso e profumato di odori che lui aspirava con ebbrezza, non sapendo quanta aria d’Africa avrebbe potuto respirare ancora nella sua vita. E per questo guardava attentamente il paesaggio all’intorno, quasi a fissarne per sempre i contorni nella sua memoria. Fu grazie a ciò che poté notare le piccole camiciole colorate di tre marmocchi neri, che camminavano curvi e veloci nel fossato a lato della strada. Rallentò e si fermò poco dopo averli superati. Tirò il freno a mano e, senza spegnere il motore, scese dallo sportello di destra con un balzo agile per bloccare i tre bambini, che nel frattempo avevano accelerato la propria corsa.

“Fermi, paperi! Dove cavolo andate? Non sapete che qui c’è la guerra? Salite su, così vi riporto a casa!” li apostrofò burbero, ma con gli occhi era come se li stesse accarezzando. E poi quelle faccette avevano qualcosa di familiare…

I ragazzini si erano fermati sul ciglio del fosso e lo guardavano attentamente: il più alto si torceva le mani e lo fissava con evidente preoccupazione.

“Ma io vi ho riconosciuto, sapete?” fece lui in tono di rimprovero “Voi siete del villaggio di Gandajika. Lo stregone Mwene si arrabbierà moltissimo, quando saprà che vi siete allontanati così tanto da casa!”

Il più alto dei tre si fece coraggio e disse:

“Anche noi ti abbiamo riconosciuto. Tu sei Philippe, il Grande Cacciatore Bianco. E io sono Isike, e questi altri due Tsambei e Nduga. Percorrevamo con i nostri genitori e Dottore Lumumba i villaggi dell’est. I mercenari hanno ucciso tutte le nostre famiglie e noi siamo scampati per caso e li abbiamo seguiti di nascosto, mentre trascinavano via anche Dottore. Dopo un po’ abbiamo scoperto che l’avevano portato in una capanna di legno; e una notte da quella capanna abbiamo sentito colpi e urla. Solo noi, della sua gente, gli siamo stati vicini fino alla fine. Ma poi per la paura di essere scoperti, prima dell’alba, siamo scappati e non sappiamo dove l’hanno portato.”

Per riportarli da Mwene, lui sarebbe dovuto tornare indietro, e percorrere poi una zona ormai in mano ai mercenari; ma non c’era altro da fare, se voleva salvare i tre ragazzini. Si sollevò il cappello e si passò una mano sui capelli pieni di polvere e di sudore. Li guardò serio increspando le labbra e poi disse:

“Salite, non c’è tempo da perdere! Prima facciamo, meglio è!”

Batté significativamente un paio di volte sulla fiancata posteriore della camionetta; e mentre i bambini vi si arrampicavano per saltare dentro, li sculacciò uno per uno col cappello.

Crocifissione

“Cosa porti qua dietro, Philippe?”

La domanda lo aveva distolto dai suoi pensieri più degli scossoni della Land Rover.

C’era poco da stare allegri: una volta riportati al villaggio i tre ragazzini, lui avrebbe dovuto scegliere tra ripercorrere all’inverso la stessa strada, col pericolo di trovarsi circondato da nuove infiltrazioni di mercenari in un territorio da loro non ancora del tutto controllato, e conseguenti rischiosi posti di blocco; oppure cambiare del tutto senso di marcia e dirigersi a sud ovest con vari mezzi di trasporto, oltrepassando la frontiera del Sud Katanga e spingersi verso la parte orientale dell’Angola, mettendo in gioco, però, quasi tutto il denaro risparmiato in quegli anni.

“Sono doni di Mwene: pitture tribali che portano fortuna!” aveva risposto soprappensiero a Tsambei, il più piccolo, che aveva fatto la domanda.

Oltrepassata la frontiera angolana avrebbe raggiunto Munana e da lì avrebbe noleggiato un aereo e sarebbe potuto arrivare a Lusaka o addirittura a Salisbury; qui avrebbe chiesto a qualche spedizioniere, in cambio di assistenza al carico, un passaggio a Pretoria, se non avesse finito prima i soldi.

Ma, una volta a Pretoria, i suoi problemi sarebbero finiti, perché un bianco come lui avrebbe subito potuto guadagnare bene…

“Che cosa significano?” aveva interloquito Nduga.

“Sono intrecci di colori e vegetazione, simboli di antiche tribù della vostra terra,” rispose con pazienza Philippe, interrompendo definitivamente il corso dei suoi pensieri.

“Per me rappresentano il destino: le vecchie capanne con la luce gialla che si vede dalla finestrella, il lampo dei fucili dei bianchi e poi la crocifissione di qualcuno del nostro popolo. Non è così, Uomo Bianco?” disse con astio Isike, il più grande e il più intelligente.

“Ehi, che ti prende? Fino a prova contraria, nessuno dei vostri è stato mai crocifisso e io mi chiamo Philippe. E mi hai sentito chiamare così dai tuoi un sacco di volte! Che c’entro io con tutta questa follia? Ricordati che quello che paga i mercenari che hanno distrutto le vostre famiglie, ha la pelle nera come la vostra!”

“Sí, ma ha studiato nelle vostre scuole,” replicò secco Isike.

Philippe rimase interdetto per un momento, poi gli domandò:

“Che ne sai? Chi te l’ha detto?”

“Ce l’ha detto Dottore Lumumba, mentre lo accompagnavamo da un villaggio all’altro: e ci ha detto pure che i soldi coi quali Ciombe paga i mercenari, glieli danno gli uomini bianchi come te!” rispose di botto il ragazzo, scoppiando in singhiozzi nervosi.

Philippe non seppe cosa dire e sentiva salirgli un nodo alla gola. Teneva saldo il volante per evitare le buche come prima, ma non riuscì più a fischiettare; cercò pure di ripensare alle diverse possibilità del ritorno, ma non gli veniva. Ricordava solo la destinazione: Pretoria. Chissà perché? E come?

