PIANO-SEQUENZA INIZIALE
Sole basso all’orizzonte
Come in un fumetto di Hugo Pratt, l’uomo si avvicina agitando una mano in segno di saluto; ha in testa un cappello nero a tesa larga; s’intravede l’anello di fumo di una sigaretta che tiene stretta fra le labbra. Ridacchia e poi declama ironico, quasi scherzosamente, allargando le braccia al vento del vicolo:
Non per il superbo che s’apparta
Dalla luna che infuria io scrivo
Su questi labili spruzzi di pagine
Né per i morti che torreggiano
Con i loro usignoli e i loro salmi,
Ma per gli amanti, che abbracciano
Tutte le angosce dei secoli,
Che non pagano lodi né salario
E non si curano del mio mestiere o arte.1
Dylan Thomas
Ne ho incontrate poche finora (ma non tanto poche: perché mi sono esercitato a distinguerle e a ricordarle fin da quando ero adolescente): sono le persone di cui riconosci al volo la figura sincera e disinteressata; anche quando ne intravedi soltanto la sagoma stagliata in controluce, o ne senti la risata da lontano e il cuore ti si gonfia di contentezza; sempre. Qualche volta diventano tuoi amici. Se poi ti rendi conto — da solo, perché loro non te lo direbbero mai — che sono anche degli artisti, ti scopri meno di passaggio su questo autobus che è la vita; perché è possibile che un po’ di te sopravviva in qualche loro nota, verso o pennellata, che potranno ancora cantare, leggere o guardare quelli che continueranno la corsa sull’autobus, una volta che tu sei sceso alla tua fermata…
E sai pure che, in segreto, gli piacerebbe avere la capacità di cambiare il mondo con quello che fanno. In meglio, se possibile…
Le immagini tradizionali dell’alienazione artistica sono in effetti romantiche nella misura in cui sono esteticamente incompatibili con la società che si sta sviluppando. L’essere incompatibili con questa è il segno della loro verità. Ciò che esse richiamano e conservano nella memoria appartiene al futuro: sono immagini di una gratificazione capace di dissolvere la società che la sopprime.2
Herbert Marcuse
Inoltre hai la consapevolezza che, in loro compagnia, saresti disposto a correre pure qualche “rischio” di pettegolezzo, di inadeguatezza e di incompiutezza…
Anche per l’arte va fatto ciò che facciamo per la scienza. Si deve accettare il rischio di effetti secondari indesiderabili, per raggiungere la meta principale. E, al di là di questo, si deve togliere spazio agli effetti indesiderabili rendendo più incisiva ed efficace l’azione per la meta principale. Le riforme si debbono fare in avanti, non all’indietro. Le malattie sociali, le rivoluzioni, sono evoluzioni ostacolate dalla stupidità conservatrice.3
Robert Musil
Certo, le tue e le loro verità non sono semplici; è per questo che c’è apprezzamento reciproco. Anzi sono “incompatibili” con quelle dei più.
Ma, nonostante tutto, sai (e loro sanno) anche che…
Il peso del mondo
è amore.
Sotto il fardello
della solitudine,
sotto il fardello
della insoddisfazione
il peso,
il peso che trasportiamo
è amore.4
Allen Ginsberg
… è facile tornare con le tante
stanche pecore bianche
scusate non mi lego a questa schiera
morrò pecora nera.5
Francesco Guccini
Serata d’inverno nello studio
Se non lo avessi ascoltato io, con le mie orecchie, non ci avrei mai creduto. L’ho sentito “raccontare” versi di Dylan Thomas, Eugenio Montale, altri di Beckett (e di questi mi riferiva che qualcuno, alla Biennale dell’’82, gli aveva fatto notare come fossero derivati da una poesia di Rimbaud) e poi, quasi con affetto, quelli di Marcello Landi e Mario Luzi; versi dei quali si entusiasmava, di più che delle sue poeticissime opere, nel mostrarmele. Ha citato Proust, mentre mi versava Chivas twenty one years old e gli ho scoperto negli occhi quel pudore che avevamo (e che orgogliosamente superavamo) noi della nostra generazione, quando afferravamo al volo — per poi poterli rendere quasi concreti e immediatamente trasmissibili, attraverso quella distillatrice d’amicizia e d’incanto che è la metafora di parole — un sentimento, una sensazione, un riflesso fuggevole delle nostre private illuminazioni con la poesia di un altro (anche se qualcuna, recitata e regalata a chissà chi, l’avevamo scritta pure noi). Ma se la serata è benigna e i discorsi, in pace, invece che continuare ad andar su per la testa, invertono la direzione e deviano giù verso il cuore, si scopre l’emozione di un’ora ritrovata, dopo tanti anni; quando non credevi più che si potesse parlare con tanta semplicità e immediatezza di e con poesia. È vero che c’era l’imbarazzo di una cronologia da stendere, di un cammino artistico da rievocare, di qualche delucidazione da dare, ma in certi casi si preferisce lasciare tutto all’istinto, al “come viene, viene”.
