(Intorno all’anno 2340 dell’Era Cristiana, nel Secondo Secolo dell’Era della Pace e della Produttività)
Prologo
Gòlgi (Camillo), medico e biologo italiano (Corteno, Brescia, 1843 – Pavia 1926). Professore di anatomia umana a Torino e a Siena, professore di istologia e infine di patologia generale a Pavia. Eseguì studi molto delicati sulle strutture nervose del cervello e del cervelletto e mise a punto un metodo di colorazione con il nitrato di cromo e d’argento che gli consentì di mettere in evidenza …
… Nel 1906 fu insignito, insieme con Ramòn y Cajal, del premio Nobel per la medicina, per gli studi sulla struttura del sistema nervoso.
Golgi (APPARATO DEL), formazione reticolare presente nel citoplasma nelle vicinanze del nucleo, rivelabile al microscopio ottico mediante la colorazione con sali d’argento. Fu descritta per la prima volta da Camillo Golgi alla fine del secolo scorso. È presente nelle cellule vegetali e animali ed è particolarmente sviluppata nelle cellule nervose.
Golgi (CELLULE DEL). Neuroni d’associazione intersensitiva che si osservano nel corpo posteriore del midollo spinale, dotate di brevi prolungamenti, che connettono i neuroni di due livelli adiacenti.
Dall’Enciclopedia Universale Rizzoli Larousse del XX secolo dell’Era Cristiana...
La Grande Roccia Rossa
Il problema di Egon era di non riuscire a comunicare. Quando si rivolgeva agli amici e ai colleghi, anche se si fermavano per alcuni secondi e sospendevano la loro Vitalità Energetica Costante da ciò che stavano facendo per ascoltarlo e favorire l’interpretazione orale, tutte le parole che diceva erano quasi sempre mal comprese e cadevano nel vuoto di una stolida indifferenza generale. Egli stesso si chiedeva quanto le frasi che pronunciava corrispondessero al suo pensiero. Così la Quota di Tempo Attivo riservatagli dal Piano di Programmazione Individuale trascorreva ineluttabilmente, senza che riuscisse in qualche modo a viverla di persona. Aveva sempre la sensazione che, riuscito ad arrivare a una plausibile conclusione di pensiero, il resto della sua mente fosse stato nel frattempo spostato artificiosamente in un’altra direzione; così doveva ricominciare ogni volta daccapo.
Lo aiutavano però i suoi studi. Quelle che trovava sui libri dei secoli passati erano parole fissate nel tempo, favole e ricerche spirituali capaci di riempire in lui quel vuoto mentale, che gli impulsi visivi elettronici dello stereovisore di casa e dei megaschermi pubblicitari delle intravie della città creavano e mantenevano inalterato nel cervello degli altri, spossessandoli di ogni capacità individuale di comprensione e di critica. Leggendo poi i libri di storia dell’arte del lontano XX secolo dell’Era Cristiana, si era convinto che in altri tempi, quasi tutti gli esseri umani riuscivano a vedere immagini anche a occhi chiusi. Per esempio: uno tornava a casa stanco dal lavoro (a quell’epoca di regola si faceva un solo lavoro per volta e per tutta la vita), si sdraiava su un divano (fatto di legno e di stoffa veri), si accendeva una sigaretta (che erano di erbe vegetali e non sintetiche), chiudeva gli occhi e sullo schermo nero della sua mente riusciva a scorgere forme e colori, qualche volta inverosimilmente fantastici e anche in movimento. Nell’era contemporanea non era più così: per vedere qualcosa di colorato dovevi obbligatoriamente uscire per le intravie che vorticavano sopraelevate tra gli enormi agglomerati abitativi sospesi delle città, tenere gli occhi sempre aperti sui Megaschermi Esterni e muoverti in continuazione. Se rimanevi fermo a casa a goderti la tua Quota di Tempo Inattivo, era inutile chiudere gli occhi: non saresti riuscito a vedere niente, assenza completa di sensazioni. Allora eri obbligato a inserire lo stereovisore, applicarti lo stimolatore cerebrale, mettere a tutto volume l’emettitore di vibro onde e così, forse, qualcosa di indistinto saresti riuscito a vedere anche a occhi chiusi. A colori, se l’impianto era di buona qualità. Quando pensava a tutto questo non si meravigliava più di non riuscire a comunicare e si spiegava pure il perché. Forse lui era ancora uno che riusciva ad associare immagini alle parole, giocando con i loro significati.
Tutti gli altri, da chissà quanto tempo, non ne erano più capaci.
Da un po’ di tempo, inoltre, a Egon succedevano delle cose strane. Prima di tutto aveva cominciato a riflettere sulle frasi che i suoi concittadini ripetevano in continuazione, e aveva notato che quelle parole non gli suggerivano nessuna immagine. Poi, qualche volta gli capitava di vedere i suoi pensieri e le sue riflessioni colorarsi, prendere forma e animarsi. Infine, cosa più inquietante di tutte, c’erano alcune immagini sconosciute che periodicamente si affacciavano alla soglia della sua coscienza. Tutto ciò accadeva da quando aveva cominciato a leggere le copie dei libri antichi che la Biblioteca Ludico Antiquaria concedeva in affitto ai cittadini che, come lui, ne facevano richiesta per Ornamento e Arredo Domestico Temporaneo.
Tre erano le formazioni visive che apparivano ripetutamente alla sua immaginazione, sempre uguali e così spesso da rendersi conto di poterle ormai descrivere con precisione e quasi con le stesse parole, che aveva così schematizzato:
1) il Naufragio del Titanic;
2) la Grande Roccia Rossa della Notte;
3) il Grande Scudo (ma di questa parola non era sicuro) Rosso.
La prima figura all’inizio gli era sembrata indecifrabile, poi gradualmente l’aveva riconosciuta: gli richiamava alla memoria una vecchia foto su un antico libro del XX secolo, che descriveva il ritrovamento di una nave affondata molti anni prima: il Titanic. Una specie di mito per gli uomini di quell’età, i quali affidavano ancora al mare i loro spostamenti, la loro vita e le loro simbologie. Per molti, si leggeva in quel vecchio libro, il Titanic «aveva significato il riemergere, dalle oscure profondità dell’inconscio, di antiche paure e di antichi tabù».
La seconda gli aveva subito ricordato un’altra foto che aveva trovato in un grande atlante di geografia terrestre, sempre del XX secolo. Essa rappresentava la visione notturna, fotografata con mezzi eccezionali per l’epoca, di una suggestiva e gigantesca formazione geologica, illuminata da una falce di luna completamente rossa: in primo piano torreggiava un massiccio corpo roccioso anch’esso completamente rosso.
Per la terza, le cose si complicavano: nessuna forma riconoscibile era possibile scorgere in quella visione, ma ciò che lo tormentava era la sensazione che dietro la parola «scudo», che l’immagine inequivocabilmente gli suggeriva, ce ne fosse un’altra che lui non conosceva: insomma la terza figura era la più indecifrabile: ad un’immagine indefinibile, si accompagnava una parola troppo semplice che sembrava fare da paravento ad un’altra chiarificatrice, ma sepolta nell’inafferrabilità.
Ma della eccezionalità della sua propria trasformazione ancora non si era reso completamente conto, fino a quando un giorno, alla barriera elettronica del suo subabitativo, non fece richiesta di abbassamento del Livello Magnetico Anti Intrusione un’impiegata della Biblioteca.
Erano più di tre anni che accumulava libri d’antiquariato. Il termine massimo di riconsegna era di trenta giorni. Forse aveva destato qualche sospetto.
“Lei è il signor Egon Herrigel?” chiese la donna, al di là dell’invisibile ma impenetrabile elettrosoglia.
“Sí. Che c’è?” ribatté lui.
“Posso entrare? Vengo dalla sezione centrale della Biblioteca Ludico Antiquaria.”
“Oh, sí. Mi scusi un momento…” Egon abbassò del tutto il livello magnetico di protezione, e poi agitò per sicurezza la mano in mezzo alla porta. Era tutto a posto: nessuna scossa spuria. Il marchingegno aveva emesso qualche sibilo di troppo perché era fuori taratura da due mesi e aveva bisogno di una urgente manutenzione ma lui, non ricevendo quasi mai visite, rimandava il costoso intervento il più possibile. “Va bene. Adesso può entrare.” Egon guardò la donna più attentamente. L’aveva assistito spesso nelle sue ricerche in Biblioteca. Era d’aspetto tranquillo e gradevole.
“Posso sedermi, signor Herrigel?” chiese lei, quasi con dolcezza.