Avevano da poco imboccato la strada che attraversava per un lungo tratto il territorio del Katanga e poi ne usciva proseguendo verso Gandajika, quando videro in mezzo alla carreggiata un ammasso nero, brulicante di uccelli mangiacadaveri. Philippe ebbe il presentimento che quell’orrendo mucchio in qualche modo li riguardasse. Si accostò il più possibile per spaventare gli avvoltoi e farli volare via, ma non fu sufficiente: alcuni rimasero attaccati a quello che ormai appariva come un corpo umano. Suonò il clacson ripetutamente e stava per afferrare il fucile nascosto sotto il cruscotto, quando finalmente i rapaci si decisero ad abbandonare il banchetto. Lui e i ragazzini saltarono giù dall’auto e si avvicinarono con circospezione. Fece un gesto per tenere lontani i bambini, ma essi non gli diedero retta: mentre avanzavano, tutti fissavano con pietà e orrore quanto avevano davanti agli occhi. Gli uccelli si erano accaniti soprattutto con la parte inferiore del corpo straziato. Il torso, le braccia e la testa, seppure già morsicati, erano ancora riconoscibili: il tronco, con quanto restava delle gambe, giaceva prono sulla strada, ma le braccia e il viso erano schiacciati grottescamente su un tavolaccio, con i polsi legati e le mani inchiodate a palmi in giù.

Si sentiva il vento leggero frusciare in mezzo alle cime delle acacie lontane, mentre loro trattenevano il fiato. I profumi del giorno si erano dileguati e avevano lasciato il posto a un odore dolciastro di sangue e corrompimento. Lui l’aveva sentito spesso nella savana e nella foresta: lo spettacolo della morte rende simili uomini ed animali.

Nduga protese l’indice e ruppe per primo quel silenzio irreale, esclamando:

“È Dottore Lumumba, lo riconosco!”

Tsambei faceva di sí con la testolina.

“Sí, è lui. Togliamolo di lì,” disse Philippe con disgusto.

“Ora anche noi abbiamo il nostro Crocifisso,” sussurrò Isike, dando una sguardo al Grande Cacciatore Bianco.

Passaggio a Pretoria

“Vuoi proprio andartene, Philippe?” disse Mwene, posando una mano sulla spalla dell’uomo bianco, mentre Isike li guardava un poco discosto, nello spiazzo principale del villaggio.

“Sí, Mwene. Ho tardato anche troppo. Ma sono contento di aver riportato qui i bambini sani e salvi. Siatene orgogliosi: si sono comportati da uomini… Neri!” scherzò Philippe, stringendo la mano al vecchio stregone e incamminandosi verso il suo automezzo, parcheggiato poco lontano.

Isike aspettò che arrivasse vicino a lui e poi gli chiese:

“Sei sicuro di voler lasciare a me quelle pitture?”

Philippe si fermò un attimo, guardò a lungo il ragazzino, poi si abbassò davanti a lui e gli sussurrò, togliendosi il cappello e asciugandosi il sudore:

“In tutti questi anni, ogni volta che vedevo quelle pitture, sentivo dentro di me una grande emozione; ma tu hai capito che parlavano del destino del tuo popolo. Appartengono a te, Isike: cerca di comprendere con gli anni lo scopo per cui i tuoi avi le fecero, e ricordati che portano fortuna. Io non ho più tempo. Se ti comporterai come si deve, sentirò ancora parlare di loro, e sarò felice. Chissà, forse un giorno le rivedrò da qualche parte… A me non resta che rimediare un passaggio. Magari fino a Pretoria, eh? – e qui Philippe fece una risatina; poi, più serio, continuò. – Ma senti, ragazzo: Dottore Lumumba, dove l’avete sepolto?”

“Non diciamo mai dove seppelliamo i nostri morti. C’è il rischio che la voce si sparga e che gli uomini bianchi profanino anche le loro tombe.”

“Già. Hai ragione… Ma così, anche voi non ne saprete più niente!”

“Qualcuno viene sempre a sapere.”

Philippe lo fissò e gli sorrise un’ultima volta; si rimise il cappello e lo abbracciò forte. Poi, senza più voltarsi indietro, corse alla Land Rover, saltò dentro e partì.

Isike che non aveva mai smesso di guardarlo, sentì gli occhi inumidirsi e cominciò a sbracciarsi e a urlare con quanto fiato aveva in corpo:

“Addio, Grande Cacciatore Bianco! Addio! Addio, Philippe!”

E restò lì; a fissare la camionetta che si allontanava sobbalzando sullo sterrato che portava via dal villaggio, in mezzo a nuvole di polvere rossastra, sempre più piccole; finché non scomparve all’orizzonte.

La storia non è magistra

di niente che ci riguardi.

Accorgersene non serve

a farla più vera e più giusta.

La storia non è poi

la devastante ruspa che si dice.

Lascia sottopassaggi, cripte, buche

e nascondigli. C’è chi sopravvive.

La storia gratta il fondo

come una rete a strascico

con qualche strappo e più di un pesce sfugge.

Qualche volta s’incontra l’ectoplasma

d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.

Ignora d’essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.

Gli altri, nel sacco, si credono

più liberi di lui.viii

E. Montale

Questo racconto è stato ispirato, oltre che dalle opere di Claudio Marini, dal ricordo del film Seduto alla sua destra, di Valerio Zurlini.



Umani cascami

Non c’è nessun giusto, neppure uno.ix

S. Paolo

Mombasa 1965

Faceva particolarmente caldo quel giorno a Mombasa: troppo, per incoraggiare qualunque movimento superfluo, anche minimo. Di conseguenza Elijah Klostermann sollevò malvolentieri perfino gli occhi stanchi dal banco di lavoro. Si aggiustò gli occhialetti da presbite sul naso sudato e squadrò il nuovo venuto con curiosità mista a scetticismo.

“Come ha detto di chiamarsi, scusi?” chiese con aria mite al tipo che aveva disceso con timorosa circospezione i pochi gradini del seminterrato dove era situato il suo laboratorio di tassidermia, e che, per la titubanza mostrata nel rivolgergli la parola, non poteva certo definirsi un probabile cliente.

“Morgan. Mi chiamo Fletcher Morgan. Ho detto che sono felice di incontrarla e che mi hanno parlato molto di lei, Herr Klostermann” ripeté l’uomo appena entrato. Era biondo e prestante.

A Klostermann parve pure abbastanza giovane, poco oltre la trentina. Diede un’occhiata al biglietto da visita che quello gli tendeva, lo prese e lo posò con cura vicino alla rastrelliera dei ferri.

“Ah, davvero? Ma chi e perché?” domandò l’imbalsamatore, ricominciando ad infilzare con un ago le penne remiganti per cucirle sulle ali di un falco pellegrino, intorno ad un invisibile rivestimento di cuoio sottile già trapuntato all’interno del corpo mummificato del volatile.

“È stato due anni fa, a Pretoria. Feci la conoscenza di un certo Philippe Joubin o Joubert, adesso non ricordo bene, che di mestiere aveva fatto il cacciatore nel Congo. Affermava di averla conosciuta a Salisbury e che le sue parole gli avevano cambiato la vita: pensi che diceva di essersi messo a fare il pittore !”

