“Io l’ho guardata negli occhi quest’isola e quello che ho visto… è bellissimo.”
John Locke da “Lost” serie TV
Avvistamento
Dopo diciassette giorni di imprevista maledetta bonaccia e faticosa navigazione, oltrepassato dopo giorni e giorni il limite dell’Aequator verso l’Emisfero di Borea, e varcate poi le Barriere d’Hercules con la prua rivolta a nordest, una volta superata Punta Itteuladas di decine e decine di miglia, all’orizzonte a considerevole distanza dalla prora della nave erano improvvisamente apparse le Arche Marine: quelle di cui favoleggiavano plurisecolari diari di bordo marinari e i più recenti portolani dei navigatori degli ultimi decenni, alcuni dei quali si erano spinti eroicamente verso il lontano Mondo dell’Est, in direzione delle coste dell’Aithalìa.
Proprio quelle Arche naviganti che, pur nessuno avendo mai incrociato sulla propria rotta a riprova della loro reale esistenza, come le leggendarie Sirene delle quali avevano fantasticato e scritto antichissimi poeti, ora avvicinatesi cariche di pescatori gesticolanti, stavano incitando gli uomini del veliero del capitano Jorge Manuel Marquez, detto Manolo, a fare rotta con loro verso la costa di cui da lontano si intravedeva ormai la sottile linea bruna tra cielo e mare.
Poi, finalmente sotto costa dopo un avvicinamento di alcune miglia, il ripetuto responso degli scandagli confermò l’arrivo del basso fondale mettendo sull’avviso l’equipaggio: e allora, come un sol uomo, tutta la ciurma della nave esplose in irrefrenabili grida di giubilo allorché fu in vista dei bastioni e delle mura della rocca, dopo tanto lunga peregrinazione. Finalmente la terra. E che bella terra!
Dalle Arche i pescatori urlavano allegri, ritmando ripetutamente una cantilena all’indirizzo dei nuovi arrivati “È ‘O Forte, Castel Sangallo! È ‘O Forte, Castel Sangallo!”
Erano dunque pervenuti in quella celebre inesplorata insenatura che marinai del Socorro Andino asserivano di aver scoperto parecchi anni prima, dopo aver attraversato tutto l’Oceano d’Atlante, in una spedizione consimile e precedente alla loro, dei cui esiti si erano avute notizie episodiche e lacunose da parte di marittimi che affermavano di averne incontrato i pochi superstiti nei più svariati angiporti.
Il capitano Jorge Manuel Marquez, con un gesto deciso ed esperto, estrasse con rapidità la bitta più vicina dal suo alloggiamento sulla murata. Osservò la cima liberarsi oscillando e il contro fiocco distendersi lentamente verso l’albero di bompresso, alla poca forza del vento. Rise beffardamente e fece un fischio verso l’equipaggio radunato sul ponte per attirarne l’attenzione. Sollevò il cappello e si passò una mano sui capelli rossicci, madidi di sudore. Poi abbozzò un’espressione che, insieme alla chiarezza glaciale dei suoi occhi, trasformò quella risata scettica in un parlare dal sarcasmo scostante.
“Così andremo più veloci e vedremo presto da vicino quello che il signor Nostromo ha avvistato, e sgolandosi ha, con forse troppa sicumera, definito come «Terra!»”, tuonò con scherno derisorio.
Il nostromo Felipe De Nuñez, avvezzo alla focosa indole del comandante, fece finta di nulla aggiustandosi una ciocca ribelle dei suoi lunghi capelli corvini e continuò ad assuccare una gomena a babordo, poco lontano, come ipnotizzato dal chiarore del quieto mare all’orizzonte e dallo sciabordio delle onde sulla carena.
Alla Ricerca delle Mura del Baluardo
La scialuppa, calata poco prima dalla murata della nave, avanzava al ritmo calmo ma possente dei rematori che la governavano. Il suo lento procedere era inversamente proporzionale all’ansioso interesse del nostromo che, immobile a prua, fissava le due Arche che li scortavano a proravia.