“Sí. Certo signorina…”
“Mi chiamo Saja. Saja Rembrandt. Sono venuta per chiederle alcune cose. Ha un po’ di tempo?”
“Oh Sacra Terra, certo che ce l’ho! È la prima volta che qualcuno mi chiede se ho tempo!”
“Beh… Vede, il fatto è che lei ha richiesto molti libri alla Biblioteca e…”
“Oh, domani glieli farò riavere tutti! Le giuro che mi ero proprio dimenticato. Poi il mio Appelcom è guasto da un po’ di mesi, così i vostri avvisi non…” si precipitò a dire Egon, mentendo sull’Apparato Elettronico di Comunicazione, che gli era stato staccato per morosità.
“No, mi ascolti. Non è per questo che sono qui” l’interruppe la donna, scuotendo i lunghi capelli corvini che risaltavano sulla carnagione bianchissima, mentre lui tirava un piccolo sospiro di sollievo. Poi lo guardò dritto negli occhi e chiese con foga:
“Ma, Egon, non si rende conto?”
“Di che cosa dovrei rendermi conto, Saja?” replicò lui, accigliandosi.
“Signor Herrigel – riprese la donna in tono più formale, – lei negli ultimi tre anni ha chiesto in affitto alla Biblioteca oltre settecento volumi, quasi venti al mese. Ma, dico, evidentemente non può aver richiesto un così gran numero di libri solo per l’arredamento domestico!” e così dicendo diede un’occhiata eloquente alla sciatto mobilio del subabitativo.
“Ma certo! Li ho anche letti.”
“Egon, mi dica come ha fatto!”
“Come, ‘come ho fatto’?”
“Signor Herrigel, sono più di due secoli che l’umanità comunica solo attraverso la diffusione capillare di immagini e segnali elettronici” disse Saja, ammutolendo per un momento. E poi aggiunse, quasi in un sussurro:
“Egon, non sa che nessuno è più capace di leggere?”
Per Herrigel, lo choc era stato forte. Saja aveva promesso di non rivelare niente e si sarebbe ripresa i volumi un po’ per volta, ma gli aveva anche detto di essere interessata alla vicenda dell’unico essere umano che, da tre anni che lavorava in Biblioteca, non si limitava a guardare le copertine dei libri più curiosi e rari, ma li leggeva pure. Così voleva a tutti i costi sapere come avesse fatto ad acquistare questa capacità. Egon aveva faticato a convincerla che lui neanche si era accorto di come fosse successo. E le aveva raccontato dei disturbi che provava ultimamente, delle parole di cui riusciva a vedere il significato, delle immagini mentali che arrivavano alla soglia della sua coscienza. Lei lo aveva ascoltato dapprima scettica, poi davanti alla incredibilità delle sue descrizioni, si era convinta che dovevano essere proprio vere.
“Egon – gli aveva detto con premura, – ho paura che lei abbia qualcosa di strano. Perché non consulta uno specialista?”
“Oh, no! Sono tutti uguali i mentalisti: ti diminuiscono la Quota di Tempo Attivo per un paio di mesi, ti danno l’autorizzazione alla sospensione per tre settimane delle Emissioni Elettroniche Domiciliari durante la Quota di Tempo Inattivo Diurno e pretendono di rimetterti a nuovo. Ma poi tutto rimane come prima.”
“Intendevo uno specialista vero” disse lei con uno strano tono di complicità nella voce.
Egon dubitava di aver interpretato male, così provò a chiedere conferma.
“Non mi dica che lei conosce uno…”
“Uno psicofilosofo. Vero. Come ce n’erano secoli addietro, prima della Dichiarazione di Illegalità.”
Nel secolo precedente, la Dichiarazione di Illegalità del Pensiero Libero, più che un atto di imperio, era stata la presa d’atto di una situazione che si era venuta a creare nel corso dei decenni, dopo che la diffusione delle video trasmissioni elettroniche e delle comunicazioni digitali globali aveva praticamente soppiantato l’elaborazione di pensiero individuale, ormai talmente lenta, marginale e poco affidabile da risultare improduttiva; così si era deciso di proibirla anche nella Quota di Tempo Inattivo. La maggior parte delle persone, comunque, certo non ne aveva sofferto: anzi aveva considerato la Dichiarazione, avvenuta dopo lo svolgimento di un regolare referendum intergalattico, come la necessaria ratifica della scomparsa di un’inutile, pesante appendice del passato che ancora mortificava le sorti del genere umano: la facoltà di pensiero individuale. Una delle conseguenze fu che vennero messe al bando definitivamente quelle poche attività intellettuali che pateticamente ancora sopravvivevano. Coloro che ancora le svolgevano, o si sottoposero spontaneamente al Programma Personale di Riconversione Lavorativa o vennero affidati alle cure meno piacevoli dei Centri di Rieducazione Occupazionale e Produttiva, dove ogni traccia di pensiero e interpretazione autonoma, compresa la semplice capacità di leggere, veniva cancellata del tutto.
“Dove l’ha scovato, uno psicofilosofo?” aveva chiesto Egon.
“Non l’ho scovato io; lui ha scovato me in Biblioteca”, aveva risposto Saja. “Mi ha detto, quando ha cominciato a fidarsi di me, che era uno dei pochi superstiti dei CROP che sapesse ancora leggere e scrivere. È molto vecchio, ma dimostra meno degli anni che ha. Mi ha chiesto che, se mi fosse capitato di incontrare uno che avesse saputo ancora immaginare cosa stesse dicendo mentre parlava e che magari avesse anche saputo leggere, avrei dovuto assolutamente farglielo incontrare. Non mi ha parlato di uno che avesse pure delle visioni, ma penso che per lui andrebbe bene lo stesso! E lei, inoltre, sembra avere un gran bisogno di parlargli. Su, ci vada.”
Detto questo Saja aveva messo in mano ad Egon una Micro Planimetria di Indirizzo, rilevabile in un qualunque stereovisore, gli aveva scoccato un rapido bacio sulla guancia e era sparita nell’imbuto dell’Ipogravitore di Discesa.
Pensieri, parole e figure
Si trovavano in un subabitativo, che i giornali cartacei di qualche secolo prima avrebbero definito «confortevole ed elegante». Tappezzeria di stoffa, antichissimi lumi elettrici alle pareti, riadattati a fibroluminescenza e costose pseudofinestre che davano sui panorami più belli del pianeta, caratterizzavano l’appartamento. Era un bel po’ di tempo che Herrigel, dopo un caloroso invito ad accomodarsi, si era seduto su una elegante poltrona e stava ad ascoltare avidamente le parole del vecchio.
Lo psicofilosofo si chiamava Sator Mandel e in realtà era stato un paleobiologo, proveniente dall’antichissima e rinomata università terrestre di Taškent. Era la prima cosa che aveva saputo dalla voce calma dell’uomo, non appena questi lo aveva fatto accomodare, dicendogli quasi a bruciapelo: “Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato. Saja Rembrandt mi aveva detto di averla rintracciata.”
In effetti, Egon non aveva aspettato molto a mettersi in cerca dello studioso. Sfruttando la sua Quota di Tempo Inattivo Notturno, rinunciando alle sue ore di riposo, aveva preso un autotaxi inserendo la micro planimetria nel cruscotto e dopo un viaggio durato una ventina di minuti, si era ritrovato davanti a un Agglomerato Residenziale di Quarto Livello.
Aveva suonato all’imponente pseudoporta, la barriera elettronica anti intrusione aveva simulato un elegante cigolio e sulla soglia era apparso un vegliardo dall’aspetto cordiale che lo aveva introdotto con gentilezza all’interno e così la reciproca conoscenza era incominciata.
Herrigel aveva spiegato come da qualche tempo sentisse la sua mente in subbuglio e Mandel era rimasto colpito soprattutto dal fatto che, con lo sviluppo della facoltà di pensare le parole da parte di Egon, fosse coinciso l’ignaro recupero della capacità di leggere e poi l’avvento delle rappresentazioni visive.
“Signor Herrigel – disse a un certo punto il vecchio psicofilosofo, dopo che l’altro ebbe finito di parlare, – lei mi racconta queste cose come se temesse per la sua integrità, ma io le posso assicurare che non c’è nulla di male in ciò che le sta capitando. Un tempo tutti gli uomini avevano la capacità di elaborare, diciamo così, figure insieme alle parole: ce n’erano alcune più comprensibili e consce che facevano capo alla capacità di ragionare e venivano chiamate concetti, e ce n’erano altre, meno consapevoli e comprensibili, cui diedero forma gli artisti del secondo millennio dell’Era Cristiana e contenuto decifrabile gli psicoanalisti del XX secolo, una branca di studiosi subito avversata e presto dispersa, già alla fine del primo secolo del terzo millennio.
