Osservatorio Segreto

Osservatorio Segreto

Dieci anni dopo

Continuavano a chiamarle “torri”, ma in realtà erano dei pozzi enormi che sprofondavano nelle viscere della terra, scavati per dare un rifugio sicuro agli esseri umani sopravvissuti alla “malattia delle ombre”.

Ma il ricordo di tempi migliori, quando le vere torri erano tutte in piedi, ancora svettanti verso il cielo, riecheggiava pur sempre nel modo di esprimersi degli uomini. Così quando uno diceva “vado giù”, in verità era per comunicare la sua voglia di risalire fino al livello del suolo, magari utilizzando particolari accorgimenti per difendersi dalle insidie tese dalle ombre ribelli.

Con le ombre che avevano conquistato il mondo della luce e gli uomini precipitati nel mondo delle tenebre, il rovesciamento del significato delle parole era il meno che potesse capitare.


Furono quelli gli anni in cui sentii parlare per la prima volta dell’“Osservatore”, uno che aveva deciso, molto tempo prima – quando i rischi erano davvero molti di più –, di raggiungere la superficie per dare un’occhiata intorno.

Io sono soltanto colui che cercherà di raccontarvi ciò che quel tale fu in grado di vedere. Perché lui, dopo, lo comunicò a me e a pochi altri; difficili da rintracciare adesso.

Sarò ordinato e vi esporrò le sue scoperte un po’ per volta; proprio come lui all’epoca lo fece a mano a mano con noi, nel corso di riunioni sempre più affollate di curiosi, che si svolgevano nei budelli più profondi delle torri. Quello che di mio posso aggiungere è che, come quasi tutti noi, anche l’Osservatore ebbe un “maestro”; anzi più d’uno. Ce lo disse lui stesso, mostrandoci alcuni vecchi cataloghi d’arte che custodiva gelosamente e che, almeno agli inizi della vicenda, faceva vedere in giro a poche persone: soltanto quelle che, secondo lui, potevano – come ribadiva volentieri – «guardare la sua anima senza portargliela via».

In quei libretti sembrava essere preconizzata buona parte del futuro. Innumerevole tempo prima un pittore e uno scrittore avevano congiunto le loro visioni: con la nitidezza delle pitture e con il rigore delle parole avevano profeticamente rivelato ai loro contemporanei quello che sarebbe successo molto più tardi.

Questo almeno era quanto sosteneva l’Osservatore.


L’Osservatore aveva cominciato le sue escursioni prendendo in continuazione gli ascensori delle torri più vicine e a fare su e giù, tornando di frequente alla superficie per andare a vedere le vetrine abbandonate e qualche volta a fotografarle.

Successivamente, prima che il suo andirivieni potesse suscitare troppi sospetti, aveva anche fatto domanda all’Autorità del Sottosuolo per ottenere il permesso di essere teletrasportato a Londra e a New York, dove i mitologi erano convinti fossero state allestite nei tempi andati le più belle vetrine del mondo.

Costoro inoltre asserivano che nessuno avrebbe mai potuto rendersi conto di quello che erano state le città della superficie, se non avesse avuto la possibilità di constatare di persona la magnificenza delle vetrine e dei negozi che queste costellavano.

C’è da aggiungere però che sconsigliavano vivamente a tutti una tale esperienza, «in quanto – dicevano – c’era da restare senza fiato e perdere la testa».

Letteralmente.


La prima volta che ascoltai la voce dell’Osservatore fu ad una strana riunione di vecchi curiosi e appassionati d’arte, sotto al naso dei quali lui sventolava quei logori cataloghi che vi dicevo.

M’impossessai di uno di questi gettato negligentemente su un vecchio tavolino per dargli un’occhiata. Lessi subito con avidità le prime parole di un’intervista riportata all’interno fatta dallo scrittore all’artista.

Tutta la conversazione era colma di riferimenti ad antichissimi classici, di culture lontane nello spazio e nel tempo – di cui io stesso a malapena avevo notizia –, che mi risucchiarono in un gorgo di sensazioni e di emozioni fino ad allora mai provate per il sapiente utilizzo, lento e scandito, di parole chiare e precise proprio come le immagini che vi erano riprodotte: evidentemente il pittore e lo scrittore avevano parecchie convinzioni in comune. Erano concetti e figure che andavano assorbiti e meditati con cura e piacere, senza fretta. Mi appassionai così tanto che stavo per perdere la cognizione del motivo che mi aveva spinto a quella riunione e cioè il ruolo dell’Osservatore stesso.

La cosa che m’impressionò maggiormente fu che quel testo, scritto per descrivere la personalità dell’antico pittore recensitovi, cominciava con una frase che sarebbe stata appropriatissima per definire il comportamento e l’atteggiamento dell’Osservatore nell’esporre i suoi punti di vista. Infatti egli argomentava con frasi e parole dal senso e dal significato propri, per niente affatto travisabili, e se ne dimostrava estremamente capace.

«Non è possibile che continuino a prenderci l’anima. Loro e i loro maledetti aggeggi tecnologici! Se devo vedere una cosa, non posso guardarla attraverso una serie di lenti e di raggi catodici ripetuti all’infinito. Sarebbe già troppo una sottile lastra di vetro: come al tempo delle “vetrine” che ci hanno condotto fino a questo punto. Non siete d’accordo?»

Fui riportato alla realtà della situazione dalla perentorietà della domanda; non potemmo che annuire tutti noi presenti e manifestare ancora di più la nostra attenzione.

«Il mondo poco prima della catastrofe era pieno di segni – riprese a dire il nostro anfitrione –, ma nessuno di questi era capace di rimandare a significati più profondi che non fossero il possesso e il consumo, qui e ora, degli oggetti a cui si riferivano. Così il pianeta s’è ridotto a quella spelonca sotterranea ch’è adesso. Quella che tutti definirono la “malattia delle ombre” non fu la causa della catastrofe, ma l’effetto.