Il rumore vischioso dei remi che si immergevano nel mare piatto metteva i brividi, allorquando interrompeva il silenzio dell’aria stagnante e il fruscio della chiglia, che si apriva un varco nell’acqua blu richiudentesi subito dopo con un gorgoglio sull’imperscrutabile abisso marino. Solo piccoli branchi di meduse opalescenti ogni tanto animavano l’azzurro di superficie.
I vogatori non facevano un fiato, nonostante l’intenso sforzo. Le loro espressioni erano indecifrabili, dopo le parole scettiche scaturite dalla bocca del capitano. E la curiosità per quello che era stato avvistato dal nostromo, non bastava a scioglier loro la lingua. Remare era sempre stato il loro destino. Non era certo la scoperta di una rocca misteriosa, seppure immersa in un panorama mozzafiato, che lo avrebbe mutato. Una rocca che come un serpente sinuoso dipanava le sue mura lungo tutto un Baluardo di grosse pietre di selce scura, impressionante per l’irresistibile sensazione di forza.
Però era la prima volta, dopo quasi cinque anni di navigazione da un ancoraggio all’altro, che l’orizzonte marino profumava di terra e, insieme a quello della terra, emanava un inebriante odore di vino.
Una Musica Sopravvento
Il nostromo, con un ginocchio poggiato sulla fiancata della scialuppa e l’altra gamba saldamente agganciata alla biscaglina penzolante dal barcarizzo di dritta, tratteneva con una mano la cima bianca, calcinata dal sole e dal salmastro, e con l’altra indicava verso le Arche che lo avevano rimorchiato, riportandolo di nuovo sottobordo dopo una prima sommaria esplorazione dell’attracco a terra. Con uno sguardo di muta rivincita osservava gli occhi interrogativi del capitano, che si sporgeva dal ponte di coperta del veliero.
Una foschia calda, di un lucore irreale, stava diffondendosi all’intorno e faceva risaltare le lastre nere dipinte e incastonate nei telai lignei delle arche, cullate dalla risacca. Ora pure il capitano poteva considerare da vicino quei messaggi misteriosi provenienti da un altro luogo e da un altro tempo. Per un attimo sembrò voler dire qualcosa al nostromo che lo squadrava dal basso, poi ci ripensò e sputò con un ghigno oltre la murata.
“C’è un ottimo porto, Comandante, e l’attracco è possibile. Abbiamo anche toccato terra per un rapido sopralluogo, prima di ritornare qui da lei alla nave. Come ci aveva ordinato, signore!”, disse ad alta voce il nostromo con finta noncuranza, rivolto al suo superiore continuando a guardarlo fisso coi suoi profondi occhi neri. “Dovrebbe scendere dalla nave e approdare anche lei. Il posto intorno alla Rocca e al Baluardo è interessante. Come anche i paesani che lo abitano, da quel poco che abbiamo potuto constatare. Il paese loro lo chiamano Nettuno, in onore del Dio del Mare delle antiche popolazioni Italiche che lo hanno fondato.”
Il comandante scrutò l’orizzonte verso la Rocca e il fortilizio del paese, ma pur incuriosito non disse nulla.
“Sopravvento, Capitano! C’è un arcipelago di alcune isole quasi uguali,” insisté l’altro con una punta di impazienza. “E, a miglia e miglia, un promontorio dallo strano profilo di donna. I paesani dicono che sarebbe quello di una maga che su quel monte dimorava secoli e secoli fa.”
“Oh andiamo, signor Nostromo! Lo sa bene che sono più di due secoli che tutte le terre emerse in questa parte dell’emisfero nord sono scomparse, inghiottite dalle acque. E poi, un tempo, in questi mari le isole si somigliavano tutte”, sottolineò il comandante con aria di sufficienza.