Elijah Klostermann distolse l’attenzione dal proprio lavoro e la rivolse interessato all’uomo che aveva davanti a sé e che, in piedi, lo guardava dall’alto in basso ma con cortese deferenza. Poi si concentrò di nuovo sulla sua opera e disse in tono assertivo:

“Joubert. Si chiamava Philippe Joubert. Sí, me lo ricordo. Fu quattro anni fa, nel ‘61, che ci conoscemmo. Era appena scappato dalla regione congolese del Kasai, subito dopo la scomparsa di Lumumba e la secessione del Katanga, dove raccontava di aver assistito ai massacri più sanguinosi che avesse mai visto e di non riuscire a credere che gli uomini potessero arrivare a tanto. Sosteneva che solo i negri erano capaci di simili crudeltà. Allora io mi sentii in dovere di narrargli qualcosa del mio passato, per non lasciarlo in un tale equivoco.” Klostermann, dopo aver pronunciato queste parole, interruppe ancora il lavoro e si mise a fissare il suo interlocutore, chiedendogli:

“Che ci fa lei adesso a Mombasa, qui davanti a me, signor Morgan?”

“Vede, Herr Klostermann…”

“Mi chiami Elijah, il nome che mi diede mio padre. Mi sentirò più a mio agio, Fletcher” lo interruppe l’artigiano, soffiando sulla superficie del bancone e spolverandola con una mano, sbarazzandosi così dei frammenti di piume che svolazzarono sul pavimento.

“Sí, certo. Grazie, Elijah… Beh, insomma – riprese Morgan, – io rimasi colpito dalla personalità di un tipo come Philippe, che si era rivolto a me come suo possibile mediatore per un trasferimento qui in Kenya, proprio a Mombasa; e non le posso nascondere che anche le frasi allusive che dedicava a lei, senza però mai scendere in particolari, mi incuriosirono un bel po’. Volevo incontrarla: che tipo d’uomo poteva essere colui che era riuscito a cambiare così un altro uomo? Un cacciatore d’occasioni e d’animali, con pochi scrupoli e molto pelo sullo stomaco, che diventava in un paio d’anni un artista pensoso e turbato. Intendevo conoscere l’autore di una simile trasformazione.”

“Non sono mai gli uomini a cambiare gli altri uomini: sono le circostanze. Qualche volta i paesi, con i loro paesaggi e presagi. L’Africa è riuscita dapprima a cambiare me, e poi Joubert. Solo un americano come lei – è americano: non è vero, Fletcher? – si potrebbe porre il problema. Voi preferite cambiarli, i paesi!” Klostermann chinò gli occhi nuovamente sulla sua opera; rivoltò la carcassa del volatile e cominciò ad assemblare le penne caudali. Un odore di formaldeide si sparse per il piccolo ambiente, sospinto dal ventilatore che ruotava lentamente sul soffitto.

“Forse è così, Elijah. Ma per il tempo che frequentai Joubert, non lo vidi mai con un pennello in mano; tanto meno vidi qualche suo dipinto. C’era un po’ di mistero in lui.”

Il tassidermista sollevò lo sguardo, rimettendosi nuovamente a posto gli occhiali, e accennò un breve sorriso quando iniziò a spiegare:

“Joubert le disse la verità. Quando io lo conobbi, Philippe sentiva l’esigenza incontenibile di raccontare al mondo tutto ciò a cui aveva assistito nel Congo, con i propri occhi. E siccome non sapeva scrivere una parola, gli suggerii di usare la matita e il pennello, o qualsiasi cosa avesse ritenuto opportuna. Però aggiunsi che i suoi resoconti, chiamiamoli così, non sarebbero stati completi se avessero riguardato solo ciò che i suoi, di occhi, avevano visto. Avrebbe dovuto imparare ad esprimersi anche per gli occhi degli altri. Allora sí che sarebbe potuto diventare un artista vero.” Le dita dell’uomo intrecciavano adesso abilmente lembi di pelle disseccata, cuoio e piume, spennellando ogni tanto queste ultime con una sostanza ambrata, dall’odore pungente.

“Il Grande Cacciatore Bianco, come gli indigeni chiamavano Philippe – continuò Klostermann, – aveva visto per la prima ed unica volta delle pitture proprio lì, in Congo, e in età più che matura, quando lo stregone del villaggio dove viveva gliene aveva donate alcune, tra quelle tradizionali della sua tribù. Poi lui le aveva abbandonate, prima della fuga da quel paese, affidandole ad un ragazzino; almeno così mi raccontò. Ma mi disse anche che ne aveva sempre continuato a subire il fascino magico e misterioso.

“Gli dissi che lo invidiavo; anch’io avevo sempre voluto raccontare agli altri quello che i miei occhi avevano visto, ma non ne ero mai stato capace. Così lui si offrì di farlo per me, ma io posi una condizione: che mi stesse ad ascoltare e che alla fine del mio racconto riflettesse sul fatto che solo i negri potessero essere capaci di orribili massacri, e non anche i civili uomini bianchi. Non è così, americano?” concluse Klostermann, scrutando con un’occhiata ironica Morgan il quale, a disagio, abbassò per un attimo lo sguardo.

“Per un po’ di tempo ci frequentammo spesso: io fornii a lui l’ausilio della mia memoria, ed egli diede a me lo strumento della rappresentazione.” Il volto gli si era illuminato ed ora l’imbalsamatore guardava il proprio ospite con un sorriso sincero.

“Ma che cosa gli raccontò, se non sono indiscreto?” chiese l’americano.

L’espressione di Elijah Klostermann improvvisamente si rabbuiò ed il suo tono si fece duro nel rispondere:

“Non sono tedesco, come il mio cognome ha potuto farle ritenere. Io sono un povero piccolo ebreo polacco, esule in Africa da Cracovia e poi qui a Mombasa da Salisbury, quando anche lì agli inizi del ‘62 ha cominciato a tirare una brutta aria per quelli come me, in mezzo ai purosangue bianchi della Rhodesia.

“Ebbi la disgrazia di avere quarantacinque anni, un figlio di dodici, una moglie e un padre ancora in vita nel 1942, quando i nazisti erano padroni di quasi tutta l’Europa e cominciarono le deportazioni per la Soluzione Finale. Che cosa potrei aver mai raccontato ad un sincero aspirante pittore, signor Fletcher Morgan? Non ha mai sentito parlare dell’Olocausto?