“Gli artisti non si curarono mai di definire e men che meno di studiare, se non per pura inclinazione personale, queste raffigurazioni. Esse furono invece l’oggetto di più approfondite analisi negli ultimi due secoli del secondo millennio, come dicevo, da parte degli psicoanalisti e da un’altra branca quasi scomparsa di studiosi, della quale mi onoro di far parte: i biologi. Il Positivismo imperante alla fine del XIX secolo impedì a uno di costoro, un italiano di nome Golgi, di estrinsecare tutte le possibilità delle sue ricerche ed intuizioni, poiché la rigidità delle posizioni accademiche dell’epoca, male avrebbe sopportato la sostanza anticipatrice e rivoluzionaria delle sue idee che mascherò sotto una coltre di affermazioni deterministiche e positivistiche, per un comprensibile opportunismo. Ma poi il passare del tempo svelò la reale sostanza delle sue intuizioni e nei secoli successivi i biologi raccolsero l’eredità anche degli psicoanalisti e dei filosofi, ormai scomparsi, pervenendo alla dimostrazione razionale e scientifica, per dire così, di una intuizione antichissima delle civiltà orientali: la complementare identità di spirito e materia, di idea e forma, che la civiltà occidentale dei primi due millenni dell’era cristiana si era ostinata a separare e contrapporre artificiosamente. Il diffondersi di questa aberrazione cominciò alla fine del secondo millennio, con l’espansione sempre più incontrollata di innumerevoli strumenti di comunicazione e interazione, che lentamente si sostituirono alla riflessione e al discernimento dell’uomo.
“Nelle mani di pochi potenti, questa espansione fu resa atta non solo ad esercitare una nefasta influenza sull’educazione degli esseri umani, ma anche a trasformare biologicamente l’umanità. Era ciò che Golgi aveva intuito: se c’è complementarità e interdipendenza tra spirito e materia, non solo lo spirito era capace di influenzare la materia, come si era sempre sostenuto, ma anche, inversamente, la materia, capillarmente enfatizzata attraverso tutti i sistemi di comunicazione, sarebbe stata in grado di trasformare organicamente lo spirito, sottraendogli non solo la capacità di dare forma alle idee, ma le idee stesse. Ed è ciò che nel terzo millennio è avvenuto: l’uomo immerso in un continuo flusso esterno di comunicazioni e di immagini di ogni sorta, ha perso dapprima la facoltà interiore di parlare a se stesso e agli altri sapendo ciò che diceva, e poi ha disimparato a leggere e immaginare. Senza queste capacità, l’umanità ha presto dovuto rinunciare anche alla conoscenza e ha accettato come un fatto naturale la Dichiarazione di Illegalità del Pensiero Libero, soddisfatta della sua Quota di Tempo Inattivo Diurno e delle Programmazioni Individuali di Successo, Viaggi & Distrazione.
“Così gli esseri umani smarrirono la capacità di discorso: le parole persero l’immagine e le immagini persero la parola.
“Vede Herrigel, Golgi aveva scoperto che c’è un punto nell’organismo dell’uomo, dove questo miracolo dello scambio tra spirito e materia e viceversa, si attua costantemente. Alla storia della biologia è passato con il nome di «Apparato del Golgi», ma lui usava il termine «Arcipelago», perché coglieva la similitudine naturalistica di un arcipelago geografico, dove gli esseri viventi di tutte le specie, pur nella loro diversità, traggono proprio da questa diversità l’equilibrio necessario alla sopravvivenza e allo sviluppo. Diceva che se questo equilibrio si fosse spezzato e dissolto nel corpo dell’uomo, anche l’essere umano non sarebbe sopravvissuto, almeno nella forma in cui lui lo aveva conosciuto.” Vedendo Herrigel perplesso, Sator tacque.
“Signor Mandel, io sono disorientato: sono venuto qui per avere risposte su ciò che sta accadendo a me e lei mi parla di ciò che è capitato secoli fa al genere umano e di uno scienziato dell’Era Cristiana che aveva scoperto cose talmente rivoluzionarie, che neppure oggi c’è qualcuno capace di dimostrarle!” esclamò Egon.
“Ma Herrigel, non capisce che tutte queste cose sono collegate?” riprese con foga Mandel. “Intanto quel clima positivista di sfiducia nei confronti di ciò che non può essere dimostrato scientificamente, non solo esiste ancora ma si è trasformato nel corso del tempo in qualcosa di ancora più penetrante e sottile: oggi non abbiamo più le parole, i concetti, le immagini, ossia tutti quegli strumenti intellettuali che nel mondo di ieri, permettevano comunque la sopravvivenza di un universo spirituale individuale, che a sua volta garantì lo svolgersi della storia attraverso il diffondersi delle idee e la produzione di quelle testimonianze che, al giorno d’oggi, vengono invece considerate illegali e di conseguenza bandite, cioè le opere d’arte e intellettuali. Se di tutto ciò qualcosa ci è rimasto, questo è conservato nelle Biblioteche Ludiche e considerato alla stregua di uno spettacolo che deve arrivare nei nostri stereovisori, filtrato dalle semplificazioni di commentatori fasulli e sovrastato dai Messaggi di Orientamento Commerciale o, nel migliore dei casi come è successo a lei, sotto forma di curiosi libri antichi, presi in affitto per arredare subabitativi e agglomerati residenziali di tutti i livelli, ormai innocui in quanto più nessuno è in grado di leggerli. Almeno fino a un po’ di tempo fa…” Sator Mandel si interruppe, ammiccando e rivolgendo a Egon un sorriso sincero e stringendogli calorosamente la mano.
Herrigel rispose al sorriso ma ritirò in fretta la mano e disse:
“Sator, dove stiamo andando? E che cosa significano quelle immagini ricorrenti nella mia mente?”
“Egon, siamo forse arrivati alla fine di un lungo ciclo, per fortuna. Golgi aveva previsto anche questo: in un arcipelago, quando l’equilibrio ambientale viene sconvolto e le risorse fondamentali vengono a mancare, alcune specie muoiono, altre prendono il sopravvento adattandosi, altre ancora né periscono né si adattano ma conservano le loro capacità per lungo tempo in attesa di tempi migliori, come caratteri recessivi. E sono queste poi alla lunga a sopravvivere: perché quando arriva il momento propizio, soltanto loro hanno mantenuto le caratteristiche fondamentali per ristabilire l’antico equilibrio. Anzi, ci accorgiamo che le cose nell’arcipelago vanno di nuovo cambiando, proprio dal riaffiorare di quei caratteri che tutti credevano estinti.
“Stia tranquillo, non sta diventando pazzo. Signor Herrigel, lei e la signorina Rembrandt siete il segno che io e un piccolo numero di altre persone stavamo ardentemente aspettando: forse l’era dell’imbarbarimento sta per finire. Anche Saja Rembrandt ha da poco incominciato a leggere!” rispose Mandel, assumendo un’aria estremamente seria. E fu a questo punto che chiese improvvisamente a Herrigel se avesse mai visto una tartaruga.
Le buone intenzioni d’un uomo d’altri tempi
“No, non so neanche di cosa stia parlando. Le ho spiegato che ho visto il Titanic, la Roccia Rossa, una specie di scudo, ma non mi è mai apparsa una… come l’ha chiamata? Una tartaruga.”
“No, Egon. Non sto alludendo alle sue visioni, ma ad un animale terrestre di tanti secoli fa, ormai estinto. Golgi aveva fatto anche ricerche sulle tartarughe, tenute poi segrete. Ma a qualcuno si confidò, e qualcosa delle conclusioni scientifiche seguite a quegli studi, nonostante il tempo trascorso, è giunto fino a me. Vede, le tartarughe erano animali longevi, estremamente longevi. La longevità permetteva loro di accumulare fattori diversi di sopravvivenza, anche quando l’ambiente in cui vivevano mutava drasticamente e, d’altro canto, proprio questo accumulo favoriva la loro longevità: un bell’esempio di complementarità, non trova? Ci fu un periodo, alla fine del XX secolo, in cui le tartarughe, soprattutto quelle acquatiche, corsero seriamente il rischio di scomparire. Ma sopravvissero. Golgi era morto da tempo quando ciò accadeva, comunque questa fu la prova che aveva ragione. Egli aveva notato che l’apparato nervoso da lui scoperto e studiato e che, come ho detto, chiamava Arcipelago, identico negli animali, nei vegetali e negli esseri umani, nelle tartarughe era conformato in modo tale da favorire il controllo e l’interdipendenza tra materia e spirito; tanto che, nei momenti difficili, esse avevano la facoltà di trasferire, potremmo dire telepaticamente, le proprie capacità fuori di sé ad altre tartarughe, consentendo loro di sopravvivere.