“Nossignore, nessuna allucinazione. Questo che lei dice sarebbe ciò che ci hanno voluto far credere finora le versioni ufficiali dell’Impero Marittimo di Socorro Andino. Ma evidentemente la realtà non è questa. In codesto tratto di mare meraviglioso non c’è soltanto la costa con questa Rocca che tutti noi possiamo vedere, ma anche isole che si stagliano all’orizzonte, davanti al profilo incomparabile di quel monte che si immerge nel mare. D’altronde lo scopo di ogni esplorazione non è la ricerca della verità?” ribatté il nostromo.
Il capitano aggrottò le sopracciglia e fece una smorfia, accingendosi a rispondere per le rime, più che alle enormità proferite dal marinaio, al suo tono venato d’insolenza.
Ma fu proprio in quel momento che il comandante percepì profumo di vino e una musica lontana provenire sopravvento e dalla costa.
Nature Morte
Dall’alto del promontorio il comandante Marquez esaminava la vasta pianura che si stendeva in basso, fino all’orizzonte terrestre verso nord, delimitato da una lontana catena di monti a nordest.
La pattuglia di esploratori sbarcati sulla terraferma era composta, oltre che dal capitano e dal nostromo, anche da sei marinai, di cui due esperti nell’antica arte del disegno, incaricati di riprodurre con esattezza sul portolano di bordo, durante il viaggio di ritorno al Primo Archiporto, la testimonianza diretta di quello che gli occhi di tutti loro avevano visto, senza infingimenti.
Si erano avvicinati per guardare meglio, e giù, al centro del bassopiano, nonostante il sole calante all’orizzonte, distinguevano nitidamente una rocca con un enorme barbacane a fare da baluardo a nordovest, in muto ed esplicito avvertimento per eventuali aggressori, tra due fiumi d’acqua limpida, che nel loro scorrere circondavano un sito premoderno, caratterizzato da un insediamento produttivo attribuibile alla fine del Ventesimo Secolo: nell’abbandono e nell’oblio giacevano intorno le suppellettili e le masserizie tipiche di quell’età, accompagnate da arcaici ed insulsi oggetti di consumo che, tuttavia, sembravano ancora recare l’impronta dell’intimità e della dimestichezza di coloro ai quali erano appartenuti.
Costoro sembravano aggirarsi ancora nei dintorni. Come se non potessero essersi allontanati da molto tempo…
“’Sto baluardo l’avemo fatto pe’ i saraceni, quanno ce rompevano ancora… Ma poi li Papi c’hanno messo mano e noi se semo tutti sarvati!” disse un popolano all’indirizzo della ciurma sbarcata per la seconda volta.
Il Capitano guardò interrogativamente il Nostromo, che rispose alla muta domanda indicando colui che aveva parlato e dicendo “Lui è Saw Saw, un falegname che potrebbe fare invidia ai nostri più celebri mastri carpentieri. Conosce molto di questo paese”, concluse il Nostromo dando un’occhiata significativa al perplesso comandante.
Figure nella Notte
La notte era sopraggiunta, ma la temperatura era rimasta piacevolmente mite. Avevano acceso un fuoco di legna, per la prima volta da molto tempo, solo per il gusto di ammucchiare rami e sterpaglie senza la preoccupazione di scialare. Vi si erano seduti intorno e avevano respirato l’aria della notte, impregnata d’odore di terra e d’erba. Riscoprivano con sorpresa infinita il frinire delle cicale, lo scintillio delle lucciole e il rumoreggiare del torrente poco lontano. “Quelli del luogo lo chiamano ‘O Fiumitto”, spiegò il timoniere Ignacio Salgado alla ciurma raccolta intorno al falò. “Mi hanno detto che da bambini venivano tutti qui a caccia di rane. Quelli dell’altra parte dell’insenatura li chiamano per questo Spellaranocchie, e loro rispondono appellando quegli altri come Scapocciasarde, per via della loro pesca preferita.”