“Siamo nel 1965: forse c’è già qualcuno che ne mette in dubbio la verità? Me lo dica. Perché, se così fosse, io potrei sempre ricominciare da capo il mio racconto. Finché vivrò. In ogni momento.”

La madre di tutte le barbarie

Fletcher Morgan guardò con una punta di compassione Elijah Klostermann e gli si rivolse con ancor maggiore riguardo chiedendo discretamente, ma parafrasando impercettibilmente il tono e le parole usati in precedenza dall’altro:

“Come è accaduto che lei si sia… che sia rimasto solo? Perché lei è solo: non è vero, Elijah?”

Klostermann sollevò la testa e Fletcher si avvide dell’improvviso immalinconirsi dell’ebreo e del luccichio umido apparsogli negli occhi.

“Non potei fare niente –  sussurrò sconsolatamente Elijah, scuotendo il capo. – Non potei mai fare niente. Neanche per mio figlio.”

L’ebreo distolse lo sguardo da quello di Morgan e prese a fissare la parete di fondo, come fosse uno schermo cinematografico.

“Ricordo ancora tutte le scene. E con la colonna sonora. I lampi dei proiettori delle camionette nella notte. Il bagliore dei fari delle locomotive che ci portavano via, tutti ammassati sui nostri escrementi; e la sete terribile dentro ai vagoni piombati durante gli interminabili giri viziosi della deportazione. Lo sferragliare dei convogli sulle rotaie. Lo schianto dei portelloni che si richiudevano. L’abbaiare furioso dei cani, il sibilo delle fruste e le urla delle donne separate dai propri figli. Il mio tese le mani disperato a sua madre chiamandola per nome e lei ebbe la forza di rispondergli calma e di suggerirgli di non allontanarsi mai da me, mentre la trascinavano via e le facevano brutalmente urtare le braccia e il viso che cercava di guardarci per l’ultima volta. Quel viso che, rivolto verso di noi conservò fino all’ultimo un’espressione dolce come quella di un ritratto di Vermeer. Fino all’ultimo.”

Klostermann tacque per qualche secondo nel silenzio interrotto dal ronzio delle pale del ventilatore e poi riprese:

“Dio, quanto deve avere sofferto! Lei che mi diceva sempre, negli anni felici, di come era contenta nel sentire la voce del nostro bambino rispondere ai suoi richiami per il pranzo. E anch’io non provavo gioia più grande di quando lo cercavo ansioso e lui dopo un po’ spuntava fuori da chissà dove e strillava ‘eccomi arrivo, sono qua!

“Un giorno, quando ormai eravamo stati portati tutti al campo di sterminio di Birkenau, lo vidi varcare a capo chino la porta nera della soglia di un capannone insieme ad altri ragazzini accusati di aver rubato delle patate. Io ero dietro una delle tante recinzioni di filo spinato che separavano le baracche dalle camere a gas. Mi avevano ridotto in uno stato tale che ebbi paura ; perfino di gridare il suo nome.

“Quella fu l’ultima volta che vidi mio figlio da vivo. Era la fine del ‘44 e mancava meno di un mese alla liberazione da parte dei Russi. Non aveva ancora quindici anni.”

“Come fa a ricordare tutto così… nitidamente?” chiese addolorato e stupito Morgan.

Elijah Klostermann continuò a fissare la parete al di là, senza rivolgergli lo sguardo nemmeno per un attimo, e proseguì:

“Poi alla fine della guerra, la folle logica dell’Olocausto, la madre di tutte le barbarie, mi impose lo strazio di vederlo di nuovo. Ne riconobbi il viso ed un braccio, ormai mummificati, che sporgevano da un osceno cumulo di cadaveri mentre, nelle condizioni io stesso di uno scheletro che ancora respirava, osservavo i russi costringere gli aguzzini superstiti a dissotterrare dalle fosse comuni quei corpi che non avevano fatto in tempo a incenerire nei forni. Per seppellirli finalmente in modo degno, ma soprattutto per filmare l’orrenda carneficina e trasformarla in prova giuridica contro gli sconfitti.

“A mio padre, appena arrivati ad Auschwitz nel ‘43, strapparono gli occhiali calpestandoglieli davanti ai piedi. Poi raccolsero la montatura dorata e la fecero sparire. Io ero a pochi passi da lui. Indossavamo ancora i nostri vestiti, anche se già ci era stato sottratto ogni effetto personale. Feci per avvicinarmi e prendergli la mano. Sapevo che senza i suoi occhiali da vista sarebbe stato comunque un uomo perso. Stavo per chiamarlo, quando il calcio di un fucile mi si abbatté sulla faccia spaccandomi la mascella e una voce infernale strepitò dietro le mie spalle. Credetti immenso il dolore, ma non sapevo ancora quello che avrei provato dopo. Mi rialzai, con una mano sulla bocca a trattenere il sangue, mentre lo portavano via urlando e strattonandolo perché si voltava per cercare di capire cosa avessero fatto a me. Lui, non lo rividi più.”

“Ma come può ricordare tutto così nitidamente?” insisté Morgan, con maggiore intensità.

Giudizio Universale

Elijah Klostermann parve risvegliarsi da uno stato di ipnosi. Scosse il capo e si strofinò l’indice sotto il naso, tirando su più volte. Poi si alzò dallo sgabello e si pulì le mani con il lembo inferiore del grembiule. Lo sciolse e se lo tolse di dosso, posandolo sul bancone, vicino al falco pellegrino ricostruito a metà e si sfilò gli occhiali.

Io vidi tutto questo – scandì lentamente l’ebreo. – Tutto questo ed altro. E lui lo fece.”

“Lui, chi? E che cosa fece?”

Io gli dissi di utilizzare qualsiasi cosa avesse ritenuto opportuna…”

“Elijah, ma…”

“… e lui mi parlò di una scena a cui aveva assistito sulla strada che percorreva insieme a tre ragazzini neri, per riportarli al loro villaggio nei pressi di Kizamba, prima di fuggire definitivamente dal Kasai. Forse solo qualche settimana prima di incontrare me, Morgan!”

“La prego, mi ascolti un attimo… Parla di Philippe?”

“Lui – proseguì imperturbabile Klostermann, – lui fu uno degli ultimi a vedere il corpo straziato di un martire… crocifisso e corroso a metà dalla morte e dalla bramosia affamata degli avvoltoi.