«Bisognava fare silenzio, e cominciare ad ascoltare. Non c’è stato nessuno, tranne quest’artista – e così dicendo indicava un secondo catalogo che anch’io tenevo in mano –, che sia stato capace di trasformare semplici segni in veri e propri simboli, capaci di metterci in guardia e di farci cambiare rotta! È incredibile come quel pittore e il suo amico scrittore abbiano previsto le vicende che sono poi accadute tanto tempo dopo di loro e ce le abbiano descritte e narrate. Le loro immagini e i loro personaggi sembrano proprio i protagonisti della nostra tragica storia più recente.»

«Io, in tutti i miei viaggi lassù – insisteva l’Osservatore, indicando l’incommensurabile distanza che separava il soffitto buio del nostro anfratto dalla superficie terrestre sopra di noi –, sono stato capace di guardare soltanto quello che stava davanti alle vetrine della superficie; l’artista di cui parlo invece aveva già visto, ai suoi tempi, quello che c’era dietro a quelle maledette vetrine!

«Solo ora io l’ho capito, forse. E tenterò di spiegarlo a tutti voi.

«Fratelli, chiudete le porte che danno sui corridoi di fuori e statemi ad ascoltare attentamente. Parlerò sottovoce ma chiaro. Dopo che avrete sentito quello che ho da dirvi, non muoverete più i vostri piedi con la stessa tranquillità di oggi. Perciò se avete paura delle conseguenze andatevene adesso, prima che sia troppo tardi. Non si può mai conoscere tutta la verità, ma soprattutto non si può sapere se quello di cui si viene a conoscenza non sia più pericoloso della nostra precedente ignoranza.»

Dopo un generale brusio di consultazioni scambievoli, si sentirono solo pochi scalpiccii di passi che si allontanavano in fretta. Ci fu poi un lungo intervallo di silenzio.

Fino a quando iniziarono ad udirsi gli schianti delle porte che si serravano, una dietro l’altra, sui cunicoli esterni.

Attenzione alle vie respiratorie

C’è un angolo di strada che dà su un’ampia piazza tutta da immaginare, poiché il riflesso della vetrina ci restituisce solo la visione del cielo, in alto, e della sommità dei palazzi, poco più in basso. Dietro al cristallo della vetrina sono imprigionate quattro donne manichino sistemate davanti ad un paravento che impedisce loro perfino di voltarsi all’indietro.

Il rosso acceso dei loro abiti e dei loro accessori si accompagna a quello delle labbra turgide di rossetto e concorre ad individuarle facilmente in caso di fuga, schiave della loro stessa apparenza. Ma sono impaurite: lo si vede dagli sguardi che fissano l’orizzonte in diverse direzioni, tutte ben oltre la cortina di vetro che le blocca davanti a quella piazza che, trovandosi alle nostre spalle, noi possiamo solo immaginare, non vedendone altro che i frammenti proiettati attraverso il riflesso del cristallo.

Un sorvegliante con maschera antigas ne controlla i movimenti e si assicura che il loro comportamento si conformi senza improprie deroghe e interruzioni a quello specifico dei manichini, ossia assecondare coi corpi e coi gesti la perfetta aderenza della linea e del panneggio degli abiti che indossano alle fattezze del corpo degli umani.

Sembra quasi che stiano cercando di respirare appena appena un po’ meglio. Il sorvegliante ha già indossato la maschera antigas, ma loro devono provvedere da sole risparmiando il fiato e cercando l’ossigeno rimasto nello spazio angusto della vetrina.

Non hanno sentito parlare ancora delle ombre e della loro ribellione.


L’Osservatore era stato teletrasportato a Londra soltanto un’ora prima e già si trovava nel mezzo dell’atmosfera luminosa ma ostile dei quartieri centrali, circondato da palazzi secolari ormai da tempo disabitati.

Era stato ammonito dei pericoli che avrebbe dovuto affrontare, primo fra tutti la generale rarefazione dell’aria respirabile – dovuta all’eccessiva diffusione dei microrganismi scaturiti dalle epidemie dei secoli precedenti – e alla sua distribuzione a macchia di leopardo, per cui mentre in alcune zone della città si respirava in modo normale, o almeno accettabile, in altre ci si poteva ritrovare addirittura senza fiato, spinti perciò all’azzardo di transitare in vicoli pericolosamente oscuri alla ricerca spasmodica d’una boccata d’aria e disposti a ottenerla anche a costo della perdita della ragione.

Non c’era alcuna traccia di vita umana. Solo vetrine e vetrine di uffici deserti e negozi incustoditi, da dove tutta la merce era sparita sotto gli occhi apatici, nella maggior parte dei casi, di manichini indifferenti.

Purtroppo, però, i pericoli ormai non provenivano più dalla tanto proverbiale crudeltà umana, talvolta inimmaginabile ma sempre prevedibile. Il pericolo giungeva sconosciuto, nelle forme più diverse e inaudite, con l’unico ineluttabile e intuibile risultato della sparizione o della follia delle vittime. Né mai si erano ritrovati cadaveri, neanche a riprova delle più abominevoli e ripugnanti forme di decesso: le temerarie squadre di rastrellamento e recupero, che periodicamente venivano inviate sulla superficie, non avevano mai potuto rinvenire alcuna spoglia. Soltanto in qualche caso avevano ritrovato dei poveri ossessi urlanti ancora vivi, che al termine della missione erano stati ricondotti nella sicurezza delle profondità del sottosuolo; al prezzo, forse peggiore, di una morte lenta e sordida, posticipata nei più profondi cunicoli isolati dal resto delle colonie sotterranee, dove quei poveretti venivano destinati, segregati e dimenticati dai loro congiunti, ignoti ormai perfino a se stessi.