Dopo un po’ i marinai disegnatori non resistettero alla stanchezza e all’emozione addormentandosi con la testa sui fogli di squame di pesce, nel timore che i loro abbozzi di quella natura terrestre, vista allora per la prima volta, potessero disperdersi inavvertitamente a causa della brezza mattutina del giorno dopo.
“Presto potranno ricominciare a disegnare su della vera carta!” esclamò con un sorriso il capitano, accennando ai marinai addormentati e volgendosi verso il nostromo, che fece di sì con la testa senza restituirgli lo sguardo.
“La cosa che mi ha impressionato di più è l’odore dell’aria”, proseguì il capitano sempre osservando il nostromo al suo fianco, il quale sorrise ma continuò a fissare il buio, senza dire nulla.
Passò qualche minuto in cui il crepitare delle faville fu padrone assoluto del silenzio della notte.
“Chissà cosa mai ci avranno voluto lasciar detto, con tutto ciò?” chiese come a se stesso il capitano, ma volgendo ancora una volta gli occhi all’altro.
Costui si scosse e decise finalmente di ricambiare l’occhiata. Poi, con un sospiro, si alzò e sparì al di là del falò, nell’oscurità.
“Questo proprio non lo so”, rispose il nostromo con una risatina, tornando poco dopo alla luce del fuoco. “Ma la rotta che abbiamo creduto di seguire per tanto tempo doveva essere tutta sbagliata!”
E, mentre faceva questa osservazione, Felipe De Nuñez sollevò con la mano illuminata dal bagliore delle fiamme un piccolo grappolo d’uva, mettendolo proprio sotto il naso del capitano Marquez. “Questi qui la chiamano Cacchione. E dicono che con quest’uva riescono a fare il vino più buono del mondo. Lo assaggi, Capitano!”
Domande
“Beh, in effetti non è male”, constatò il Capitano dopo aver assaporato il vino contenuto in una piccola botte che il timoniere Salgado aveva avvicinato a loro. “Ma di chi era quella musica che sentivamo prima?” domandò.
“Dovrebbe risalire all’anno 1976 dell’Era Cristiana”, intervenne a rispondere il mozzo Socrates, l’unico dell’equipaggio appassionato di musica accovacciato dall’altra parte del circolo, mentre le faville delle fiamme facevano scintillare il suo volto giovanile nella notte. “E un certo Fricanus pittore e musicista di qui me l’ha confermato”, continuò. “In quell’epoca Aeuphemjaan, uno dei dodici Arconti che allora amministravano la città, aveva installato altoparlanti che diffondevano musica durante le Feste Natalizie su tutto il lungomare, dal Castello fino alla Basilica che si vede laggiù in fondo, quasi sul mare. Tutti ricordano quella che abbiamo ascoltato come un’antica sinfonia dal titolo Shine On You Crazy Diamond, di una orchestra chiamata Pink Floyd. Hanno conservato come reliquie quei nastri magnetici e Belfortius, uno di loro, ne ha fatto una copia e ce la vorrebbe regalare. Ma io gli ho spiegato che andrebbe sprecata, perché da dove veniamo noi le tecnologie acustiche sono ormai molto più evolute e non avremmo i mezzi tecnici per riprodurla, come ancora fanno da queste parti. Così ci dovremo accontentare di questo bel ricordo che ci ronza nelle orecchie, per tutto il tempo che ci resterà da vivere, quando e se torneremo da questa lunghissima spedizione.”
“Nessuno di voi dubiti che torneremo in patria, ripetendo all’inverso la rotta dell’andata: quant’è vero che mi chiamo Jorge Manuel Marquez, detto Manolo!”, li incoraggiò con voce stentorea e determinata il Capitano. “Però prima di salpare le ancore per il ritorno, mi piacerebbe fare due passi per il paese.”