Non ci avrei mai creduto, dicevo prima. Ma non perché ritenessi che Claudio Marini non fosse il tipo (figuriamoci che un’ora dopo che lo avevo conosciuto, già mi aveva messo in mano una cassetta con l’ultimo disco di Francesco Guccini, e allora…); il fatto è che da un po’ di tempo non parlavo più di poesia, anzi non sentivo più poesia parlando con un altro. Sono tempi strani questi. Là dove c’è poesia non ci sono riflettori; gli abbagliamenti e gli abbagli sono parecchi solo dove c’è aggressività verbale e sottomissione mentale, e quindi assenza totale di poesia. Ci fai l’abitudine, ma quel pudore che avevi e che orgogliosamente superavi anni fa, si trasforma in un’inibizione fredda, rassegnata e severa, finché qualche volta capita che l’apparente, simulato scetticismo degli sguardi ironici di un amico pittore, venga sbugiardato poi dalla profonda poesia ed umanità delle sue parole, magari richieste in prestito ad un vero poeta. Allora i piani di profondità temporale si sovrappongono e ti ritrovi immerso in una sovradimensionalità che riunisce l’ieri con l’oggi ed è bellezza; pausa dall’inquietudine del ricercare a tutti i costi l’attimo eterno.
L’autentica poesia non è mai un modo più elevato della lingua quotidiana. Vero è piuttosto il contrario: che cioè il parlare quotidiano è una poesia dimenticata e come logorata, nella quale a stento è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare.6
Martin Heidegger
Ma non è semplice da raccontare. Non è neanche semplice da parlarci su. Come si fa a parlare della certezza di un attimo? Però una cosa la posso dire: quando me lo sono trovato di fronte per la prima volta nel suo studio a Velletri — o era a Lisbona? o a Parigi? o, addirittura, a Bologna? — ho provato immediatamente la sensazione di aver incontrato un vecchio amico. Di quelli veri che, per colpa nostra, lasciamo un giorno davanti al portone di casa, dicendo mentre gli stringiamo la mano: “Ci sentiamo domani per telefono.” Poi non li vedi e non li senti più. Vent’anni dopo, il vecchio amico te lo ritrovi davanti per caso, e senti che tutto è rimasto come prima. Ma hai sprecato un po’ troppo tempo; e te ne accorgi perché uno come lui fa capire subito qual è l’essenziale della vita, quali sono le cose importanti che non ti puoi permettere di perdere (e hai perso). Tu sei stato imbrogliato per vent’anni da luminosi miraggi e lui invece era rimasto qui vicino; ha pensato, ha scherzato, ha conosciuto per te. In breve, lui ha vissuto anche al posto tuo (e avresti potuto farlo insieme a lui, se solo avessi fatto quella telefonata…), mentre tu devi ancora veramente cominciare. Sempre che te ne sia accorto.