Era una scena che a lui pareva di avere già visto, conservata in un brandello di memoria lasciato nelle profondità del pozzo di provenienza.

Una memoria che fino a quel momento non aveva avuto la consistenza piena e convinta dell’esperienza esistenziale, ma solo quella più vaga e indistinta dell’arte e della spinta inconsapevole alla conoscenza.

“Attenzione alle vie respiratorie” olio su tela cm 120×240 anno 2004

Mano a mano

La donna manichino, nelle vicinanze della fermata posta proprio davanti alla vetrina, è in attesa del mezzo pubblico che passerà a minuti, se l’orario consueto verrà rispettato. Guarda nervosamente il traffico che scorre a rilento nella strada in tutti e due i sensi di marcia.

Anni prima (quanti?), in un soffio mentale delicato come il volo d’una farfalla, si sentì comunicare da parte di un inquieto manichino suo compagno di vetrina per qualche giorno felice – e quelle parole non le ha mai potute dimenticare –: «Non si può mai conoscere tutta la verità, ma soprattutto non si può sapere se quello di cui si viene a conoscenza non sia più pericoloso della nostra precedente ignoranza.»

Talvolta, per conoscere veramente, è necessario separarsi da qualche cosa che fino ad un momento prima è stato da noi considerato ben più che un rifugio sicuro: addirittura la nostra unica e indubitabile condizione di vita.

Proprio ieri le hanno fatto indossare i migliori abiti ed accessori della collezione stagionale; alla fine della cerimonia le sue colleghe e colleghi, tutti presenti in vetrina e anch’essi partecipi dello stesso rito, quando l’hanno vista ormai completamente abbigliata, le hanno rivolto degli interminabili muti complimenti, non molti sinceri – alcuni addirittura invidiosi –, tendendole le mani gelide e rigide.

Ma le mani esperte e leggere dei vetrinisti, che fino a quel momento l’avevano toccata addobbandola come un albero natalizio d’esposizione su quel palcoscenico di cristallo, le erano parse ancora più crudeli e ruvide: come quelle d’un macellaio poste sulla sua ignara vittima, poco prima dell’atto finale.

Così ha deciso definitivamente che quella sarebbe stata l’ultima volta.

Il limite quasi invisibile del cristallo per lei non costituirà più un ostacolo: lo oltrepasserà senza rimpianti. Per questo sta attendendo.

Ha saputo delle ombre che avrebbero cominciato a ribellarsi addirittura ai loro stessi proprietari esseri umani, anche a costo di rischiare la scomparsa separandosene per sempre.

Ha pure sentito dire che cercano alleati in questa loro lotta per l’emancipazione e che li stiano trovando negli innumerevoli oggetti che gli umani producono senz’altro scopo che lo sfruttamento diretto. «Il mondo è diventato un’immensa raccolta di merci,» – le ha comunicato qualche giorno fa un loro emissario – «come diceva un antico filosofo. Se gli uomini non si ribellano più, lo faranno gli stessi oggetti che loro creano incessantemente; e i primi a farlo dovreste essere voi manichini, parodie grottesche della loro pretesa individualità.»

E Charlize, così l’hanno denominata i vetrinisti per via del trucco dopo quella ridicola vestizione, lo farà salendo sul primo autobus che passerà davanti alla sua vita.

L’unica cosa che teme è la mano alzata d’un poliziotto che le sbarri la strada prima del successivo incontro fissato con l’Emissario.


L’Osservatore stava percorrendo un viale ormai deserto, dove un tempo una strada ad intenso traffico aveva sicuramente visto un’enorme quantità di pedoni e di autobus scorrere in su e in giù davanti ad un impressionante numero di vetrine.

Tutta quella desolazione gli aveva fatto scaturire nella mente ogni sorta di considerazioni su quello che era stato il destino suo e quello dei suoi simili.

Non avrebbe mai pensato che gli uomini sarebbero giunti ad un tale grado di abiezione da fare ribrezzo persino alle proprie ombre. Ecco perché costoro alla fine insorsero e se ne andarono via, costringendo gli uomini a vivere nelle tenebre: il solo posto dove avrebbero potuto sopravvivere privi delle loro ombre.

Poi il tempo era passato. Alcuni dicevano secoli. La superficie del globo era diventata di nuovo abitabile, sia pure con una buona dose di prudenza e per brevi periodi. I temerari che come lui vi si avventuravano dopo tanto tempo, vedevano dietro di sé nuovamente la scia di una pallida ombra che li seguiva alla luce del giorno, ormai senza aggredirli. Il tacito patto era che ognuno ritornasse sempre nella profondità protettrice delle torri, per evitare attacchi sconsiderati dei pochi ma sanguinari ribelli rimasti e contagi tanto improvvisi quanto misteriosi.

Adesso si ritrovava di fronte ad una di quelle vetrine che aveva già visto, riprodotte sulle tele di quell’arcaico pittore, sfogliando l’antico catalogo che chissà come era arrivato nelle sue mani, superando intatto il trascorrere del tempo.

Ormai considerava suo preciso compito radunare insieme le vedute che la città deserta gli presentava davanti agli occhi, con l’intenzione di creare una specie di archivio mentale da conservare nei ricordi insieme con le immagini e le parole dei suoi preziosi cataloghi, per riproporre il tutto – un giorno, allorché fosse arrivato il momento opportuno – alle riflessioni dei suoi simili mettendoli in guardia e cercando così d’impedire il verificarsi di una seconda catastrofe.

Osservò meglio il manichino al centro della vetrina.