“Nonostante la cura che mio padre mise nell’impartirmi un’educazione religiosa, io non sono mai stato credente nel vero senso della parola; ma Philippe mi guardava disperato quando mi raccontò di questa sua esperienza, dopo che io gli avevo narrato tutti gli orrori delle mie, e credo che in quel momento egli cominciasse a credere, mentre io tuttora non ne sono capace.

“Mi guardava commosso e si rigirava il cappello nelle mani, passandosi ogni tanto le dita fra i capelli; diceva: ‘Sai, Elijah, che sensazione mi fece quel povero corpo disteso nella polvere davanti alla mia Land Rover? Quella di un rifiuto, di uno scarto, di un sottoprodotto di lavorazione della specie umana, di quella specie umana trionfante, quella che ha il denaro e il potere dalla sua parte, ma non la ragione e l’amore. Era un cascame, ecco cos’era! Un cascame umano! Ora so con che cosa rappresenterò la mia e la tua storia.’ Questo mi diceva. E quella visione non l’ha più abbandonato. Ecco perché…”

“Va bene: si tratta di Philippe Joubert. Ma che cosa fece, in nome di Dio?” quasi urlò Fletcher Morgan, mentre Klostermann continuava imperterrito, con voce sempre più emozionata:

“… lei, Fletcher, non riuscì mai a vederlo con un pennello in mano. Il pennello è fatto per la natura bella e incontaminata, per l’umanità buona e generosa… Ma quando mai? Quanto c’è di buono e generoso in quello che lui ed io abbiamo vissuto e visto? Gliel’ho detto, e mi dispiace che non l’abbia capito fino a adesso: lui fece quello che io vidi. Il suo fu un Giudizio Universale senza gli eletti! Dall’Acheronte fino all’Inferno della sua tradizione cristiana, ma senza passare per il Paradiso. Gli umani cascami non giungono mai in Paradiso. Sí, Philippe fece delle pitture! Una sola volta nella sua vita, prima di lasciare Salisbury qualche tempo avanti a me e scomparire; ma le fece. In pochissimo tempo, quasi di getto. E nessun altro, eccetto lui, seppe rappresentare in modo così – come dire? – adeguato il suo ed il mio dolore. E il dolore di quelli che verranno. L’Olocausto non finisce mai! Non ascolta la radio, non li legge i giornali, Fletcher? Non ricorda quel che è successo nel ‘56, in Ungheria e sulle rive del canale di Suez, tra popoli che hanno origini e tribolazioni comuni? Fu la celebrazione ritardata del decennale della fine della guerra o una splendida festa in onore di ogni genere di trafficanti? Come si può desiderare un futuro costruito sul sangue degli innocenti? E dove comincia e finisce l’innocenza? Non sa quello che è accaduto in Algeria, o che sta avvenendo nel Vietnam del Suddove non passa giorno che qualcuno si dia fuoco per protesta contro la guerra, come i monaci buddisti? Per non parlare dei massacri infiniti che insanguinano il Congo da qualche anno e che il nostro comune amico aveva conosciuto bene.”

Dopo un profondo sospiro Elijah Klostermann non riuscì a trattenere alcuni singhiozzi e piegò il capo in avanti, sopraffatto dai ricordi. Morgan gli si avvicinò e pose una mano sulla sua spalla, senza dire nulla.

“Grazie, Fletcher. Sapesse quante volte mi metto a piangere all’improvviso! Sempre da solo. Ormai ci sono abituato. Soltanto mentre lavoro non mi capita” disse Elijah quando si fu calmato un po’.

“Perché si è messo a fare l’imbalsamatore, e proprio qui a Mombasa?” chiese l’americano, più per allentare la tensione che per una reale curiosità.

Klostermann lo guardò con un sorriso. Aveva compreso la piccola ipocrisia dell’altro e gliene era grato.

“È più importante di quanto lei creda – spiegò, facendo finta di nulla: – ci sono creature così belle che è un peccato vederle svanire, e poi trattare le carcasse degli animali abitua al pensiero della fine. Propria e quella degli altri. Dà l’illusione che si possa sopravvivere, in qualche modo. Come un involucro senza più memoria.”

Fece silenzio, quasi a cercare suggerimento per le parole nel ritmico frusciare delle pale del ventilatore.

“Allora Salisbury… Mombasa… Qualunque altro posto… – riprese Elijah, dopo un momento in cui parve ricostruire mentalmente un ben più lungo itinerario. – Vede, Fletcher, credo che neanche uno dei sopravvissuti ai campi di sterminio si sia più sentito al sicuro, dopo ; da nessuna parte. Per quel che mi riguarda cercai di mettere la maggior distanza possibile tra me e la vecchia Europa.

“Ma ora venga. Forse sono stato rude con lei, che mi si è avvicinato con tanta gentilezza. Per farmi perdonare le farò vedere qualcosa che nessuno ha mai visto prima di lei, se avrà la bontà e la forza di seguirmi.” Così dicendo, Elijah Klostermann prese un mazzo di chiavi da una cassettiera posta vicino all’angolo del breve corridoio che si inoltrava nel retro della bottega, e lì dentro si incamminò insieme a Fletcher Morgan.

La Porta Nera

Si fermarono davanti ad una porticina. Klostermann aprì la serratura e l’anta girò cigolando sui cardini. Di nuovo un odore di formaldeide investì le narici di Fletcher Morgan. Si abbassarono tutti e due per oltrepassare la soglia di quello che aveva tutta l’aria di essere il magazzino del laboratorio.

Attaccate alle alte pareti laterali dell’ambiente in cui erano penetrati, molto più vasto di quanto le dimensioni della porta avrebbero potuto far supporre, c’erano decine di mummie di animali di tutte le specie e dimensioni impagliati a regola d’arte, tanto da sembrare ancora vivi e, i volatili, quasi sul punto di spiccare il volo.

Sulla sinistra vi era una specie di catafalco ricoperto fino a terra da un grande drappo di lino. A destra erano ammucchiati strumenti e utensili più o meno logori, insieme a recipienti e flaconi pieni in varia misura di liquidi dai colori più disparati. Nell’angolo a destra della porta, collocato al suolo, faceva mostra di sé un enorme e disordinato ammasso di filati di spessore, consistenza e colore diversi.

La parete di fondo era nascosta da un’ampia tenda di resistente tessuto cremisi, inanellata ad una sbarra di ferro che correva da una parte all’altra del locale, quasi all’altezza del soffitto.

Elijah si avvicinò al lembo destro della cortina e, afferratolo, lentamente prese a farlo scorrere nella direzione opposta, dischiudendo agli occhi di Fletcher Morgan uno spettacolo di tinte e fogge mai viste.