Cronologie senza tempo
Proust compone la sonata di Vinteuil e la sua «piccola frase» a partire da impressioni provate nell’ascolto di Schubert, Wagner, Franck, Saint-Saëns, Fauré. …
Questo sincretismo estraneo al tempo procede di pari passo con un altro sincretismo che unisce e confonde nel momento presente avvenimenti e incidenti accaduti in date differenti. …
… la memoria involontaria non si oppone semplicemente alla memoria cosciente, quella che informa senza far rivivere. I suoi interventi nella trama del racconto compensano, riequilibrano un procedimento di composizione che altera sistematicamente il corso degli eventi, e il loro ordine, in una durata che Proust, infatti, tratta con disinvoltura …
Forse le ragioni di questa convinzione non sono solo, e nemmeno prevalentemente di ordine filosofico o estetico. Esse appaiono indissociabili da una tecnica.7
Claude Lévi-Strauss
Intendiamo invece con ciò riferirci a qualcosa di essenziale che ci si palesa nella parola greca τέχνη. Τέχνη non significa né arte, né mestiere, per non parlare poi della tecnica nel senso moderno. Traduciamo τέχνη con « sapere »; il che abbisogna peraltro di spiegazione. Il sapere non è qui inteso come il risultato di semplici constatazioni a riguardo di un sussistente prima sconosciuto. Tali conoscenze costituiscono sempre dei meri accessori, anche se indispensabili per il sapere. Questo, nel senso autentico della τέχνη, è l’originaria e costante prospettiva rivolta al di là del sussistente. Questo « essere al di là » pone preliminarmente in opera in diverse guise, per svariate vie e in campi differenti, ciò che per l’appunto conferisce al sussistente il suo diritto relativo, la sua possibile determinazione e, per conseguenza, il suo limite. Sapere è poter mettere in opera l’essere come questo o quell’essente. I Greci chiamavano l’arte propriamente detta e l’opera d’arte τέχνη …8
Martin Heidegger
Tutti i cavalli stanchi al sole
tutti i cavalli stanchi al sole
come potrò ancora cavalcare?9
Bob Dylan
Fu un anno deludente, il 1970. È vero che, nel precedente, l’Uomo (Americano) aveva conquistato la Luna — cioè l’aveva calpestata e “imbandierata”, al contrario dei Sovietici Cattivi che si limitavano a solleticarla un po’ con le loro sonde automatiche, prive di rischi umani ma così poco spettacolari… — ma tutto cominciava a ritornare uguale. Anzi tendeva al peggio: le illusioni pacifiste e antirazziste della fantascienza anni sessanta, erano state spazzate via di colpo. Insieme a quelle di una facile affermazione degli ideali colorati e palingenetici dei giovani hippy del ’68. Valpreda stava ancora in galera. L’“autunno caldo” dell’anno prima, era stato velocemente raffreddato. I Beatles stavano per separarsi e, quando lo fecero definitivamente, fu un po’ il “rompete le righe” per tutti noi. Anche perché le bombe su Hanoi continuavano a cadere, e Nixon mai…
Mi ricordo l’università in quel periodo: sembrava una città morta. Tanti, di quelli della mia generazione, erano ormai “fuori-corso” e cercavano di recuperare esami su esami, dopo averli trascurati per cause di forza maggiore, nei due anni precedenti. Sui viali davanti alla Minerva erano ricomparsi i libri e scomparse le chitarre. Rimanevano, dietro qualche balaustra, dimenticate da chissà quanto e da chissà chi, alcune strane bottiglie di birra inciuffettate con straccetti di cotone e nastro adesivo. Ma ormai erano solo reliquie e la “birra” che un tempo le aveva riempite e soddisfatte, ora era completamente svanita. Inoltre, si diceva che Bob Dylan avesse tradito la “causa”. Per la verità, si era fatto un Autoritratto country; ma verso la fine dell’anno ci avvertiva che stava per arrivare un Nuovo Mattino…