“Il meccanismo di come ciò avvenisse ci è ignoto, ma pare che Golgi l’avesse intuito e in parte dimostrato. La cosa sicura è che egli affermava che un giorno per gli esseri umani sarebbe stato possibile un comportamento paragonabile a quello delle tartarughe: cioè anch’essi avrebbero potuto acquistare la facoltà di trasferire le loro capacità per via mentale agli altri uomini. In che modo, però, non lo disse mai. Ecco, io credo che lei sia un «depositario», cioè una di quelle persone in cui qualcun altro, resosi conto tempo fa dell’involuzione della specie umana, ha lasciato in letargo i semi di una futura rinascita del pensiero: quello che le sta accadendo corrisponde allo spuntare dei primi germogli. Chissà cosa proverà quando lo sviluppo della pianta sarà completo? E a chi appartenevano i semi che lei ha coltivato dentro di sé? Tutto ciò potrebbe manifestarsi più chiaramente da un momento all’altro. Se e come questo accadrà io non lo so, ma ha assolutamente il dovere di avvisarmi, nel caso che avvenga. Perché chi o che cosa si sta risvegliando dentro di lei, possiede ancora il segreto di ogni conoscenza: la facoltà di pensiero dialettico, il linguaggio dell’umanità!”
Egon Herrigel osservò Sator Mandel che lo scrutava interrogativamente. Si capiva che confidava in lui per realizzare un disegno più grande di quel che poteva attualmente capire. Però a una conclusione semplicissima lui c’era già arrivato. Così, mentre si alzava dall’antica poltrona su cui aveva seguito tutti i discorsi di Mandel e raccoglieva il soprabito per andarsene, disse simulando una sicurezza che non aveva affatto:
“Il suo discorso è bello, Sator. Ma significa anche che se, grazie a noi e al nostro, chiamiamolo «risveglio», l’umanità dovesse anche solo cominciare a riacquistare la facoltà di pensare e comprendere, sarebbero fortemente minacciati gli interessi fondamentali delle Dinastie che hanno costruito il loro immenso potere sul monopolio della comunicazione e sull’annullamento progressivo delle capacità critiche di ognuno. E allora quelli troverebbero sicuramente il modo per eliminarci. Lo hanno già fatto con altri e per molto meno. Le sue sono buone intenzioni, anche se non so a cosa mirino esattamente, ma io sono una rotella troppo piccola per inceppare un meccanismo diffuso e consolidato. Addio, signor Mandel. Le assicuro che non mi sento affatto bene, ma non voglio stare peggio!”
Conseguenza del congedo così frettoloso dalla cortese ospitalità di Sator Mandel fu una lunga sosta sotto una pioggia fitta e scura, nell’attesa di un autotaxi libero. Si era tolto, è vero, la soddisfazione di vedere il vecchio sconcertato quasi quanto lo era stato lui all’inizio, ma rimaneva con l’irritante sensazione di non aver rivolto le domande giuste e di non aver saputo niente che riguardasse direttamente le sue «visioni». Comunque si era reso conto che mai, prima d’ora, gli era capitato di esprimersi e di essere compreso tanto chiaramente .
Chissà cosa avrebbe pensato, poi, se avesse saputo che le visioni non erano affatto finite e stavano per ricominciare più intense di prima.
Deriva all’interno di un magma freddo
Nei quindici giorni successivi Egon Herrigel, non riuscì a dormire per più di un’ora durante la Quota di Tempo Inattivo Notturno. Si agitava nel letto e si svegliava in continuazione. Le nuove visioni arrivavano a ondate. I libri degli psicoanalisti del XX secolo le definivano sogni o, più precisamente, formazioni oniriche. Le sue diventavano sempre più nitide e frequenti. Alcune erano passeggere come comete e ad esse non sapeva attribuire alcun significato evidente. Si lasciavano dietro solo una scia di sensazioni indefinibili, che coinvolgevano la sua sfera emotiva in uno scombussolamento continuo, che passava dall’angoscia alla beatitudine ed egli ne seguiva la deriva, come trascinato all’interno di un magma freddo. Altre si fissavano più a lungo ed erano maggiormente riconoscibili. Tra queste ve ne erano di simili alle immagini trasmesse per stereovisione e non comunicavano altro che se stesse. Di solito facevano da introduzione ad una specie di folgorazione ripetitiva e inquietante che arrivava di sorpresa, come la scena madre di qualche vecchio film analogico dell’orrore risalente al XX secolo, cui gli era capitato di assistere nella Biblioteca, durante gli Intervalli di Assegnazione. Gli sembrava di trovarsi in mezzo al deserto ventoso, tipico di alcuni pianeti extra galattici: un continuo turbinio di sabbia impediva la vista del paesaggio circostante, ma si diradava abbastanza per fargli scorgere davanti a sé, oscillante al suolo, un teschio circondato da una coltre di polvere grigiastra e finissima che, vorticando nel vento, gli penetrava fastidiosamente attraverso le narici fin nel cervello e, come un contatto attivato bruscamente, innescava dentro di lui un nuovo flusso di pensieri e sensazioni, oramai non più solo visive ma anche spiacevolmente fisiche.
E Egon Herrigel a questo punto sbarrava gli occhi e non riusciva più ad addormentarsi.
Perché quei pensieri e quelle sensazioni non erano i suoi, ma provenivano certamente da qualcun altro.
Non potevano essere suoi quei pensieri: essi rappresentavano situazioni ed oggetti a lui quasi completamente sconosciuti. Se qualcuno di questi ultimi riconosceva, era perché l’aveva visto nelle illustrazioni di antichi libri scientifici e ne ricordava anche i nomi: microscopio, alambicco, vetrino, camice… Ma gli odori? Anche gli effluvi e le forti esalazioni egli riusciva a percepire, di quello che sembrava essere un antichissimo laboratorio di ricerca scientifica. Più che pensieri questi sembravano essere dei ricordi. Ma di tutto ciò non aveva mai letto o visto niente, quindi non potevano essere suoi ricordi. E allora di chi erano? Soprattutto che significato aveva la parola «carapace» che il teschio pronunciava di continuo come una litania, come la chiave di volta di un mistero fatale che a lui, prima o poi, fosse stato imposto di incontrare?
E ogni volta riecheggiavano nella sua mente le parole di Sator Mandel: “…io credo che lei sia un «depositario», cioè una di quelle persone in cui qualcun altro, resosi conto tempo fa dell’involuzione della specie umana, ha lasciato in letargo i semi di una futura rinascita del pensiero: quello che le sta accadendo corrisponde allo spuntare dei primi germogli. Chissà cosa proverà quando lo sviluppo della pianta sarà completo?”.
Poi, allo svanire della parola «carapace», rivedeva di fronte a sé il Grande Scudo Rosso.
E tutte le parole si facevano più chiare e vorticavano luminosissime nella sua testa in una sarabanda inafferrabile, celando ancora il loro senso più profondo.
Quando non ce la fece più a resistere, approfittando di un lungo Intervallo d’Assegnazione, si recò alla Biblioteca Centrale: aveva bisogno di parlare con qualcuno che potesse aiutarlo, anche solo guardandolo. Si diresse al videosportello di controllo e chiese un libro in prestito. Un viso conosciuto apparve sullo schermo. “Prego inserire richiesta” fu il messaggio ripetuto da una voce apparentemente neutra. Ma il sorriso vero stampato su quel volto, era la dimostrazione che anche lui era stato riconosciuto, attraverso il monitor interattivo, da Saja Rembrandt.
Poco dopo erano seduti al tavolino magnetico di un Box di Accoglienza e Ristoro situato sull’intravia, a pochi metri dalla Biblioteca. Questi BAR erano botteghe di mescita dal nome pomposo, ma di notte si riempivano di alieni e di esseri umani al limite della mostruosità; sopravvissuti ai CROP o mutanti, lontanissimi discendenti dei colpiti da radiazioni della Prima Era Atomica, che ancora circolavano per le galassie, e metasessuali diversi. Invece di giorno la clientela mutava radicalmente in quantità e in qualità e i locali diventavano quasi confortevoli.