Sulla parete di fondo dal pavimento al soffitto erano sistemate, una accanto all’altra e in un ordine che sembrava seguire una logica narrativa, piccole e grandi tavole dipinte, caratterizzate da sbruffi di materiali e filati di risulta e da forme disuguali: alcune allampanate ed evocative, altre impregnate di colori vividi e avvinghiate su sé stesse nell’apparente, eterna circolarità di un ineluttabile e tragico destino.

Fletcher Morgan osservava a bocca aperta e stava per dire qualcosa allorché Klostermann, assunto un tono solenne, esclamò:

“Queste sono le opere di Philippe Joubert! E non si meravigli di vederle qui. Un pittore in fondo non fa che imbalsamare la realtà propria e quella degli altri, affinché la memoria non ne vada perduta. Esattamente come fa un tassidermista con gli animali più belli. Sapesse quanti esemplari di animali scomparsi ci sono là, attaccati su quelle pareti! In questo modo verrà conservato il ricordo del loro aspetto.

“Philippe utilizzò cascami di stoffe e materiali diversi per raccontare le sofferenze dei cascami umani che lui ed io incontrammo, e che noi stessi siamo diventati una volta sopravvissuti. Almeno io, sicuramente.

“E le carcasse dei miei animali non sono altro che cascami” concluse in un sussurro Elijah Klostermann, volgendosi a guardare Morgan.

L’americano si scosse e distogliendo lo sguardo dalla parete di fondo si voltò a sinistra, dove l’altro sembrava in attesa di qualche sua reazione.

“Non ci avrei mai creduto se me lo avessero raccontato – disse in tono estatico. – Ma quello che vedo, con tutto il rispetto, mi sembra ancora più chiaro e tragico delle sue parole e dei suoi racconti. Io vedo quella Porta Nera, e già so che è la soglia dell’anticamera delle docce dove migliaia di suoi correligionari furono sospinti…”

“Milioni” lo corresse Klostermann.

“… e poi – continuò immerso nelle sue considerazioni Morgan – l’Inferno, il Giudizio Universale dove non esistono gli eletti… e gli impiccati…”

“Alcuni venivano impiccati solo perché non avevano pronunciato forte e correttamente la parola ‘buongiorno’ in tedesco” sottolineò Klostermann, con lo sgomento e il rimorso di contarsi tra i sopravvissuti.

“E questo… Oh, mio dio! Questo rappresenta l’orrore della spoglia di suo figlio. Ma come ha potuto, Elijah?”

“Philippe capì. Io non credo nell’al di là, ma credo nell’insegnamento che la memoria tramanda. Forse altri uomini non commetteranno più una tale barbarie, pensando ai loro figli… O sono un ingenuo a crederlo?” si lasciò sfuggire Klostermann, fissando quasi provocatoriamente Morgan.

“Le sbarre delle prigioni…” elencò ancora Fletcher, senza raccogliere.

“È là dentro che ci torturavano; per un’inezia. E se eravamo fortunati.”

“La disposizione delle baracche, a Birkenau… In mezzo alla neve…”

“Questo era difficile. Come ha fatto ad indovinare?” ironizzò amaro Elijah.

“I fari del convoglio che si avvicina al binario…”

“Beh, questo era più facile. Continui. Lo vede che parlare con gli altri e ascoltare quello che hanno da dire aiuta a comprendere meglio i fatti!”

“La Ragazza con Turbante di Vermeer… Sua moglie!”

“Sí. Circondata da cascami. Prima che le fracassassero il viso sulla maniglia del vagone. Così come la ricordo quando ci guardò per l’ultima volta; nostro figlio e me!”

“Elijah, la smetta! Il suo è un angoscioso compiacimento.”

“No. Lei non ha capito niente. Voglio che tutto sia ricordato. Altrimenti le mie sofferenze non avrebbero alcun senso. Gliel’ho detto che non credo in nessun riscatto soprannaturale!”

“Basta, non ce la faccio più!” esclamò l’americano abbassando gli occhi.

Elijah Klostermann guardò con commiserazione Fletcher Morgan, ma continuò inflessibile:

“Allora proseguirò io. È lei che è venuto a chiedermi di Philippe Joubert e delle sue opere; delle frasi allusive che pronunciava sul mio conto! Ha detto ‘frasi allusive’, proprio così! Ecco a cosa alludevano… Guardi qui: questo è il fumo che usciva dai camini quando i forni funzionavano a pieno regime. È rosso, come il sangue di tutti quegli innocenti. E questo è quello che fui costretto a vedere, quando alcune guardie si accanirono con il calcio dei fucili su un mio compagno di baracca, esanime a terra: ma fecero bene, perché si era azzardato a chiedere una coperta, e invece tutti noi zitti ad accettare di morire dal freddo e di patire! Non sapemmo mai se stesse chiedendo quella maledetta coperta per sé o per il compagno di branda che sussultava e delirava per la febbre encefalica. Questo è il cappio realizzato con corregge di cuoio o con corde di pianoforte, a scelta del boia, perché strangolasse a rilento quei disgraziati che vi venivano appesi e che loro chiamavano ‘traditori del Reich’.

“Questa più grande, infine, è la Porta Nera attraverso la quale un giorno passeremo tutti. Come vede è ben più ampia e comoda di quella attraverso cui passarono mio figlio, mia moglie e mio padre!” A questo punto Elijah Klostermann si coprì il viso con le mani e si accovacciò, inginocchiandosi senza un lamento.

L’americano se ne va

Fletcher Morgan era scosso da un tremito profondo. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma fu ancora una volta sorpreso dalla reazione di Klostermann, il quale si rialzò in fretta ricomponendosi accigliato ed imbarazzato; poi lo prese per un braccio e, mentre lo riaccompagnava nel laboratorio chiudendosi la porta del magazzino alle spalle, gli disse:

“Sono dispiaciuto per essermi lasciato andare così. Ma un uomo nelle mie condizioni ha sempre paura di non farsi comprendere fino in fondo. E poi lei, Fletcher, è stato il primo occidentale a interessarsi e a discutere con me con un po’ di partecipazione, da quando sono qui a Mombasa. I negri, loro sí, mi parlano. Non sono disturbati da uno come me. Ma i negri è come se avessero ciascuno il proprio dio personale: che cosa vuole che gliene importi se io sono ebreo invece che protestante, eh?” Klostermann si interruppe per ridacchiare.

