Le Ore d’Argento.
Questo è il resoconto di un’interessante conversazione a cui partecipai nel 2615, durante un viaggio di avvicinamento alla galassia Magna Mater, a bordo del ricognitore Dyògenex II.
“Caro il mio omonimo fotografo spaziale”, si rivolse con mia grande sorpresa direttamente a me il capitano Lazarus O’Bannon Smith, mentre eravamo a tavola con il Luogotenente Sandez e l’armatore del Dyògenex II Bènefor Lugòsi nella mensa ufficiali, apostrofandomi come suo solito in modo amichevolmente canzonatorio. “Vedrà che prima o poi a forza di viaggiare in mezzo alle stelle si accorgerà, col mutare delle orbite e delle distanze, di una stranezza che vale per tutti noi.” Affermando ciò guardò negli occhi gli altri due commensali, coinvolgendoli in tal modo nella discussione e facendoci capire che stava introducendo un argomento al di fuori delle normali conversazioni di servizio tra ufficiali.
Quindi chiarì approfondendo: “Durante qualsiasi viaggio astrale, anche i soli più scintillanti e luminosi che un’ora prima ti hanno abbagliato col loro splendore dorato, si rimpiccioliranno sempre più attenuando la loro luce, fino a scomparire del tutto. Quello è il momento in cui dentro l’astronave e dentro di te, le ore si allungano e cominciano a trascorrere più lentamente: perdono le loro caratteristiche distintive per rassomigliarsi sempre di più. Quello è il momento delle Ore d’Argento; della luce che si fa oscurità, ma non ancora buio. Quello che il grande poeta del XX secolo Bob Dylan cantava come il ʻNot Dark Yetʼ.”
Allorché O’Bannon tacque, io feci un cenno d’assenso, conoscendo bene la poetica di quel grande artista, mentre il Luogotenente Sandez e Bènefor Lugòsi rimasero impassibili e perplessi, seppure interessati alla questione. Sandez infatti obiettò: “Capitano, io penso che quando la prua dell’astronave viaggia verso l’infinito che si ha davanti, le nostre ore non diventino mai d’argento. Semplicemente, non possono farlo!”
O’Bannon fissò il Luogotenente, mentre Lugòsi mi rivolse uno sguardo interrogativo, domandando un po’ a tutti noi: “Ma non è più importante guardare avanti e seguire la rotta? Ciò che sa di oscurità, per me sa sempre di malinconia!”
“Oh certo, caro Bènefor, lo so! Il nostro compito principale è quello!” assentì O’Bannon. “Ma, Luogotenente” argomentò subito dopo il capitano rivolgendosi a Sandez, “lei come tutti noi ha grande fiducia nel futuro. Quando si vive per centinaia d’anni grazie ai progressi incredibili della medicina di tre secoli fa, non può essere che così. Il passato non c’è più. Non è difficile da ricordare: è impossibile! Di esso rimangono soltanto tracce sparse fuori di noi, qua e là, nell’infinità dell’Universo, di cui soltanto una piccolissima parte è destinata ad essere scoperta. Però proprio noi astronauti che conosciamo l’immensità dello spazio, dovremmo considerare anche quella del passato e conservarne memoria, al di là delle sue reliquie fisiche. Una memoria che però non può essere quella individuale, considerata l’attuale lunghezza estrema della nostra esistenza.”
“Fin qui sono d’accordo”, convenne Sandez. “Ma allora cosa potremmo conservare, e come?”, chiese interessato il Luogotenente.
“Cosa? Beh, forse sarebbe meglio inventarsi una sequela di tracce che testimonino semplicemente che questo passato infinito dietro di noi c’è stato, anche se ormai inconoscibile. Pure se queste tracce autentiche non esistono più, noi potremmo crearne di nuove e spacciarle per tali. Questo compito appartiene alla fantasia dell’arte che non ha limiti. Ecco perché il futuro è bello: perché l’immaginazione sgombrerà il campo dalla folle pretesa di riproporre un passato che non c’è più, e forse non c’è mai stato, se non non nei nostri pii desideri. Come? Sappia, Sandez: quello che non si può immaginare del tutto, si può esprimere anche senza figure reali con dei semplici segni o simboli.” Nel dire ciò il capitano O’Bannon trasse fuori dalla tasca un medaglione riproducente un paesaggio in apparenza antichissimo.
“Lo vedete questo?” chiese. “Questo è un cammeo del XVIII secolo, riprodotto pochi mesi fa nel mio paese natale su Terra Magistra, da un artista digitale con una stampante ultra3D. Chi può dire se questo paesaggio è davvero mai esistito? La gemma è poi del tutto falsa. Però ora c’è. È di fronte ai nostri occhi, perché la fantasia di un artista e le conquiste della tecnologia l’hanno creata. Forse un tempo ci sarà stato un paesaggio davvero così ed un cammeo fatto proprio così!”
A questo punto Lazarus O’Bannon Smith tacque e, quasi a dimostrazione di ciò che aveva appena affermato, distese verso di noi la mano col gioiello sul palmo. Tutti allungammo lo sguardo e, trattenendo il respiro, scrutammo stupefatti quella traccia di un immaginario passato, come se quel paesaggio avesse potuto in qualche modo esistere davvero. E stesse ricordando a ciascuno di noi qualcosa…
“Comunque, queste sono solo chiacchiere a cena di un alticcio capitano al suo compiacente equipaggio, prima di riprendere la rotta vera, in direzione delle stelle!” esclamò allegramente Lazarus. “In fondo, chi è che davvero può curarci dalla malattia inguaribile del tempo che passa e delle Ore d’Argento? Probabilmente solo gli artisti: ci hanno provato e ci proveranno sempre! Noi astronauti possiamo unicamente procedere sulla rotta assegnataci dal nostro ammiragliato verso le galassie. Sperando che sia quella giusta… Quelli che non sono capaci di muovere la mente, muovono il corpo!” concluse sarcasticamente il capitano O’Bannon Smith, congedandoci tutti verso i rispettivi incarichi con un gesto imperioso.

Testo scritto, elaborazioni e rendering digitali di Enrico Smith