“Come ha fatto a lasciare così presto il lavoro?” chiese Egon a Saja, intenta a mescolare una tazza di caffè sintetico.
“Non si preoccupi, Egon” disse lei, alzando gli occhi con simpatia verso di lui. “Ero quasi alla fine del turno e ho chiesto al collega che mi avrebbe sostituito di anticipare il suo di qualche minuto. Lei, piuttosto, è agitatissimo: che cosa le è successo?”
“Avevo un assoluto bisogno di parlarle, Saja. Non so a chi confidarmi: ce l’ha un po’ di tempo per starmi a sentire?”
“Ma certo! Anche per me è la prima volta che qualcuno mi chiede se ho tempo…” disse lei sorridendogli con calore e poi aggiunse: “Egon, voglio starti a sentire. E sarà meglio se ci daremo del tu.”
“Beh, allora…” Egon sentì che la situazione si stava facendo emotivamente forte, con i begli occhi di Saja che lo fissavano attenti e rimpianse di non avere con sé delle Pillole di Acclimamento Unitario e Stabilizzazione Emotiva che egli, al contrario della maggior parte delle persone che conosceva, non utilizzava quasi mai. Trasse un profondo respiro e continuò: “Sto male da più di due settimane. Ma non è per la pioggia che ho preso quando ho lasciato la residenza di Sator Mandel. Credevo di averci dato un taglio, col vecchio. Mi ero rassegnato a rimanere così, a vedere il significato delle parole che dicevo e guardare immagini ricorrenti ad occhi chiusi, insomma mi cominciavo ad abituare e la cosa non era tanto spiacevole. Ma le visioni si stanno moltiplicando in modo insopportabile e adesso ho la sicurezza che non provengono più dalla mia fantasia eccitata dalla lettura. Io penso che qualcuno… qualcosa… mi stia parlando da chissà dove e cerchi di mettersi in contatto con me.”
“Egon, potrebbe essere soltanto un fenomeno di telepatia. Qualche amico o anche qualche conoscente che fa con te, a tua insaputa, esperimenti interattivi usando qualche droga di quelle introdotte ultimamente, tipo la Spes o l’Afasol. Qualcuno me ne ha parlato e si dice che…”
“No, Saja. Queste ti fanno solo assaporare le illusioni del mondo presente: situazioni artificiali di corteggiamento, finte carriere di successo, circoli di amicizie virtuali ad erotismo spinto, e altre cose così. Chi cerca di mettersi in comunicazione con me, mi parla dal passato. Io vedo oggetti e percepisco odori che non ho mai avuto occasione di conoscere direttamente. Sento rumori di ambienti sconosciuti risalenti a chissà quanti secoli fa. Non posso aver saputo di queste cose leggendo!”
“Sacre Lune! Ma è bellissimo, Egon!”
“Sarebbe bello se non fosse tutto così misterioso e confuso, e non avvenisse così in fretta! Le visioni si sovrappongono e la mia mente non è abituata ad una tale esplosione di sensazioni. Alla fine di ogni accesso, poi, mi sento anche male fisicamente…”
“Che cosa hai visto esattamente, Egon, che hai pure riconosciuto? Le parole, voglio dire. Sai, anch’io ultimamente ho imparato un po’ a leggere e qualcosa…”
“Sí, lo so: il vecchio me l’aveva detto. Mah, fammi ricordare… Un camice, un microscopio, qualche…”
“Un microscopio? Hai detto un microscopio?”
“E pure dei vetrini, che…”
“Egon, non c’è tempo da perdere! Ci andremo stanotte stessa.”
“Andremo dove, Saja?”
“Da Mandel. Tornerai da Sator Mandel, Egon. E stavolta verrò anch’io con te!”
Una busta di carte
Erano arrivati all’abitazione di Sator Mandel in piena notte, dopo averlo precedentemente avvisato tramite l’Appelcom di Saja. Alle brevi e plausibili richieste inventate dalla donna per paura di eventuali Intercettazioni Randomizzate, Sator aveva risposto subito affermativamente, comprendendo al volo la situazione e invitandoli per un party notturno domiciliare. Così, se la Pubblica Sorveglianza li avesse fermati mentre viaggiavano in due, avrebbero potuto dimostrare, con la registrazione appelcom, di essere legittimamente sul percorso dell’intravia che portava all’Agglomerato Residenziale di Mandel.
Appena entrati, il vecchio psicofilosofo li fece premurosamente accomodare nel suo studio e si dispose ad ascoltare quello che Herrigel aveva da dire sulle sue nuove rappresentazioni visive e sensoriali. Saja si era seduta vicinissima ad Egon. Ogni tanto gli posava la mano sul braccio come ad incoraggiarlo e forse anche qualcosa di più, tanto che la capacità di sentimenti di Egon sembrava ritornare faticosamente in vita, dopo essere stata costretta a una lunga stagione di oblio. Il resoconto, che Mandel ascoltava senza interrompere e con estrema attenzione, lisciandosi ogni tanto la barba bianca che, nonostante il divieto intergalattico, portava ancora orgogliosamente, fu lungo e, stavolta, anche più meticoloso e preciso. Herrigel descrisse minutamente le sue visioni, le sue percezioni uditive e olfattive. Talvolta si interrompeva, quasi per chiedere allo psicofilosofo conferma della sua sanità mentale, ma Sator lo invitava gentilmente a proseguire, sorridendogli come avrebbe potuto fare un padre a un figlio durante l’Era Cristiana, quando esisteva l’antica istituzione della famiglia, prima dell’epoca della Progettazione Antropogenetica da Inseminazione Artificiale, che ne aveva di fatto provocato l’estinzione. Egon, con un calore nuovo che sentiva nascergli dentro, iniziava a rendersi conto di cosa volesse dire per gli esseri umani di un tempo avere una famiglia, comprendendo anche per la prima volta il significato della arcaica parola affetto.
E Sator lo guardava con tanto più partecipe affettuosità, quanto maggiormente lui sembrava aver sofferto di quelle sensazioni che lo attanagliavano e che cercava con tanta obiettività di raccontare: ormai non soltanto con lo scopo egoistico di venirne fuori in qualche modo, ma anche con quello di trarre delle conclusioni che avrebbero potuto servire anche ad altri. A moltissimi altri.
Saja si accostava sempre di più a Egon, anche lei affascinata da quella solidale atmosfera mai e in nessun luogo riscontrata prima d’ora e dai legami invisibili che si stavano instaurando tra di loro.
Infine, all’improvviso, Egon Herrigel scoppiò a piangere.
“Pianga, Egon. Pianga pure” disse quasi sottovoce e con dolcezza Sator Mandel, stringendo nella sua la mano dell’altro che, stavolta, non la ritirò. “Saranno secoli che un essere umano non piange su questa Terra. Di che cosa ha paura? Della follia? Ma non capisce che lei sta riacquistando quella sanità che avevamo tutti un tempo e che altri ci hanno pian piano sottratta, facendoci subdolamente vedere con altri occhi e udire con altre orecchie?
“È vero: ciò che lei, in quei momenti dolorosi, vede, ascolta, odora, vive, non è opera sua. Non proviene da lei ma da qualcun altro. Ma questo non è un caso o una malattia. È la realizzazione di un esperimento. Un esperimento concepito molto, molto tempo fa.”
Sator Mandel trasse un sospiro e dopo una lunga pausa trascorsa in silenzio per permettere a Egon di ricomporsi, affermò in tono deciso:
“Finalmente, si è stabilito un contatto!”
Guardò con un sorriso soddisfatto prima Egon e poi Saja. E poi aggiunse serio: “Non avrei mai immaginato che ce l’avrebbe fatta.”
“Chi ce l’avrebbe dovuta fare?” chiese Saja, interpretando anche la muta domanda di Egon, che nel frattempo si era calmato.
“Golgi. Camillo Golgi!”
A questo punto Mandel si era alzato e, scusandosi, si era allontanato per alcuni minuti, tornando nello studio con una grossa busta ingiallita che posò con cautela sulla scrivania. Saja si sollevò incuriosita dalla poltrona, lasciando per un istante la mano di Egon che si scosse dalla momentanea apatia a cui si era abbandonato. Così anche lui notò la busta, che Saja continuava a fissare con stupore.
“Oh, Sacre Lune! – dichiarò la donna – Ma, è carta! Autentica carta. Non la pellicola sintetica di cui sono fatte le copie dei nostri libri!”