Il pittore, come se innumerevole tempo prima avesse intuito quello che poi sarebbe davvero accaduto, aveva colto nello sguardo del manichino raffigurato l’inesprimibile inquietudine di una cosa apparentemente senza vita: un travagliato desiderio di fuga e d’insubordinazione. La figura femminile reale del manichino, ora davanti a sé, lasciava trasparire dagli occhi la stessa incerta e triste cognizione esistenziale del futuro, che era possibile cogliere nella figura rappresentata nel quadro.

Nella realtà di fronte a lui, l’unico elemento mancante era la mano alzata nel segno dell’alt del poliziotto.

“Mano a mano” olio su tela cm 120×240 anno 2003 _ 2004

Look right

Anche se è stata segnalata la sua scomparsa dal luogo d’esposizione, nessuna guardia l’ha individuata né tanto meno fermata.

Senza intoppi Charlize è scesa dall’autobus nel punto che le è stato subliminalmente comunicato. Le ombre hanno imparato a farlo per evitare le rappresaglie degli uomini e sanno insegnarlo a tutti quelli che percepiscono stare dalla loro parte.

Si guarda intorno ma non vede nessuna faccia amica. Dubita per un momento che forse è stata tutta una burla o, peggio, un raggiro ordito contro di lei con chissà quali fini.

Poi reagisce e decide di non rimanere ferma lì, imbambolata. Sa comunque che è molto difficile trasmettere qualsiasi intento ingannevole per via subliminale. La ragione si esprime con concetti e parole, e le parole possono ingannare; l’intuito al contrario comunica attraverso immagini e sensazioni, e le immagini non possono ingannare; neanche quando, essendo oscure, necessitano di lunga e laboriosa interpretazione.

Si mette a camminare con cautela. Tiene ben stretta a sé la borsa in cui prima di salire sul bus ha buttato quel poco che riteneva potesse occorrerle. Percorre a passo svelto il boulevard che le sta di fronte per voltare poco dopo a sinistra, sulla grande strada che lo attraversa.

Finalmente qui, all’angolo di un lussuoso edificio, scorge con sollievo dietro una grande vetrina quello che sa essere l’Emissario. È un manichino uomo accompagnato da un altro con l’incarnato scuro e dai lineamenti marcati che chiamano l’Orientale.

Lei si è voltata a destra e ha incrociato lo sguardo di lui che ha fatto altrettanto. Si sono immediatamente riconosciuti. Una scritta cifrata sull’asfalto e un’ombra che tiene d’occhio la situazione le fanno capire che ha imboccato la via giusta.

Charlize ha trovato dei nuovi compagni e si è lasciata il riflesso della vetrina definitivamente alle spalle.


Qualcuno tempo prima aveva rimproverato all’Osservatore l’eccessiva cura con cui ricercava e custodiva antichi cataloghi d’arte: a cosa sarebbe servita un’eccentricità del genere nei profondi budelli delle torri? Non sarebbe stato meglio per tutti che si fosse occupato di più pratiche forme di sopravvivenza?

A tutti costoro lui rispondeva che era proprio da quei cataloghi che si poteva dedurre la forma del mondo passato; una forma che ormai nella coscienza di ciascuno di loro non era altro che una ricostruzione mentale, frutto di centinaia d’anni di memorie e di resoconti nei quali si mescolavano testimonianze veritiere e fantasticherie visionarie, della cui eredità si faceva indistintamente tesoro al di là di qualsiasi ragionevole prova. Era quindi difficile vagliare il grano dal loglio, per individuare una credibile traccia che avrebbe potuto in qualche modo condurre alla scoperta delle cause delle antiche malefiche calamità e delle possibili soluzioni per porvi rimedio; o per evitarne il ripetersi almeno in futuro.

Inoltre l’Osservatore di una cosa era certo: in quei cataloghi erano contenuti, insieme alle loro opere, anche i nomi e i pensieri di quegli autori che potevano essere considerati dei “maestri”.

Nelle citazioni del loro pensiero, che caratterizzavano buona parte di quei cataloghi, era racchiusa, secondo lui, la chiave non solo per interpretare gli enigmi del passato, ma anche per affrontare le difficoltà del presente e del futuro.

È così che nomi per lui all’inizio sconosciuti come Wittgenstein, Foucault e Jung, Dylan, Poe e Shakespeare, tra gli altri, l’avevano portato a congetturare di un’età in cui le parole erano pensiero – e il pensiero non poteva nonessere parola, concetto, proposizione –, non certo quelle inutili ripetizioni di schematismi e condizionamenti verbali in cui si erano successivamente tramutate, a causa dei pervasivi linguaggi, imposti dai “signori della comunicazione” nelle epoche successive, che avevano soppiantato con la loro compiacente prepotenza rappresentativa quelli dei filosofi e degli artisti, di coloro cioè che erano stati fino ad allora i veri autori della formazione del pensiero intellettuale.

Questa trasmutazione si era riverberata sul comportamento stesso degli esseri umani; cosicché – si raccontava – l’umanità per un certo periodo aveva addirittura disimparato a leggere, non avendo più la necessità di riflettere criticamente sul significato delle parole che usava e sul senso della vita che conduceva, essendole entrambi imposti artificiosamente dall’esterno.

Ed egli aveva trovato conferma di questa storica parentesi degenerativa proprio nella stupefacente previsione delineata nella trama ispiratrice di uno di quei bistrattati cataloghi, così anteriori al tempo in cui tali problemi si erano poi effettivamente posti in tutta la loro gravità. Probabilmente già ai loro tempi questi nobili maestri dell’arte e del pensiero avevano colto i segni reali, non solo fantastici, dello stravolgimento che la specie umana stava subendo.

Come gli sarebbe piaciuto verificare di persona quali fossero state e quando fossero cominciate le deviazioni che forse avevano male indirizzato l’esistenza degli uomini di qualche secolo prima, portandola ad una inesorabile disgregazione!