Morgan si accorse però che l’altro era ancora agitato. Decise di cambiare discorso e di chiedergli se avesse avuto nel frattempo notizie di Philippe. Era quella, tra l’altro, una delle ragioni per cui si era mosso da Pretoria ed aveva affrontato il lungo viaggio verso Mombasa.

“Elijah, la prego di non preoccuparsi per me. Piuttosto, ero convinto che sapesse darmi qualche notizia di Joubert, visto che lui era a conoscenza del suo trasferimento qui e che a Pretoria mi aveva contattato proprio per poterla raggiungere. Del resto il suo recapito mi fu dato da Philippe in persona.”

L’espressione di Klostermann si fece perplessa e la sua figura minuta si irrigidì.

“Sí, è vero – spiegò. – Lui era al corrente del mio indirizzo qui a Mombasa perché gliel’avevo comunicato io: quando ci conoscemmo, già da tempo stavo organizzando il mio trasloco in questo laboratorio. Ma Philippe era un uomo dalle decisioni improvvise, e per andarsene da Salisbury non aspettò la mia partenza, nonostante tra di noi ci fosse ormai dell’affetto. Tagliò la corda qualche settimana prima. Alla fine del ‘61 se ne andò, e di lui non ho saputo più nulla. Adesso, perché me lo ha detto lei, so che nel ‘63 si trovava a Pretoria. Vivo.”

“Forse prima o poi se lo vedrà ricomparire davanti, non è possibile? A volte ne parla come se fosse morto. E invece certi uomini non dovrebbero mai scomparire.”

“Con uomini come lui non si può mai sapere. Ad ogni modo, come ha visto, prima di andarsene mi consegnò tutte le sue pitture. ‘Le lascio a te – disse. – È come se le avessi fatte tu, coi tuoi racconti. Io non saprei neanche dove tenerle.’ Non pensavo che potessi ancora voler bene ad un essere umano; però, quando non lo vidi più nel mio negozio di cianfrusaglie, giù a Salisbury, per la prima volta dopo tanti anni si rinnovò in me il dolore causato dalla privazione della presenza di una persona. Anche per questo affrettai la partenza, e venni qui a mettere a frutto le mie conoscenze professionali, con il grosso e costoso carico delle sue pitture al seguito, utilizzando buona parte dei miei risparmi. Ma ne è valsa la pena. Le sue opere sono molto di più che un ricordo. E adesso, in qualche modo, sono riuscito ad attenuare la malinconia.”

“È bello quest’uccello che sta impagliando – osservò con ammirazione Morgan, al tacere dell’altro. – Quando ha imparato la tecnica della tassidermia?”

Klostermann, che aveva inforcato nuovamente gli occhiali e indossato il grembiule, riprendendo il lavoro seduto dietro al proprio banco, per un po’ non rispose continuando a incollare piume sulla parte anteriore del falco. Poi disse:

“Ad Auschwitz costrinsero alcuni di noi a fare i becchini. Io sono curioso e imparo molto in fretta. Il resto se lo può immaginare. C’erano dei gerarchi nazisti così fanatici che volevano essere imbalsamati, prima di essere seppelliti. Ecco perché mi permisero di sopravvivere così a lungo… Ma lasciamo perdere.”

“È vero, mi scusi” si affrettò a convenire Morgan.

Poi, dopo un paio di minuti di silenzio in cui si era soffermato a contemplare le abili dita dell’ebreo muoversi, l’americano disse con tono dispiaciuto:

“Beh, signor Klostermann è giunto il momento di separarci. Ho degli affari da sbrigare qui a Mombasa e domattina presto devo ripartire. Sa: carbone, petrolio e compagnia bella. Un mediatore come me è sempre costretto a mischiare piacere e dovere.”

“Ammesso che sia stato un piacere starmi ad ascoltare” disse Elijah scuotendo mestamente il capo.

“No. Non è stato un piacere. Ma può essere certo che non dimenticherò mai quello che mi ha raccontato. E io lo racconterò ad altri. Glielo prometto. Credo sia questo ciò che lei vuole di più.”

“Sí. Grazie, Morgan. Non sempre le immagini sono sufficienti. Il suo racconto si accompagnerà alle pitture di Joubert. E forse le sue parole, con i cascami di Joubert, salveranno ancora almeno una vita da qualche parte, ed eviteranno tante altre sofferenze. C’è probabilmente un Olocausto da contrastare dovunque.”

Fletcher Morgan si alzò dalla panchetta posta accanto al banco e strinse con vigore la mano a Klostermann, dicendo nell’accomiatarsi:

“Elijah, il mio indirizzo è stampato ben chiaro su quel biglietto che le ho dato! Veda di scrivermi. Pure se Philippe Joubert non dovesse più farsi vivo. D’accordo?”

“D’accordo, Fletcher” acconsentì Klostermann, con un sorriso.

Poi accompagnò l’ospite all’uscita dandogli dei colpetti affettuosi sulla spalla, mentre ambedue fissavano la bianca strada polverosa che univa la città vecchia al porto di Kilindini.

Dopo essere andato via dalla bottega e aver percorso una ventina di metri, Morgan si volse indietro verso Klostermann che era rimasto a guardarlo sulla soglia e disse ad alta voce:

“Vedrà che un giorno o l’altro Philippe ritornerà, quando meno se lo aspetta!”

“Di lui mi è rimasto molto. Spero che abbia cose più utili da fare che venire a trovare un vecchio ebreo. E la stessa cosa vale anche per lei! Addio, Fletcher!”

L’americano sbottò in una sincera risata e rispose al saluto agitando una mano. Riprese a camminare verso il mare, mentre Elijah Klostermann lo guardò finché si fu definitivamente allontanato e poi rientrò nel laboratorio per concludere la sua opera, mormorando fra sé e sé:

“Molto. Molto più di quanto lei immagini.”

Il giorno dopo

Di buon mattino Elijah Klostermann si recò all’ufficio postale con un pacco sotto il braccio.

Era rassegnato ad una lunga fila, ma quel giorno fu fortunato e alle dieci uscì dalle poste. Senza alcun pacco.

Alle dieci e trenta stava di nuovo nel laboratorio.

Faceva ancora più caldo del giorno prima e lui si sentì insopportabilmente esausto.

Le pale del ventilatore continuavano a girare sul soffitto ed Elijah le osservò per un bel pezzo, stropicciandosi le mani sul grembiule. Poi, lasciando gli occhiali sul banco, si alzò e raggiunse il corridoio. Prese le chiavi dalla cassettiera e tornò ancora nel magazzino.