Il regista Francesco Rosi aveva fatto urlare a Gian Maria Volonté (che poi, per quelle trame incredibili del destino, passerà, forse, alcune delle sue ultime serate più belle a Velletri, giocando a scopone con l’amico Claudio Marini, l’artista di fiducia…), nei panni di un eversivo capitano della prima Guerra Mondiale: «Basta con questa guerra di morti di fame contro morti di fame!». E quel film, “Uomini Contro”, proiettato per tanti giorni al cinema Palazzo, nel romanissimo quartiere di San Lorenzo, ebbe un seguito di pubblico (in cui si mescolavano studenti e cittadini anziani che non avevano dimenticato le bombe del ’43) che andava oltre l’interesse e il valore del film stesso: era come un pellegrinaggio ininterrotto di giovani che si schieravano muti contro la fame e la guerra e contro chi le provoca; un pubblico che, mai come allora, sembrava avere un’identità e un’appartenenza a una classe sociale ben precisa. Il Realismo Espressionista tedesco, i cadaveri putrefatti nelle trincee di Otto Dix, i mutilati e i borghesi di George Grosz, erano tutti nella smorfia di quel capitano che urlava a una platea che applaudiva per l’emozione, non sapendo in quale altro modo manifestare concretamente la sua partecipazione. Erano i segni di un’ormai consolidata “incompatibilità” globale che, all’epoca, pochi avrebbero avuto il coraggio di rinnegare (come tanti fecero, invece, poco più di dieci anni dopo). Ma io avrei dovuto prevederlo, visto che, nel ’63, mio cugino aveva sentenziato che « quei Beatles » in un paio d’anni non se li sarebbe ricordati più nessuno…
Dissolvenza n. 1
Nel 1969 uno studente di Velletri a nome Claudio Marini, si è diplomato in scultura all’Accademia di Belle Arti di Roma, ma è una disciplina che gli sta stretta. Una scultura è lenta; ci vuole troppo tempo per realizzarla. È come se la materia solida, per ri-formarsi, chieda alla mano dell’artista quasi lo stesso tempo che ha impiegato per solidificarsi. La scalpellatura, lo sbriciolamento, il taglio, la levigatura o la noiosa costruzione dell’armatura; e poi la visione riportata su vari piani dello spazio fisico da punti di vista diversi che postulano, però, una certezza e una condivisione che non c’è: quella sull’origine, sul luogo di partenza, un luogo non solamente fisico ma soprattutto mentale: tutte queste cose sono un compromesso troppo difficile da ottenere con le proprie convinzioni entusiasmantemente precarie, con quello che si sente nell’aria. La sensazione multiforme e prevalente è che i tempi stiano cambiando (Bob Dylan l’ha cantato già nel ’64, ma Asimov insegna con la sua Trilogia che nelle province dell’Impero Galattico i messaggeri del Mule, ritradotto poi più precisamente ma meno poeticamente “Mulo”, arrivano sempre in ritardo): non si può più attendere che la materia si trasmuti e solidifichi, rischiando di perpetuare le forme (adeguandovisi) di questa società che finalmente sembra essere entrata in una fase di ebollizione, se non di trasformazione. Il desiderio è quello di farsi guidare dal gesto, dall’inconsulto che è dentro di noi; non dalla materia, che è davanti e fuori di noi, come un ingombro visivo già regolamentato e articolato per sé. C’era in molti la consapevolezza che la forma della società si riflettesse nella cristallizzazione delle forme visive: perfino del vestiario si era scoperta da alcuni anni la struttura omologante e la si viveva con insofferenza. Come stupirsi allora che quello studente d’accademia disertasse la pratica della scultura, e affidasse le sue realizzazioni all’incidente del gesto, dell’agente casualità e della rapidità che sconvolge le forme, le dissolve?
E Claudio Marini (lo studente d’accademia), è convinto, come tutti noi, che
The force that through the green fuse drives the flower
Drives my green age; that blasts the roots of trees
Is my destroyer.10
Dylan Thomas
Questi versi, dieci anni dopo, lo studente d’accademia d’allora, li trasferirà segretamente ad una di quelle sue “carte” dell’’80 che conserva come un miraggio assolato, come il frammento di una poesia vista all’orizzonte, ingrandita nel cielo. Ed io, venticinque anni dopo, sobbalzerò per l’incredulità di constatarli nell’opera suddetta, che vedevo per la prima volta in quella serata d’inverno nello studio del pittore, avendoli ripresi e citati, identici, qualche giorno prima — ovviamente, senza essere razionalmente a conoscenza di nulla — proprio in queste pagine. Una sorprendente coincidenza, come si potrebbe pensare. Oppure il Tao, come affermò divertito, tra il rassegnato e il soddisfatto, trafiggendomi con occhi evocativi di tanti discorsi, Enzo Lisi, grande pittore e grande amico di Claudio, che quella sera mi aveva accompagnato da lui.
Pure, per amore dell’irrazionalità, devo dire che, nell’accingermi allo scritto e cercando di identificare Claudio Marini anche come poeta “di parole”, non avevo potuto fare a meno di pensare a Dylan Thomas…
Quale mano od ombra mi passò vicino in quel momento, a suggerire?