L’Osservatore era convinto che anche di fronte alle vetrine delle strade di alcune città, dipinte e raccolte in un altro dei suoi cataloghi degli inizi del ventunesimo secolo, potesse trovare una delle risposte ai suoi assillanti interrogativi. Anche perché la storia narratavi cominciava inspiegabilmente a coincidere con la sua.

In fondo era stato a causa di tutto ciò che adesso si trovava all’angolo di quella strada ad osservare due manichini maschili, vestiti di rosso e di jeans, che parevano scrutare sospettosi proprio verso di lui.

“Look right” olio su tela cm 100×120 anno 2004

Charing Cross

Charlize ha seguito i suoi due compagni silenziosamente, seguita a sua volta dall’ombra che, a distanza, non perde di vista tutti e tre.

Arrivati in prossimità della stazione di Charing Cross, mentre l’ombra che li ha seguiti discretamente fino a quel momento si dilegua, l’Emissario le rivolge un cauto sorriso indicando una vetrina dietro alla quale un sottile manichino donna sembra attendere le prossime mosse dei tre colleghi che vede al di là del cristallo.

Il manichino, posto nella vetrina del magazzino situato proprio di fronte al palazzo dell’Austin Reed, è abbigliato in modo trasandato tanto da sembrare diafano e ancora incompleto.

Il pensiero arriva alla mente di Charlize improvviso e indiscreto come la suoneria di un messaggio telefonico. Thin Lizzy – così dice di chiamarsi l’androgino manichino – la sta aspettando per condurla fuori città e farle incontrare la principale comunità di ribelli. L’Emissario e l’Orientale andranno con loro, perché il trasferimento potrebbe non essere privo di sorprese. Charlize si sente sollevata al pensiero che qualcuno le accompagni.


Giunto all’altezza di Charing Cross l’Osservatore voltò a sinistra e si sorprese a immaginare quale tragitto compiere prima d’intraprendere la via del ritorno. Era la prima volta che sentiva il bisogno di ritornare sotto terra così presto.

Dietro una vetrina lo guardava un manichino dalle fattezze androgine.

Fu quello il preciso istante in cui percepì distintamente, per la prima volta, la marea montante dei pensieri telepatici penetrare all’interno del suo cervello alla ricerca frenetica dei suoi, sfruttando i riflessi delle vetrine di cristallo come un etere elettromagnetico.

“Charing Cross” olio su tela cm 100×120 anno 2004

Osservatorio segreto

Colei che tutti nell’ambiente chiamavano “La Spina” per i suoi atteggiamenti duri e spigolosi, attendeva solitaria l’ennesima vestizione. I vetrinisti a cui era d’abitudine affidata l’avevano momentaneamente abbandonata sul retro della vetrina ancora da sistemare. Avevano lasciato di fianco a lei lo stereo acceso che accompagnava con la sua musica sempre a tutto volume i loro gesti ripetitivi, e gli altri vari attrezzi adibiti alle necessarie pulizie e al riassetto del piccolo spazio.

La Spina si era voltata dall’altra parte, un po’ per non continuare a sentire l’insulsa musica che i lavoranti si ostinavano ad ascoltare durante lo svolgimento delle loro mansioni, poi anche per evitare l’odore disgustoso di sudore e di detergente che i vetrinisti avevano lasciato, come ogni volta, dietro di sé.

Ma la ragione principale che aveva attirato il suo sguardo dall’altra parte, al di là del cristallo, era stato il transito di due umani che si tenevano affettuosamente vicini l’una all’altro, completamente abbandonati in una tenera conversazione d’amore. Le loro frasi e i loro sentimenti, che lei telepaticamente era stata capace di percepire molto prima che i due passassero lì davanti, erano diversissimi da quello che sentiva dire sull’amore, e sul sesso in genere, dai vetrinisti che si occupavano di lei.

L’idea che quei porci, una volta tornati dalla loro pausa di lavoro, le mettessero ancora una volta le mani addosso fu così insopportabile che le fece prendere la decisione definitiva.

Inoltre, conoscendo bene le sue compagne, era sicura che non l’avrebbe presa da sola.

“Osservatorio segreto” olio su tela cm 100×120 anno 2004

Ciclo 3

«Il Primo Ciclo s’avviò nel 1789 in Francia; il Secondo iniziò nel 1917 in Russia. Ora stiamo aspettando il Terzo Ciclo, quello definitivo! Quello che vedrà alleati uomini, manichini ed ombre verso l’obiettivo improcrastinabile della Rivoluzione Finale. E così come gli antichi cristiani dissimularono la loro presenza sotto l’immagine del Pesce, segno del loro sacro acrostico, tutti noi qui radunati dissimuleremo l’avvento della nostra era rivoluzionaria con il semplice segno di un Ciclo accompagnato dal numero Tre, sfruttando la doppia accezione della parola “ciclo”!»

L’oratore parlava con toni da invasato, usando argomenti pretestuosi e semplicistici ai quali la folla degli intervenuti rispondeva con urla becere ed entusiaste.

Solo uno sparuto gruppo di manichini cercava di non lasciarsi travolgere da quel febbrile entusiasmo, conservando un atteggiamento freddo e razionalmente scettico.

Charlize era una dei pochissimi che li avessero notati.

“Ciclo” olio su tela cm 100×120 anno 2004

Dangerous

Era la prima volta che Charlize si trovava in mezzo ad una riunione proibita. Le sensazioni che provava erano contrastanti: da una parte paventava il pericolo di essere scoperta insieme a tutti gli altri – manichini, ombre e pochi umani ribelli – mentre cercavano di organizzare i primi atti di liberazione collettivi; dall’altra però provava anche una sorta di inadeguatezza percependo, a quel livello rudimentale d’organizzazione, l’inutilità e il velleitarismo di certi gesti di ribellione.