“Basterà aspettare il trascorrere della notte, e poi domani le faremo vedere tutto quel che c’è da vedere, Comandante! Stia sicuro che abbiamo già conosciuto le guide giuste”, lo rassicurò il nostromo Felipe De Nuñez.
Personaggi in Processione
La guida che Felipe aveva scelto per far conoscere il paese al capitano si chiamava Piccola Aquila. La minuta signora gestiva una sala giochi per adolescenti con antichissimi esemplari di flipper e calcio balilla, adibita anche a sezione di uno dei partiti politici attivi nel paese, ma ormai scomparsi da secoli nelle terre del Socorro Andino, da cui era partita la loro missione e le altre precedenti. Qui a Nettuno, oltre l’Oceano d’Atlante, chiaramente la politica era una tradizione dura a morire.
La sala giochi di Piccola Aquila si trovava sul lato orientale di una piazza selciata che i nativi chiamavano con orgoglio Piazza Colonna, dal nome degli antichi signori che un tempo avevano governato il paese. La piazza era caratterizzata da un viavai di ragazzini; alcuni di loro costruivano aquiloni di carta, appoggiati sui tavoli dell’ospitale Osteria del Centro, gestita dal generoso oste Aelius. Altri impugnavano piccole mazze di legno di forma regolare oblunga e grossi guanti a protezione di una delle due mani, destinata a raccogliere una piccola palla che veniva lanciata e battuta, durante le varie fasi di un gioco veloce e complesso.
“Prima di voi qui,” spiegò Piccola Aquila “alcuni secoli fa, vennero altri stranieri ad occupare questo nostro paese, nell’ultima fase di una tremenda guerra e ci hanno insegnato questo gioco che per loro era sport nazionale. Non so se quello sport esista più, ma noi qui lo pratichiamo ancora, fin da ragazzini. Maschi e femmine.”
Proprio mentre terminava la frase, dal campanile della chiesa vicina cominciò uno scampanio ripetuto e ipnotico, facendo volare stormi di rondini dai tetti delle case che si affacciavano sulla piazza.
“Ecco, è cominciata la Festa di Maggio!”, esclamò un uomo alto che si era affiancato a loro. “E adesso vado a casa a prepararmi, perché stasera mi tocca incollarmi la Madonna delle Grazie per la processione.”
“Lui è Christophorus” disse Piccola Aquila. “Fa il vigile, ma per la processione di maggio s’incolla la Macchina della Madonna per il doppio tragitto tra la Collegiata e la Basilica su tutto il lungomare, insieme ad altri undici, alti e robusti come lui.”
Verso le sei del pomeriggio cominciò la processione. La grande Macchina della Madonna delle Grazie si mise in moto dalla Basilica di San Rocco in direzione della Chiesa di San Giovanni tra due ali di folla in tripudio sul lungo viale principale, in mezzo all’odore di mare e di primavera. Le donne più anziane, coi capelli coperti da fazzoletti colorati annodati sotto il collo, salmodiavano con fede sincera “Mira il tuo popolo, o Bella Signora!”, impugnando grossi ceri accesi. Tutti si univano alla loro litania e molti piangevano di gioia, inneggiando alla Madonna, a suo figlio Gesù e a una certa Santa Maria Goretti, che doveva essere una Martire Cristiana molto venerata in quella zona, a cui era stato intitolato il Grande Santuario della Basilica.
Finita la processione, a sera inoltrata la folla si divise lungo le stradine laterali, chi per tornarsene a casa e chi per rimanere un altro po’ in giro a mangiare, bere e chiacchierare.