Nel frattempo le dita ancora belle della vecchia mano di Sator, avevano tirato fuori dei lucidi cartoncini, anch’essi ingialliti ma virati verso una tinta più scura, quasi bruna. “Sapete che cosa sono queste?” chiese, spingendoli sul ripiano della scrivania, verso gli sguardi attoniti degli altri due.
“Queste sono ‘fotografie’. Lei, Saja, ne ha già vista qualcuna quando in Biblioteca tempo fa le feci vedere la riproduzione di un microscopio ottico della fine del XIX secolo dell’Era Cristiana, del quale per la sua inestinguibile curiosità volle sapere tutto. Le fotografie erano lastre di materiale sensibile alla luce che tanti secoli fa servivano a riprodurre meccanicamente la vista del mondo circostante. Osservatele bene. In particolare lei, signor Herrigel.”
Saja e Egon avevano allungato contemporaneamente le mani e avevano afferrato ciascuno un po’ di quelle carte, la cui consistenza era più spessa e liscia di quanto si aspettassero. Saja le osservava con attenzione antiquaria, quasi religiosa, emettendo piccole esclamazioni di sorpresa. Egon invece le guardava con sempre maggiore frenesia, controllandole e ricontrollandole ossessivamente. Le esaminò a lungo una per una, senza dire una parola. Poi, alla fine, le abbassò sulla scrivania, sollevò lo sguardo dritto negli occhi di Sator Mandel e esclamò con voce rotta dall’emozione: “Ma qui dentro ci sono tutte le cose che mi sono apparse in questi ultimi giorni!”
“E allora, mio caro amico, vuol dire che lei ha passato i suoi ultimi giorni in compagnia di uno scienziato italiano morto agli inizi del XX secolo dell’Era Cristiana. Queste sono le foto del laboratorio di ricerca di Camillo Golgi!”
“Non ci credo! – sbottò Herrigel – Come fa a esserne così sicuro?”
“Perché io so dove si trova il laboratorio di Golgi e l’ho visto con i miei occhi!” fu l’incredibile risposta di Sator Mandel.
Lo psicofilosofo lasciò che gli altri due si riprendessero dalla meraviglia e poi continuò:
“Vede signorina Rembrandt, quando mi chiedevo come Golgi avesse potuto farcela, mi riferivo alle sue ultime ricerche. Ad una in particolare, descritta dallo scienziato in questo diario – e, nel dire ciò, aveva tolto dalla busta un secondo fascicolo più consistente – di cui sono venuto in possesso parecchi anni fa, non vi sto a dire come. Vi dirò solo che nell’inferno dei CROP, ho conosciuto le persone migliori e più colte dell’universo ed è un terribile danno per tutta l’umanità che molte di esse non siano sopravvissute alle umiliazioni di quei Centri.”
Sator si interruppe, come se stesse faticando per scacciare dei tremendi ricordi, mentre gli occhi gli si inumidivano. Poi si scosse e guardò Herrigel, riprendendo a parlare rivolto verso di lui.
“Adesso entrano in ballo le tartarughe – disse con un sorriso, – e lei, Egon, capirà perché quel giorno le abbia chiesto se avesse mai visto una tartaruga. La ricerca fondamentale del Golgi, alla quale avevo già accennato durante la sua prima visita, riguardava proprio la capacità che questi animali avevano di trasmettere al di fuori di sé dei segnali, diciamo così, genetici da trasferire ai loro simili, che li avrebbero potuti successivamente utilizzare per la propria sopravvivenza in ambienti ostili.
“Fatta questa scoperta, Golgi cercò di indagare come tutto ciò potesse avvenire e se fosse possibile riprodurre a piacimento tale capacità. L’italiano intuì subito che questa specie di trasferimento dati da un essere vivente all’altro poteva effettuarsi solo telepaticamente, avendo riscontrato nei suoi esperimenti che ciò accadeva anche tra esemplari di tartarughe allevate in ambienti completamente separati. Inoltre accertò che pure gli esseri umani hanno una sorta di apparato cellulare e nervoso, l’«Arcipelago Golgi», paragonabile a quello delle tartarughe, che rende alcuni di essi naturalmente capaci di trasferire, per via telepatica, le loro facoltà ad altri, che le utilizzeranno successivamente. Golgi però si poneva soprattutto due quesiti.
“Primo: era possibile effettuare questo trasferimento dati tra esseri lontani, non solo nello spazio, ma anche nel tempo? In altri termini, si sarebbe potuto comunicare con eventuali posteri?
“Secondo: era possibile individuare una sostanza capace di indurre artificialmente tali complesse capacità telepatiche, in coloro che normalmente non le avevano?
“Io so che era arrivato a scoprire la possibilità teorica della telepatia meta temporale, ma non che fosse riuscito a sintetizzare un qualsiasi tipo di siero, atto a suscitarla artificialmente. Probabilmente Golgi aveva tenuto segreta quest’ultima fase del suo lavoro e neanche il mio disgraziato informatore, con il quale avevo stretto amicizia nello stesso CROP in cui ero stato deportato, ne era a conoscenza nonostante mi avesse raccontato tutto quel che sapeva con la speranza, mi disse, che un giorno, per mezzo della teoria dell’Arcipelago Golgi, noi superstiti avessimo potuto invertire il senso assurdo di questo universo, trapiantando il seme del pensiero dialettico per lo meno presso i nostri pronipoti.”
Di nuovo Sator Mandel si interruppe. Si vedeva chiaramente il disagio che provava nel dover rivangare tanti ricordi. Infine, come a scacciare definitivamente certe visioni, si alzò dalla poltrona e raccolse in fretta diario e fotografie nella busta, guardando entrambi gli ospiti con un sorriso dolcemente beffardo. E rivoltosi nuovamente a Herrigel esclamò:
“Comunque so dove si trova quel teschio che le ripete incessantemente la parola «carapace»! Non abbiamo molto tempo. Verrete tutti e due con me. Muoviamoci!”
Ai confini dell’Arcipelago
Era notte fonda quando Sator Mandel aprì con una vecchia chiave meccanica la porta di vero legno di una villa, all’apparenza abbandonata, situata oltre la cintura degli Agglomerati Residenziali Esterni. Le località al di là di questi non erano frequentate da nessuno, né Pubblici Sorveglianti né emarginati più o meno pericolosi: semplicemente non esistevano. Non erano riportate neanche sulle Micro Planimetrie di Vigilanza.
Erano arrivati lì sull’antiquata aeromobile di Mandel, che la pilotava ancora magistralmente. Costeggiando l’Intravia Superiore, erano poi planati silenziosamente in un campo aperto, dove Sator aveva simulato un atterraggio di fortuna per non correre rischi con la Sorveglianza Esterna. Lasciata l’aeromobile, si erano poi diretti a piedi verso l’interno di una boscaglia camminando su quella che sembrava una vecchia via terrestre, fino a quando erano giunti in una piccola radura che si apriva di fronte all’antichissima costruzione.
“Proprio in questa zona nel XX secolo dell’Era Cristiana sorgeva una città chiamata Pavia, che sembra appartenesse alla nazione Italia – aveva detto frettolosamente Mandel, mentre armeggiava con la serratura. – Era qui che Golgi lavorava. E questa casa, miracolosamente ancora in piedi, era il suo gabinetto di ricerca.”
“Chi le ha dato le chiavi e come faceva a sapere del laboratorio?” aveva chiesto Saja.
“Il mio povero compagno di prigionia, non si limitò a darmi informazioni essenziali su Golgi, ma mi consegnò anche queste chiavi e un’antichissima mappa topografica per individuare esattamente il posto. Anch’essa di carta, pensate! Ma ora mi lasci lavorare tranquillo, l’apertura di queste vecchie porte è terribilmente laboriosa!” aveva risposto bruscamente Mandel.
“Sator, per la prima volta vedo agitato anche lei! – aveva esclamato preoccupato Egon – Cosa c’è che non va?”
“Proprio niente, amico mio. È solo fretta: sento di essere vicino alla soluzione del mistero e mancano poche ore all’alba!” e così dicendo aveva spalancato la porta e si era precipitato all’interno, circondato dalla più completa oscurità.
Saja ed Egon esitarono qualche attimo. Poi, proprio quando la mano di Sator Mandel in un’altra stanza attivava un impianto di fibroluminescenza autonomo approntato in qualche sua visita precedente, varcarono la soglia e discesero alcuni gradini, penetrando nel seminterrato completamente illuminato.