Non era possibile, però, che la quasi totalità degli esseri umani continuasse a passeggiare indifferente a pochi passi di distanza, mentre loro cercavano di cambiare il destino di tutti!

Fu l’indignazione procuratale da questa constatazione che la fece d’istinto allontanare in fretta per andare a comporre un numero telefonico d’emergenza che i radunati avevano segnato in bella mostra su un falso cartello, posto ad alcuni metri dal luogo della riunione.

“Danger” olio su tela cm 100×120 anno 2004

Postazione 1

L’Osservatore aveva ricevuto la telefonata di Charlize proprio mentre passava davanti ad un megastore abbandonato immerso nella penombra.

Era la prima volta che, durante tutte le sue scorribande sulla superficie, si sarebbe visto con un manichino che aveva la dichiarata intenzione di comunicare direttamente con lui.

Così, una volta incontratisi di persona e celati dalla penombra, i due si erano fermati a lungo dietro una vetrina poco appariscente e mal conosciuta.

L’Osservatore, sempre più sorpreso, aveva sentito non solo le parole ma anche i pensieri di Charlize fluire dentro di lui e accarezzare i suoi.

Osservato di lato

Charlize – completamente trasformata rispetto a qualche tempo prima – lo aveva reso edotto di come fosse arrivata fin lì e gli aveva raccontato tutta la sua esperienza.

I manichini, volendo veramente liberare se stessi e gli altri, avrebbero saputo sfruttare la loro intera vita – molto più lunga rispetto a quella degli umani – per tramandarsi tutte quelle conoscenze che proprio gli umani avevano accumulato da lungo tempo, ma che ora sembravano voler dimenticare ad ogni costo.

Questo sarebbe stato anche il suo compito, e Charlize fu estremamente dolce nel trasmetterglielo: egli avrebbe dovuto radunare e conservare quanta più conoscenza possibile, per trasmetterla e utilizzarla nella maniera migliore possibile, in vista di una futura liberazione.

Nessuno avrebbe dovuto illudersi che questo sarebbe potuto avvenire in poco tempo; forse non sarebbe neanche mai avvenuto.

Ma sarebbe comunque valsa la pena di tentare.


L’Osservatore ha proseguito in mezzo a vicoli bui che crede abbandonati, ma che ora sa essere popolati da abitanti nascosti che, lontani dai riflessi ormai insopportabili delle vetrine, si rifugiano lì, a mezza strada, rinchiusi nel limbo posto tra una fuga verso la libertà, tanto istintiva quanto incerta per tutti, e una rivoluzione, di là da venire, che possa sottrarli definitivamente dal loro stato angoscioso di apolidi dell’esistenza.

Direzione obbligata

Colei che tutti ormai conoscevano come “La Spina” parlò in tono basso ma fermo.

«La nostra decisione – comunicò con durezza la donna manichino, mentre l’Osservatore ne percepiva lo sguardo fisso su di sé da dietro gli occhiali scuri – è ormai presa. Di fronte a noi abbiamo una direzione obbligata. Non possiamo continuare a farci impostare, truccare, vestire e agghindare per sempre, così come vorrebbero gli umani. Ci hanno reso tutti servi e il risultato lo puoi ben vedere in questa vetrina: fra poco le mie compagne ed io sfonderemo quel cristallo che sta di fronte a noi e ci getteremo per la strada, qualunque essa sia. D’altronde non cominciarono così anche le ombre, quando cominciarono a staccarsi nauseate dai corpi umani per procedere da sole?»

L’Osservatore la stava ad ascoltare affascinato. Con stupore si rendeva conto che chi gli parlava era un manichino la cui bocca non si muoveva, eppure quelle parole fluivano libere nella sua mente.

«Guardati intorno – continuò La Spina – e ti accorgerai che sei rimasto il solo degli esseri umani che ancora si azzarda a venire in superficie a vedere in quale genere di lager gli umani ci hanno costretto.

«Non è un caso che tutti quelli come te abbiano accettato senza fiatare questo destino. Non ci sono mai stati pozzi o epidemie. Voi avete voluto assomigliare agli umani continuando a vivere insieme a loro, noi no. Questa è stata e continua ad essere l’unica vera catastrofe: che altro genere di mondo può concepire un manichino se non quello di una tenebra infinita che si dissolve soltanto dietro la luminosità di una vetrina? Il mondo degli umani continua ad essere quello di sempre perché sopravvive grazie alle paure dei manichini come te che continuano ad accettarlo. Perciò, se volete provare il brivido di continuare ad essere dei finti umani che vivono nelle tenebre, accomodatevi pure. Noi però siamo stufi.»

«Un momento – le si rivolse dubbioso l’Osservatore –, perché parli come se io non appartenessi agli esseri umani e fossi anch’io un manichino?»

« Tu sei un manichino. Possibile che non l’abbia ancora capito? Non sei tu quello che ama i cataloghi d’arte? Beh, non ti sei accorto che stavolta non era la solita illusione? Stavolta sei tu stesso il protagonista e la storia degli altri raccontata nel catalogo coincide con la tua. Prendere o lasciare, amico. Non puoi più chiudere il libro e rifletterci su insieme ai tuoi ascoltatori, manichini e no, che ti stanno a sentire a bocca aperta nell’illusione delle tenebre, nelle viscere incantate della terra dove vi siete tutti rintanati per sfuggire alla realtà delle nostre prigioni di cristallo. Anche la tua è una direzione obbligata.»

«E stavolta ci sei dentro fino al collo», concluse La Spina con un sorriso beffardo dopo una pausa di allusivo silenzio.


Sul lato opposto

È da quel giorno – ci ha detto lui stesso – che l’Osservatore ricerca e conserva cataloghi, sale ogni tanto su in superficie per ritrovare, dietro le vetrine, tracce di quel vecchio mondo distrutto dall’ignoranza e dall’epidemia, dopo che i manichini e le ombre ebbero fallito la loro ribellione.