In un vortice di polvere
Dov’è Jones il suonatore
… Lui che offrì la faccia al vento,
la gola al vino e mai un pensiero
non al denaro, non all’amore né al cielo.
Lui sì…
sembra di sentirlo ancora
dire al mercante di liquore
– Tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore? –
In un vortice di polvere
gli altri vedevan siccità,
a me ricordava
la gonna di Jenny
in un ballo di tanti anni fa.11
Fabrizio De André
Il 18 novembre del 1970 era scomparso Jimi Hendrix che muoveva le dita sulla chitarra come Jackson Pollock le aveva mosse sulla tela. I colori, le trame degli sgocciolamenti di vernice dell’uno, così come le legature, i bending e i vibrati sulla mitica tastiera della Fender dell’altro, si riverberavano ormai troppo in alto e avevano cominciato a far girare il mondo troppo in fretta, e qualcuno, loro compresi, ci stava rimettendo la pelle. Evidentemente, avevamo tutti sempre più bisogno di fermarci a riflettere.
Infatti, di riflessione furono gli anni che vennero dopo.
Il 4 settembre del ’71, Joan Baez con la sua voce incredibile, in tournée in Italia, si esibì al Palasport di Roma. Lei, piccola e sola sulla scena, con la chitarra a tracolla, guardava stupefatta la polizia che era penetrata all’interno per impedire con la forza a molti ragazzi delle gradinate di scendere giù per assistere più da vicino al concerto. Furono attimi drammatici. Io la vidi interrompere il canto, posare in terra il suo strumento e rivolgersi direttamente alle forze dell’ordine, dicendo che non avrebbe proseguito il concerto finché tutta quanta la polizia non fosse andata via: quei ragazzi avrebbero potuto assistere allo spettacolo in piedi davanti al palco. Le parole che pronunciò, dapprima in un italiano stentato ma limpido, e poi via via tradotte dalla sua interprete, più che un messaggio furono una formula magica: noi, seduti nella platea, vedemmo benissimo i poliziotti fermarsi all’improvviso e smettere di manganellare i gruppetti di ribelli; si drizzarono a guardare verso di lei aggiustandosi gli elmetti e poi tutti insieme, come ubbidendo ad un cenno invisibile dei loro superiori, cominciarono a sparire dietro le vetrate perimetrali, mentre il resto dei ragazzi, ormai con calma e senza pericolo, scavalcavano e disciplinatamente si disponevano intorno a noi, che solidalmente ci stringevamo per far loro più spazio possibile. Nessuno di noi era geloso del proprio posto privilegiato, anzi fummo contenti che la platea in basso si fosse riempita in pace e con “buone vibrazioni”. Si fece un grande silenzio e, quando l’ultimo poliziotto fu sparito, un applauso liberatorio e riconoscente, salutò quella piccola grande donna che, con una frase e un gesto spiazzanti e non-violenti, aveva messo d’accordo commissari e gruppettari, e che ora si accingeva a riprendere a cantare. Solo il clima pacifista ed egualitario di quegli anni, e il rifiuto della logica di adeguamento conformista a comportamenti standardizzati da parte della Baez, aveva impedito qualche brutto incidente.
Quello che negli anni precedenti era stato colore e movimento, calore ed espressione, andava per il momento messo da parte. Era necessario cominciare a pensare più profondamente e, in qualche modo, ad assaporare il gusto del sentimento, del “feeling” giusto, senza assumere tutto acriticamente.
Così, mentre due ingenui americani avevano prodotto e interpretato una parafrasi disperata dell’eterno sogno americano, immergendone la sostanza principale nei serbatoi dei due chopper di “Easy Rider”, un più scaltrito regista italiano ce ne aveva anticipato la doppiezza, l’ambiguità e la fine per incontrollata sovrapproduzione di immagini e di merci in “Blow Up” e in “Zabriskie Point”. Una parafrasi di una parafrasi di quel medesimo sogno infranto, ce l’aveva data invece Fabrizio De André che, mettendo in musica alcune delle poesie americane di Edgar Lee Masters contenute nell’Antologia di Spoon River, aveva così ottenuto un doppio risultato: mettere un’intera generazione in guardia dai sogni (specie se americani) e spingerla a leggersi anche qualche libro di poesie. Ma soprattutto aveva risvegliato il suonatore Jones che è, o dovrebbe essere, in ciascuno di noi.