Gli occhi di Egon stentavano a credere in ciò che vedevano: quello che si trovava di fronte era molto di più di ciò che gli era ripetutamente apparso negli ultimi giorni. Riconosceva alcuni vecchissimi strumenti scientifici, tra cui il microscopio delle fotografie, poggiati su lunghi tavoli di marmo e di legno, ma ce n’erano tanti altri mai visti e di materiali sconosciuti, inutilizzati da secoli. Individuava le forme, i colori e gli odori arcaici che gli oggetti presentavano ed emanavano. Molti erano nascosti sotto drappeggi completamente ricoperti di polvere. I due passeggiavano incerti in mezzo ai tavoli, affascinati dalle rarità e dalla cura artigianale con cui un tempo anche le apparecchiature scientifiche erano realizzate. Avanzavano di qua e di là, toccando e rimirando. Alle pareti scintillavano quelli che sembravano strumenti di misurazione, collegati ai tavoli con cavi e tubi corrosi dal tempo, ma ancora ben visibili.
“Galassie divine! Tutto ciò è stupendo!” esclamò Saja, scuotendo Egon dalla sua attonita meraviglia. Poi continuò:
“È la luce del passato! Un passato che cominciavamo a credere non fosse mai esistito. Anche se noi e forse qualche altro ne avevamo una pallidissima idea, ammirandolo sulle copie sintetiche dei libri della Biblioteca.”
“Sí, Saja. C’è tutto. Solo che ancora mancano le mie visioni!” osservò quasi con delusione Herrigel.
“Aspetti e vedrà, amico mio!”
L’esclamazione proveniva dalla voce eccitata di Sator Mandel che era apparso sulla cima della scala che portava al piano superiore.
“Se avrà la compiacenza di salire dove mi trovo io, vedrà le sue «visioni» attaccate alle pareti!” concluse ridendo il vecchio.
La frenesia invase il cuore di Egon che si scaraventò sulla scala e in un istante raggiunse lo psicofilosofo che lo attendeva sorridente. Anche Saja, presa da un’ardente curiosità, lo seguì a ruota.
Sator bloccò per un attimo sulla soglia della stanza del piano superiore l’irruenza di Egon, posandogli una mano sulla spalla e dicendogli solennemente:
“Mio caro ragazzo, di certo quello che vedrà non le farà comprendere ancora. Nessuno mai è in grado di capire tutto. Chi dice di saperlo fare, di solito mente. Dopo che sarà entrato qui e avrà visto quel che c’è dentro, sarà molto impressionato e confuso. Ma io l’aiuterò a chiarire la sua storia, parlandole di quella degli ultimi momenti di Golgi, che ho avuto la possibilità di ricostruire in questi anni, dapprima leggendo il suo diario e poi consultando gli ultimi resoconti che si trovavano proprio qui, gelosamente conservati per chi avesse saputo arrivare fino ad essi. Io sono stato il primo e, per alcuni anni, il solo. Voi due siete stati i secondi. Ma lei, Egon, è stato il prescelto.”
Herrigel guardò interrogativamente Sator Mandel, il quale scosse il capo e disse:
“Non ancora. Prima deve entrare e guardare tutto.”
Anamnesi
Mentre Saja e il vecchio rimanevano rispettosamente sulla porta, Egon varcò la soglia e fece qualche passo avanti quasi religiosamente, e guardò.
Il vecchio aveva ragione: quasi al centro della stanza si trovava un antico scrittoio pieno di vecchie carte e, sospese alle pareti, c’erano tutte le sue visioni. Anche quelle della prima fase, che lui riconobbe molto bene, sostando per lunghi minuti di fronte ad esse. Erano pitture di grandi dimensioni come usavano fare gli artisti del XIX e XX secolo. Molto diverse, per dimensioni e significato, dalle Icone Stereovisive a Vibro onde e dalle minuscole Fluttuazioni Ottiche a Plasma che avevano inondato il mondo negli ultimi due secoli. È vero: queste potevano andar bene per le pseudofinestre, ma non avevano l’intensità e l’indefinibile suggestione di quei vecchi quadri.
E così finalmente guardava fisicamente davanti a sé il Naufragio del Titanic, la Grande Roccia Rossa della Notte e il Grande Scudo Rosso, come le aveva chiamate. Adesso però quella che aveva immaginato come una falce di luna, sembrava aprirsi davanti al suo sguardo come un occhio di lava incandescente per riversarsi sulla Grande Roccia Rossa che prese a muoversi, a scomporsi e a ricomporsi, finché non fu indotto a osservare il Grande Scudo Rosso. Questo giganteggiava nel centro della parete accanto ad altre pitture, in cui riconosceva ogni dettaglio di tutte le visioni avute nella seconda e più drammatica fase che aveva attraversato, ammirandone ora davanti a sé la materiale concretezza. Ma fu guardando la parete di fronte alla porta che restò senza fiato. In alto si stagliava un’immagine che ricordava senz’altro le forme di un animale ignoto, dal corpo verdastro e scuro. Le rughe e le squame cornee che caratterizzavano alcune sue parti gli facevano tornare alla mente le riproduzioni dei più antichi animali terrestri, di cui molti ormai mettevano in dubbio perfino l’esistenza: i dinosauri. Fissò a lungo sbalordito quell’immagine sconosciuta, mentre da lontano, pianissimo, cominciò ad echeggiare dal suo interiore orizzonte sonoro una parola ancora indefinibile, ogni volta che si voltava a guardare di nuovo lo scudo. È vero, quello non era uno «scudo» ma era… era… Sentiva la parola farsi vicinissima.
Abbassò lo sguardo fino a vedere posta su di un piedistallo una grande teca di vetro, al cui interno vi era, affondato in una polvere grigiastra e finissima, un teschio, le cui occhiaie vuote sembravano fissarlo con insistenza. Fu in quel momento che avvertì una fitta dolorosa al capo e udì un boato tremendo dietro le tempie. Poi una voce che gli urlava dall’interno della testa: “Il carapace della tartaruga! È attraverso il carapace della tartaruga!”. Terrorizzato Egon si portò le mani alle orecchie e volgendosi verso Sator Mandel strillò con quanto fiato aveva in corpo: “Lo faccia smettere, lo faccia smettere! Chiunque o qualunque cosa sia che mi urla nella testa, la prego, lo faccia smettere!” e crollò in ginocchio respirando affannosamente. A questo punto la crisi si estinse improvvisamente così come era iniziata, mentre una quiete torpida si impossessava finalmente di tutto il suo fisico prostrato.
Saja si precipitò accanto a lui sussurrando parole d’incoraggiamento e accarezzandolo. Sator si avvicinò di qualche passo e disse con calma:
“Credo che ormai sia tutto finito. Almeno il dolore, intendo. Il livello parossistico è stato raggiunto e del resto tutto ciò fu programmato per richiamare l’attenzione e risvegliare interessi sopiti da lungo, lunghissimo tempo. Era difficile regolare l’intensità del richiamo telepatico. Egli voleva essere sicuro che qui, in questa zona, qualcuno prima o poi l’avrebbe percepito.”
“Ma chi ha programmato cosa e perché? Chi ‘voleva essere sicuro’?” chiese Saja senza alzare la voce, per non agitare di più Egon che le aveva afferrato una mano.
Ma Herrigel nel frattempo si era alzato in piedi e, avvicinatosi a Sator Mandel, aveva cominciato a parlare con voce bassa, ma senza affanno e con chiarezza. Appariva completamente trasformato.
“Ora so. Credo di sapere quasi tutto. Quella è una tartaruga e quello non è uno «scudo rosso» – disse indicando le opere sulle pareti – ma è il carapace: lo «scudo» della tartaruga come ero costretto a chiamarlo io, non conoscendo la parola giusta. Golgi lo vedeva così, quasi incandescente, dopo essersi iniettato il siero che, prelevato attraverso il carapace delle tartarughe, stimolava il suo Arcipelago. I suoi sensi durante gli esperimenti si acuivano in modo esasperato e deformavano ciò che vedeva o sentiva. Era normale, a pensarci bene, per riuscire a dare forza a una spinta telepatica che doveva proiettarsi all’esterno e nel futuro. Le sue visioni potevano essere inafferrabili, incomprensibili. E temendo che le parole dei suoi resoconti non fossero sufficienti a descriverle, ce ne lasciò anche le immagini. Queste pitture le ha fatte Golgi. Non è vero, Sator?”
Sator Mandel era muto per la sorpresa di una tale immediata comprensione da parte di Herrigel.
“È stato Golgi, non è vero?” insisté con decisione Egon.