Ma soprattutto continua a riunirci di nascosto nei sotterranei più profondi per raccontare, a noi che lo stiamo ancora ad ascoltare come la prima volta, tutto quello che ha visto e che sa, mostrandoci tutti i suoi vecchi cataloghi e invitandoci ostinatamente a leggerli.

Poi ci chiede a bruciapelo, con intonazione sincera: «Le tenebre che ci circondano sono reali; è così, no? Non sono una nostra invenzione, non è vero? Anche voi vivete sottoterra, come me. O no?»

La reazione costante dell’uditorio a questa sua frequente domanda è duplice.

Alcuni si mettono a ridere, pensando all’ennesima ripetuta metafora dell’Osservatore.

Altri, me compreso – e sono la maggioranza –, lo rassicurano ribadendo la realtà delle tenebre e delle pareti scoscese e profonde che separano tutti quanti noi dalla superficie luminosa della terra.

Non parla più direttamente di manichini, anche se talvolta ne nomina due in particolare: una certa Charlize e “La Spina”. E quando pronuncia i loro nomi la sua espressione si fa comunque turbata e perplessa, nonostante le nostre rassicurazioni.

Non abbiamo mai avuto segnali preoccupanti dall’esterno, ma l’atteggiamento dell’Osservatore è sempre più teso ed inquieto.

Come se temesse di non aver più troppo tempo a disposizione.

“Pedoni sul lato opposto” olio su tela cm 100×120 anno 2004

Rilmount

Come vi dicevo al principio, quelli furono gli anni.

Furono gli anni in cui udivamo parlare di persona l’“Osservatore”, con sempre maggiore partecipazione e veemenza. Ci illustrava ordinatamente le sue esperienze, come se fossero la sua preziosa eredità: un’eredità che assolutamente qualcuno avrebbe dovuto raccogliere. E talvolta, dall’intonazione insinuante della sua narrazione, lasciava intendere come sarebbe stato felice se i suoi eredi predestinati fossimo stati proprio noi, che lo avevamo ascoltato fin dagli inizi.

Per dieci anni ci aveva raccontato di segni ed emozioni, di ombre e di silenzio; di decine di manichini dalle espressioni parlanti – lui riferiva proprio di parole –, di centinaia di vetrine e di migliaia di riflessi che lo avevano obbligato a deviare il suo sguardo verso innumerevoli direzioni, tra le quali a mala pena era riuscito ad individuare il filo conduttore indispensabile a decifrare il senso ed il significato nascosto di tutto ciò che lo circondava.

E tutto ciò che aveva visto e vedeva, egli ce lo raccontava in modo tale che non riuscivamo mai a comprendere del tutto se stesse alludendo ad una risalita di qualche ora o di qualche anno prima, quando lui, emergendo dalle torri più profonde, aveva cominciato le sue escursioni in mezzo alle vetrine delle città, via via di mezzo mondo. Ma soprattutto ci apostrofava con l’evidente intenzione di coinvolgerci nella sua ricerca continua d’acquisizione di senso e di verità, affinché un giorno potessimo dimostrarci anche noi autonomi e capaci di procedere risolutamente oltre, anche senza di lui.

S’infiammava del suo discorso specialmente quando, parlandoci dei manichini che aveva conosciuto, sembrava quasi attribuire loro sentimenti e reazioni umane, tali da costituire anche per lui una sorta d’avvertimento sul suo e sul nostro futuro. Naturalmente, quando ci raccontava di queste avventure, per noi era come penetrare in un mondo fantastico, quasi quanto quello illustrato nei cataloghi che continuava a sbandierarci sotto il naso.

Quello che oltremodo ci stupiva era la convinzione di verità che egli sembrava attribuire anche alle storie più incredibili. Noi tutti ci aspettavamo che neppure lui credesse fino in fondo a quello che talvolta andava esponendo, e che narrasse tutte quelle sue vicende, anche le più fantasiose, per il gusto amabilmente affabulatorio che i più dotati hanno verso i meno avveduti, però disponibili, comunque, all’ascolto. Invece spesso la sua narrazione si faceva accorata; i suoi occhi mobili, abituati ad osservare tutto, si fissavano verso di noi e la sua bocca pronunciava più o meno sempre le seguenti enigmatiche parole:

«È stato completamente inutile sprofondare in tutte queste torri. La realtà, per quanto temibile, è lassù in superficie, dove i manichini che ancora sopravvivono hanno imparato a pensare e a comunicare con tutti, non solo fra di loro. Dovrete risalire in alto prima o poi ed affrontare una nuova situazione. Una situazione che non vi sareste mai aspettata.»

Immancabilmente in queste occasioni Rilmount, uno degli scavatori più esperti il cui numero di matricola era conosciuto più o meno da tutti noi e al quale mi piaceva mettermi sempre accanto per la sua brusca ma stimolante schiettezza, commentava sarcastico sottovoce, storcendo la bocca in un’espressione sempre più scettica e strofinandosi le grosse mani sulla tela ruvida della tuta: «Già, pure io da domani vorrei smettere di scavare e tornarmene su, in superficie, all’aria aperta! L’Autorità del Sottosuolo non mi è mai stata simpatica, ma è anche l’unica che fino a adesso mi ha dato da mangiare e da bere. L’Osservatore non lo sa come si campa? Che ci si deve nutrire, e poi vestire e fumare?»

«Certe cose – aggiungeva Rilmount dopo un po’, in tono più cupo e ponderato – non le puoi fare uno per volta, di punto in bianco e da solo, come ha sempre fatto lui. Qualcuno che conta, una volta o l’altra, finirà per prendere sul serio tutto quello che dice questo qui, e ci farà togliere dalla circolazione a tutti quanti.