Dissolvenza n. 2
Questi sono gli anni in cui Claudio Marini soprattutto si guarda attorno e forse anche lui, come Jones il Suonatore, in qualche vortice di polvere vede molto più di un fiore di vento. La sua produzione si orienta verso l’astrazione lirica e questo è, forse, proprio il risultato di quella pausa di riflessione che la fine del decennio aveva imposto per eccesso di colore e di espressione. Addirittura, fino al ’72, recupera la tecnica ad olio, come per assecondare quei “tentennamenti lirici” che scuotono la sua sensibilità. E poi, per tre anni, silenzio.
Il predominante a colori
Anzi, quanto si sta ora per nominare — la parola, l’intelletto, il sentimento, la passione, l’attività costruttiva — non appartengono meno alla potenza del predominante che il mare, la terra, l’animale. Unica differenza, è che questo domina tutt’intorno l’uomo, lo trascina, l’opprime, lo stimola, mentre quello domina per entro a lui, in quanto si tratta di ciò che egli, da quell’essente che è, deve assumere in proprio.12
Martin Heidegger
Le diverse interpretazioni che si danno dell’astrazione lirica e dell’espressionismo astratto hanno un punto di convergenza nel colore. Infatti ciò che nell’uomo “domina per entro a lui” e che egli “deve assumere in proprio”, può essere circoscritto, rivelato e criticamente superato dal disvelamento che si attua nello schiudersi alla percezione dell’opera d’arte in generale, e del colore in particolare.
In special modo, e Kandinsky lo intuisce tra i primi, guardando alla tela come ad una tavolozza dove i colori o i filamenti di colore sono casualmente mescolati e intrecciati, ci sottoponiamo a una duplice conseguenza. In primo luogo noi siamo affascinati quasi fisicamente dalla bellezza dei colori che vediamo, come se già solo l’osservazione stessa della tavolozza appagasse i nostri sensi. Poi subentra un effetto secondario, estremamente variabile da persona a persona: ci accorgiamo che la protratta osservazione dei colori produce in noi anche una sorta di reazione psichica, emotiva. Questa, grosso modo, è la strada che mette in comunicazione l’astrazione lirica con l’espressionismo astratto, il quale, però, intende prescindere totalmente da qualsiasi componente “spirituale”, affidandosi assolutamente all’energia del movimento e alla casualità del gesto. Di conseguenza è come se si ampliassero le possibilità dell’essere e della sua manifestazione; in quanto da evidenze tutte correlate all’apprensione dell’essere stesso dalla natura, si giunge alla rivelazione di altre evidenze che arrivano a schiudersi alla nostra percezione in maniera assoluta, totalmente affrancata dalla logica dell’oggettività.
Tutta l’opera di Marini del ’76 si caratterizza per l’apoteosi predominante del colore. Il suo è un colore disteso a olio su grandi tele o su carte di piccole dimensioni. È dato con forza astrattamente e prepotentemente lirica, alla maniera di un certo Kandinsky, per intenderci; più nelle intenzioni che nei risultati, estremamente originali; avendo di mira il precipuo scopo di sottrarre allo sguardo dell’osservatore qualsiasi inopportuna e sviante influenza figurativa e, soprattutto, la doppiezza dei suoi referenti principali: il mondo delle forme naturali e la sua “deriva” mimetica, a ridosso della rappresentazione mentale. Le stesure si susseguono accordate sullo schema strutturale dei colori fondamentali, con predominanza dei rossi. Esse sono caratterizzate da fitti tratti pittorici, ampi, ma incanalati in modo gioiosamente libero e vitale (a volte come fulminee fibrillazioni di scintille, altre volte come agitate onde sopravvenienti) lungo brevi binari di direzione diversa; nervosamente confluenti, in genere, verso uno squarcio di colore intensamente chiaro e luminoso, spesso delimitato da “recinti” più nitidi e scuri, attraversato da vermiglie scie rettilinee. In questa sorta di maglia o schema predominante è possibile intravedere pause ed oasi del gesto; come rallentamenti improvvisi e pacatamente rincorrentisi, dove prevale un tenero brivido di accadimenti casuali, traccia d’un pizzico di pittura d’azione ancora sopravvivente. Tutto questo nelle tele che, come detto, sono di più ampie dimensioni. Ma nelle carte interviene un fatto nuovo e anticipatore delle caratteristiche future. Quello schema predominante suddetto si accentua, acquista fiducia in se stesso e si propone come elemento indipendente nella visione: assume contorni più netti e scuri, si inoltra in tracciati quasi grafici; come a comunicare la sua essenza faticosamente acquisita, dischiudendo la sua profondità ancora in squarci, stavolta angosciantemente neri. Codeste oscure lacerazioni talora si allargano, assorbendo e divorando tutta la trama a loro connessa; fino ad attraversare l’intera dimensione orizzontale del supporto, divaricando da sé lembi di una tinta spessa e a grumi — ancora vivacemente colorati, però già inizialmente corrotti da una grigia contaminazione — e addensandoli ai propri limiti, creando con ciò come un effetto di sovrapposizione di piani e di materiali diversi. Ma anche (e questo è ancora più inquietante) di stati d’animo contrapposti.