“Sí – confermò lo psicofilosofo. – È stato Golgi. Aveva sintetizzato un siero stimolatore dell’Arcipelago, estratto dal carapace delle tartarughe, iniettandoselo lui stesso. È tutto scritto nelle relazioni che si trovano su quello scrittoio: le modalità dell’estrazione e della conservazione, le difficoltà incontrate nel regolarne la quantità sufficiente per un esatto richiamo telepatico che non fosse né troppo debole né troppo forte e poi, soprattutto, la ricerca precisa della fascia di compatibilità con un altro Arcipelago con il quale il suo potesse realisticamente, diciamo così, sintonizzarsi superando le barriere della materia, dello spirito e del tempo. Le probabilità erano minime, eppure il contatto finalmente c’è stato e ha dimostrato che l’uomo può trasmettere per via telepatica le sue caratteristiche spirituali ed intellettuali ad altri uomini a distanza di centinaia di anni, perché il pensiero non ha né passato né futuro Egon, e quello che lei ha vissuto, lo ha vissuto in contemporanea agli esperimenti di proiezione telepatica del Golgi, nel flusso illimitato del tempo.
“Io non so spiegarlo meglio, Herrigel, ma tali esperimenti coincidevano con le sue crisi, e probabilmente coincideranno ancora, in una dimensione extra temporale, anche se distanziati cronologicamente tra di loro di innumerevoli anni.
“Inoltre Golgi si era anche messo a dipingere e aveva dipinto molto, così come aveva letto molto: voleva che la sua eredità telepatica fosse la più completa possibile. Infatti, dato che non si può fotografare ciò che si riesce a vedere solo nella mente, la pittura era assolutamente necessaria perché desse l’idea delle percezioni che caratterizzavano i suoi esperimenti, in modo da riuscire a comunicarle a dei posteri che potevano anche aver perso la capacità di immaginare leggendo e di parlare immaginando.
“In questo laboratorio il povero Golgi non c’è più, ma il suo Arcipelago è telepaticamente ancora accanto a noi e per lei, Egon, diventerà un maestro molto più saggio del sottoscritto. Avrei potuto dirle forse qualcosa di più fin dall’inizio, ma temevo che un’eccessiva intromissione nei processi telepatici avrebbe potuto far andare storto qualcosa. E poi non ero assolutamente sicuro di niente, finché ciò che è accaduto stanotte mi ha dato conferma di tante congetture. Ora credo che per lei le cose saranno più facili: il contatto si è stabilito così saldamente che ulteriori probabili comunicazioni telepatiche saranno sempre più importanti e meno dolorose. Quanto a lei, Saja, qualcosa di interessante credo che sarà riservato anche a lei. Del resto vista la compatibilità sentimentale tra voi due, niente di più facile che abbia un Arcipelago compatibile, oltre che con quello di Egon, anche con quello del Golgi!”
Il vecchio psicofilosofo a questo punto sorrise e abbracciò prima Saja e poi, con grande calore, Egon Herrigel il quale non si sottrasse, ma domandò con grande fermezza:
“Dottor Mandel, io ho detto di sapere quasi tutto. Di chi è quello scheletro nella teca, il cui teschio mi parlava attraverso la polvere?”
Era la prima volta che Herrigel apostrofava Sator Mandel col titolo di dottore. E a Mandel non sfuggì l’ironia della cosa, proprio quando gli veniva rivolta la domanda più difficile.
“Egon – disse con molta umiltà lo psicofilosofo, – anch’io non so tutto. Ho cercato per anni di individuare a chi appartenesse quello scheletro, ma inutilmente. Golgi non fa menzione nei suoi scritti né allude mai ad una sepoltura così straordinaria avvenuta nel suo laboratorio. Si potrebbe fantasticare che quelle povere ossa siano dello stesso Golgi, ma ho già fatto accurate indagini paleografiche dalle quali risulta che l’italiano venne seppellito in una normalissima tomba nella sua città. D’altra parte, dal punto di vista archeologico, quella teca parrebbe appartenere a un periodo di qualche decennio posteriore alla morte del biologo. E allora potremmo solo dedurne che il suo corpo venne successivamente esumato e deposto mummificato in questo sepolcro di vetro, ma da chi e perché non lo sapremo mai. Per lo meno io.
“Forse lei. Un giorno…” concluse Sator Mandel, chinando il capo malinconicamente.
Conclusione
Passarono molti mesi.
Per alcune settimane Egon era stato ad aspettare qualche nuova crisi, ma ciò non era avvenuto. Come aveva previsto Sator Mandel, che ogni tanto chiedeva ancora notizie di entrambi, la sua mente e quella di Saja diventavano sempre più sensibili e avide di conoscenza, ma senza traumi: evidentemente ormai l’influsso telepatico dell’Arcipelago Golgi era stabile e costante.
Egon andava spesso a trovare Saja in Biblioteca durante qualche Intervallo d’Assegnazione e, quando questi corrispondevano per entrambi, i due si rifugiavano nella confusione di qualche Box di Accoglienza e Ristoro per scambiarsi le loro nuove reciproche esperienze.
In queste occasioni Herrigel venne a sapere che aumentava il numero delle persone che richiedevano sempre più frequentemente dei libri. Qualcuno si azzardava anche a confidare a Saja che stava imparando a leggere. Altri si aprivano di più fino a confessarle che cominciavano a sospendere senza apparente motivo la Vitalità Energetica Costante e talvolta, più rischiosamente, isolavano tutti gli apparati olovisivi e stereovisivi interni durante la trasmissione dei Messaggi di Orientamento Commerciale. Saja definiva tutto ciò «una benefica epidemia». Chissà… Quando ascoltava tutto ciò, Egon ripensava alle parole del vecchio Mandel: «ci accorgiamo che le cose nell’arcipelago vanno di nuovo cambiando, proprio dal riaffiorare di quei caratteri che tutti credevano estinti» e si convinceva sempre di più che l’influsso dell’Arcipelago Golgi stava incredibilmente espandendosi. Le Dinastie potevano controllare tutti i più elaborati mezzi di comunicazione materiali, ma avrebbero trovato particolarmente complicato farlo con quelli telepatici. E se era vera la notizia che in qualche laboratorio clandestino si stavano di nuovo conducendo esperimenti su tartarughe fossili clonate e riportate in vita, presto sarebbe arrivato il momento in cui molti esseri umani avrebbero potuto sfruttare le proprie capacità telepatiche per riacquistare ed esercitare la facoltà di pensiero libero, senza essere in alcun modo individuabili.
Un giorno Saja si rivolse a Egon, mentre erano seduti intorno a un tavolino del solito BAR, chiedendogli perplessa:
“Egon, ti sei mai domandato perché Golgi ritenesse necessario tramandare a tutti i costi ai posteri la sua personale eredità intellettuale? In fondo questa benefica epidemia è opera sua. I germi li ha sparsi lui. Ma come faceva a sapere che il mondo sarebbe cambiato così?”
Herrigel sollevò lo sguardo dubbioso verso di lei, tintinnò distrattamente col dito sul bicchiere vuoto e disse:
“Io penso che già alla fine del XIX secolo qualcuno nutriva più di un dubbio sul futuro che attendeva l’umanità, e così Golgi affrontò il problema da un altro punto di vista.”
“E cioè quale?”
“Da quello delle tartarughe.”
“Che cosa vuoi dire?”
“Voglio dire che per sapere come vanno a finire certe vicende, bisogna vivere molto, molto a lungo. Come le tartarughe!” concluse ridendo nervosamente Egon Herrigel.
Il giorno dopo Egon ebbe un’altra visione. Anzi, qualcosa di più di una visione.
Appeso alla parete di fronte al suo letto, poco dopo il risveglio, vide un disegno raffigurante quella stessa tartaruga che aveva visto tanto tempo prima dipinta nel quadro di Golgi, in una delle più fantastiche circostanze della sua vita.
Ma, stavolta, questa poteva essere la sua? Ne conservava la nitida forma essenziale ma aveva perso tutti i colori. Era stata eseguita in un puntiglioso bianco e nero, con una matita che Egon, sorpreso, aveva trovato sul comodino, posata accanto ad un contenitore di cartone, che ne racchiudeva numerose altre, datato 1995.
Golgi era morto appena nel terzo decennio del XX secolo.
A chi apparteneva quella matita e, soprattutto, la mano che l’aveva utilizzata?
Camillo Golgi è realmente esistito, ma quanto si dice di lui nel racconto è, ovviamente, frutto di pura fantasia.
Il racconto è stato ispirato dalla visione di alcune opere dell’artista Emilio Cafiero nel 1996.