«E poi io, a lui, non l’ho visto mai neanche asciugarsi il sudore…»

Gaia

Gaia, la più bella, lo guardava con preoccupazione e commiserazione crescenti.

Avevano imbavagliato quel poveraccio che aveva sostenuto per lungo tempo di essersi trasformato in un uomo, da manichino che era. E lo avevano piazzato lì, alla gogna dietro a una vetrina, come una sorta di ammonimento, mascherandolo da pupazzo.

Inoltre l’Autorità del Sottosuolo aveva disperso, con l’uso della forza e la brutalità delle intimidazioni più varie, tutti quei poveri folli che per dieci anni gli avevano dato retta, chi più chi meno.

Un tempo era stato conosciuto da tutti come l’Osservatore. Andava raccontando in giro di aver ricevuto messaggi telepatici dai manichini della superficie, che aveva pure incontrato, i quali gli avevano riferito di quanti di loro avessero accettato di credere alla favola dell’unica possibile sopravvivenza nel sottosuolo – come aveva fatto anche la totalità degli umani – per tollerare meglio la propria situazione di subalternità, rinunciando così ad ogni ipotesi d’indipendenza.

Cercava di convincere tutti che le tenebre e le profondità in cui gli esseri umani si erano rifugiati da tempo, così come le calamità che ve li avevano costretti, non erano altro che maligne illusioni alimentate dalla persistente paura della verità e dagli interessi di chissà chi.

Farneticava di cataloghi e di filosofi, di pensieri e di artisti che un tempo lontano avevano guidato le menti degli uomini, lungo le strade della luce e della libertà.

Quando affermava queste cose la faccia gli si illuminava tutta: diventava una faccia meravigliosa, senza difetti.

Proprio come quella di ogni vero manichino.

“Gaia” olio su tela cm 160×240 anno 2004

Teme l’umidità

Qualcuno ha bussato con forza alla porta del mio vano di stazionamento.

Sto per prendere sonno e sono molto stanco per il lungo turno di lavoro, ma la bussata che si ripete perentoria mi convince a fare il più presto possibile.

Scosto la coperta e mi alzo per aprire facendo cenno al mio compagno di stazionamento coricato nella branda sopra la mia di stare tranquillo e di continuare a dormire, mentre indosso la tuta lasciata sulla sedia accanto al giaciglio.

È Rilmount che mi guarda dallo sportello dello spioncino, circondato dall’oscurità fumosa del cunicolo esterno. Con un sospiro di sollievo tiro verso di me il chiavistello e spalanco il decrepito uscio di legno ferrato, esortando il vecchio amico ad entrare con un gesto della mano.

Lui declina l’invito con un movimento sbrigativo del capo e, dopo aver scaricato sul pavimento poco oltre la soglia un pesante contenitore di cartone come quelli che si utilizzavano molto tempo fa, mi spiega sottovoce interpretando al volo il mio sguardo interrogativo:

«Quel tipo – l’Osservatore, te lo ricordi? – mi aveva sempre incuriosito; anche se sono sempre stato convinto che prima o poi gli avrebbero fatto fare una brutta fine. Però non erano tanto le cazzate che raccontava a incuriosirmi, quanto quei cataloghi pieni di figure che ci squadernava in continuazione davanti agli occhi. E poi vedevo bene che a te interessavano pure le parole che c’erano scritte… Così ho lasciato calmare un po’ le acque e mi sono messo alla ricerca di dove potesse aver lasciato a marcire tutte quelle scartoffie.

«Ho fatto un po’ di domande in giro e un giorno mi s’è avvicinata una bella signorina bionda che ha detto di chiamarsi Charlize e mi ha portato in un posto non molto lontano da qui. Mi ha fatto vedere questo scatolone ben nascosto in un anfratto e mi ha detto “Prendilo e portalo allo stazionamento del tuo amico; ma via di qui, al sicuro, subito! Tu guarda le figure, e al tuo amico – certo si riferiva a te – lascia leggere le parole di quello che sta qui dentro.” Ho finto di non capire quel po’ di sarcasmo che aveva fatto trapelare nei miei confronti, poi, mentre la bionda si dileguava in tutta fretta senza aggiungere altro, ho dato un’occhiata all’interno dello scatolone e ho pensato che ti avrei fatto davvero contento se questa roba l’avessi portata subito qui. Chissà quando ci ha visto quella, per sapere certe cose di me e di te?»

Senza rispondere, ho dato una leggera botta col piede allo scatolone. La parte superiore si è dischiusa e ho visto che era zeppo di quei famosi cataloghi.

«Grazie, Rilmount! M’ero sempre chiesto che fine avessero fatto…» gli ho detto quasi commosso.

«Beh, ora stanno qui da te. Al sicuro. Tra qualche anno, quando avrai finito di leggerli, fammi vedere le figure! Stammi bene, amico, e sta attento che il cartone teme l’umidità, e qui dentro…» ha concluso, dando uno sguardo significativo all’intorno.

L’ho salutato sorridendo; ho chiuso la porta dietro alle sue spalle mentre s’allontanava. Poi, dopo aver serrato anche lo spioncino, mi sono inginocchiato per esaminare più da vicino il contenitore.

In evidenza, intenzionalmente appiccicata di lato, c’è la vecchia fotografia di un’ombra ritta in piedi presso una strada sconosciuta di un’imprecisata città della superficie.

L’ombra ha però qualcosa di familiare.

La sagoma sembra proprio quella dell’Osservatore. Almeno per come lo ricordo io.

Mi piacerebbe davvero rintracciare quella signorina Charlize e fare due chiacchiere con lei…


Enrico Smith

Il racconto si ispira alle opere dell’artista Enzo Lisi, esposte nella mostra personale “Osservatorio Segreto” del 2004.