Fu a questo punto che il capitano e il suo equipaggio, passeggiando tra la gente, fecero la conoscenza di altri noti e amati personaggi della popolazione di quell’insolito paese: Ambrosius, lo stagnaro; Noah il droghiere; Donna Agnieta che vendeva pezzetti di liquirizia, chiamati «capoccioni», in un negozietto sul lato nord di piazza Colonna; Anghèlos il bagnino; Arditus la guardia notturna; Isidorus Porfiriòi grande mercante e mecenate benefattore; Theodoricus Ottolài il fornaio principale della zona; Parvus Humbertus il carbonaio; Candidatus il giornalaio zoppo; Charles Cutwoods campionissimo di baseball; Puk Puk, rumoroso tifoso del Nettuno Baseball, famoso per le sue frasi ad effetto: “Mettici ‘a chitara!” “Che pozza fa ‘a fine d’ ‘a carce: tutto ‘o giorno attaccato a ‘o muro!” indirizzate ai componenti delle squadre avversarie; soprattutto nei confronti di Louis Camerons, ricevitore del Mediolanum Baseball.
Nostalgie e Ricordi
Erano ormai arrivate le ore del distacco e tutto l’equipaggio si preparava al lungo viaggio di ritorno.
Già dal primo mattino, il capitano ed il nostromo erano di vedetta in coperta, appoggiati alla murata di babordo, per controllare l’attività dell’equipaggio che recuperava il carico da terra e lo imbarcava nelle stive.
“Che strano posto è mai questo?” chiese perplesso il capitano al nostromo. “Non le sembra, De Nuñez, che qui è come se il tempo si fosse fermato? Io ho visto e sentito cose che dalle nostre parti non si vedono e sentono più da secoli. Gli abitanti di qui si sono ritagliati il loro spazio vitale e se lo tengono stretto.”
“È una pia illusione, Comandante Marquez”, rispose Felipe. “Tutti quelli che abbiamo incontrato sono come morti viventi. Non sono altro che specchi che riflettono la memoria collettiva delle persone che ancora abitano qui e che per nostalgia mantengono vivi i loro ricordi. Pensano di fare il loro bene; e forse sarà pure così. Ma non è con la nostalgia che si alimenta il futuro. Qualsiasi rotta, per essere una rotta giusta, deve prevedere che la prua sia rivolta diritta verso l’orizzonte, a parte casi eccezionali di bufera. Non si può pretendere di camminare con la testa rivolta all’indietro, come gli indovini nell’Inferno.”
“Non pensa, Nostromo De Nuñez, che gli avvenimenti e le persone che abbiamo conosciuto qui avranno comunque un senso?”
De Nuñez guardò intensamente negli occhi Marquez e disse: “Queste cose acquistano senso solo quando si sopravvive da soli ad un naufragio, ad una catastrofe. Ma io spero che né lei, né io, né tutto l’equipaggio siamo destinati a naufragare durante il viaggio di ritorno. Sarebbe un maledettissimo modo di dare un senso a tutto quello che è stato finora il nostro itinerario intorno a mezzo mondo. Non crede, Comandante?”
“Forse ha ragione, Nostromo” rispose Marquez. “Però quel vino che abbiamo assaggiato era veramente squisito. Un po’ forte, ma squisito!”
“E infatti, Comandante, ho fatto in modo che quel ben di Dio costituisca buona parte del carico per il viaggio di ritorno”, concluse Felipe De Nuñez con un sorriso compiaciuto all’indirizzo di Jorge Manuel Marquez, guardando poi verso il vento di nordest che si alzava e le vele fruscianti, che alcuni marinai già avevano cominciato a sciogliere.
Poi lo sguardo di entrambi si volse dal meraviglioso panorama della costa di Nettuno allo scintillio luminoso del mare aperto, le cui sottili increspature si lasciavano pigramente sopraffare dai raggi di un sole pieno e caldo, ormai alto sull’orizzonte.
Epilogo
«E sono scampato io solo per informartene.» Giobbe
Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti?… Perché uno scampò al naufragio.
Herman Melville – Moby Dick
editato il 9 dicembre 2018 e presentato 19 gennaio 2019