Si avvicinò alla tenda cremisi che il giorno prima non aveva avuto il tempo di richiudere. L’afferrò per il lembo esterno e la riaccostò accuratamente, aggiustandola con ambedue le mani davanti alle opere di Philippe Joubert, celandole del tutto alla vista.

Girò il capo di qua e di là, per osservare alle pareti tutti i suoi animali impagliati.

Ce n’erano alcuni molto belli, ma tutti erano inesorabilmente morti.

Poi si diresse al catafalco, sollevò un lembo del tessuto che lo ricopriva e guardò al di sotto. A lungo.

Certi uomini non dovrebbero mai scomparire. Ripensò alle parole dell’americano.

Come i monaci buddisti nel Vietnam del Sud. Ripensò alle proprie parole.

Con un gesto lungo e meticoloso fece ricadere il drappo di lino e si spostò all’altro lato della stanza. Raccolse uno dei grossi recipienti che vi erano radunati. Lo aprì e ne versò tutto il contenuto sul pavimento.

Si sedette al centro della pozza e lasciò che il liquido intridesse a fondo il grembiule, i pantaloni, ed arrivasse a lambire il mucchio di cascami deposto nell’angolo alle sue spalle.

Adagio, per controllare il lieve tremore delle mani, prese una sigaretta dal pacchetto che aveva nella tasca della camicia e se la mise in bocca. Poi estrasse l’accendino e fece scoccare la scintilla.

Saigon 1975

Fletcher Morgan si arrampicò convulsamente insieme ad altri fuggiaschi, avventurieri, fotoreporter e falsi diplomatici incaricati d’affari, sull’ultimo elicottero alzatosi in volo dalla terrazza dell’ambasciata americana nel cielo in fiamme di Saigon, che stava per essere invasa dalle forze dei Vietcong.

Dopo meno di un’ora la bandiera statunitense fu ammainata e al suo posto sventolava quella del Vietnam del Nord. Ma Fletcher si sentiva ormai al sicuro, cullato dal possente rombo del Sikorsky da trasporto truppe.

Qualche giorno prima aveva preparato i bagagli e li aveva spediti in California tramite corriere espresso. Lui, che si era messo nel redditizio ramo degli armamenti, ne conosceva parecchi: sicuri ed affidabili, più o meno legali. Una volta tornato a San Diego, avrebbe sicuramente ritrovato tutto ciò che contava. Gli era costato un po’, ma era niente in confronto a quello che aveva messo da parte coi suoi traffici in quegli ultimi tre anni.

Un compagno di viaggio, mentre stava sistemando la sua borsa sulla reticella, fece rovesciare e cadere quella di Morgan.

Sul pianale del velivolo rotolò la sagoma spennacchiata di un vecchio falco pellegrino impagliato.

“Ehi, Fletcher, ma che ci fai con questo rospo? Te lo porti sempre appresso. Che è? Un portafortuna?” L’uomo rideva sguaiatamente, e urlava per contrastare il rumore del motore e le grida della ressa.

“Beh, mi piaceva – rispose Morgan a voce ancora più alta. – Per un po’ di tempo mi è piaciuto. Ma adesso mollalo al mitragliere. Digli che lo butti di sotto, in testa a qualche giallo. È solo un impiccio, ormai. E digli che prenda bene la mira!”

“Okay!” fece l’altro raccogliendo l’animale imbalsamato e sbarazzandosene.

Fletcher si sistemò meglio sui risicati sedili di tela; lì dentro c’era un caldo infernale e la più piccola mossa richiedeva uno sforzo intollerabile: faceva fatica a muovere perfino un braccio per accendersi una sigaretta. Ma dopo qualche gomitata a destra e a sinistra ci riuscì, e aspirò felice una boccata di fumo.

Ne aveva passate, e viste, di cotte e di crude durante i suoi viaggi. Questa aveva l’aria di essere stata tra le peggiori, ma a lui in tanti anni era cresciuta una pelle bella dura; e ce l’aveva fatta.

Sí. Ce l’aveva proprio fatta.



Ringraziamenti

Sono molto riconoscente a tutti quegli artisti che, con le loro opere esposte in mostra, hanno in parte ispirato l’invenzione e la stesura di questi racconti.

Li ringrazio tutti, in rigoroso ordine alfabetico:

Angelo Bellobono

Giovanni Campolo

Umberto Domenici

Pippo Fucsia

Gabriele Gabrielli

Claudio Marini

Giovanna Monaco

Fausto Roma

Natalino Sapori

Enrico Smith

i C. G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna; trad. Arrigo Vita e Giovanni Bollea, Edizione CDE S.p.A. – Milano, su licenza della Giulio Einaudi editore, 1991; p. 165.

ii F. Capra, Il Tao della fisica; Adelphi 1984; trad. Giovanni Salio; p. 105.

iii S. Kierkegaard, Stadien auf dem Lebensweg, trad. Schrempf-Pfeiderer, pp. 246-47; citato in N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol.V, La filosofia del Romanticismo, p. 193; TEA, ottobre 1999.

ivMalcom X, dal discorso tenuto a Detroit il 14 febbraio 1965; pubblicato in Contro il potere bianco, Manifestolibri 1995; p. 40 e segg.

vMalcom X, uomo politico americano (Omaha, Nebraska, 1925 – New York 1965) attivista e leader del movimento dei Black Muslims. Venne assassinato poco prima di prendere la parola in un’ennesima manifestazione ad Harlem. Le indagini si fermarono ben presto e i mandanti ed esecutori dell’attentato rimasero sconosciuti.

viPatrice Lumumba, nato a Katako Kombé nella provincia del Kasai nel 1925, fu il primo ministro del Congo ex belga dopo l’indipendenza (30 giugno 1960), fu ucciso in circostanze misteriose nel 1961, dopo la sua destituzione e la consegna alle forze secessioniste del Katanga, avvenuta il 5 settembre 1960.

viiMoïse Ciombe, uomo politico congolese (Musumba, 1919), fu a capo della repubblica secessionista del Katanga (11 luglio 1960), dove maggiori erano gli interessi delle potenze occidentali, opponendosi per lungo tempo, con un esercito di mercenari, all’opera di unificazione perseguita dal governo centrale congolese, subito dopo l’indipendenza.

viiiEugenio Montale, dalla poesia “La Storia”; in: Montale 41 Poesie, Arnoldo Mondadori Editore, I Miti Poesia, febbraio 1996; p. 62.

ix S. Paolo, Lettera ai Romani; 3, 10.