Il predominante a cascami e stracci
… l’arte è ciò che porta più direttamente in posizione, in un essente (in un’opera), l’essere, ossia l’apparire in sé consistente. L’opera dell’arte non è in primis un’opera in quanto operata, fatta, ma in quanto realizza, in un essente, l’essere. … È solo attraverso l’opera d’arte, considerata come l’essere essente, che tutto ciò che appare altrimenti, o si trova presente accidentalmente, risulta confermato e reso accessibile, significante e intelligibile, come essente oppure come non-essente.13
Martin Heidegger
Vale la pena ribadirlo, anche alla luce dell’illuminante considerazione di Heidegger: un albero dipinto in un quadro, come potrà mai “essere”, in quanto albero? Un’opera d’arte è ciò che è, ed allora saranno i colori, i materiali usati, in quanto tali, ad essere nel quadro, insomma “tutto ciò che appare altrimenti o si trova presente accidentalmente, risulta confermato e reso accessibile, significante e intelligibile”. Un “quadro” non è, o non è solo, la tuta mimetica della natura o di ciò che si trova, per usare una espressione già suggerita, a ridosso della rappresentazione mentale.
Allora, che sollievo (ancora una volta) quando l’illusionistico evidenziarsi pseudo-materico dei colori lascerà il posto alla materia piena e concreta! Nell’anno successivo, infatti, cominceranno ad apparire, incollati sul supporto, frammenti di materiali vari; già recanti, in molti casi, l’impronta della manipolazione casuale, del successivo abbandono in quanto oggetto d’uso “buttato” e del catartico recupero in seguito alla scelta dell’artista. Tema, questo, caratterizzante tutti i più importanti momenti artistici di Marini, fino ad oggi; ma anche capace di svelare (un po’ alla Burri) il non mai sopito interesse dell’artista per quella materia — proprio la più comune e “disponibile” — che, una volta creata dall’uomo, viene da esso inesorabilmente dimenticata e sconsideratamente “rifiutata”. Chiazze e filamenti di colore acrilico si accompagnano, adesso, a cascami e stracci di fibra di cotone dilavata e sfilacciata; la tela e la carta fanno posto al supporto rigido della tavola. Il risultato è davvero coinvolgente: quei tracciati, quegli schemi più scuri, di cui prima dicevamo, si presentano ancora ai nostri occhi, ma dissimulati in mezzo a grovigli di cascami e filamenti di colori; anzi si confondono con essi in una giungla di segni, che va ben oltre il “vorticare” pollockiano, in quanto ricca di uno spessore, che non è solo — coerentemente — fisico, ma anche mnestico ed allusivo quando, in questa “giungla”, appaiono quegli stessi squarci delle opere precedenti, ardenti di un colore rosso che si intravede propagarsi, al di sotto della trama del cascame o del tessuto degli stracci, fino a debordare per invadere e confondere qualsiasi trama o schema arbitrariamente predominante. Nei casi più significativi riappaiono ingigantite e invadenti, avendo conquistato dimensioni e parti cospicue dello spazio pittorico, quasi a rivendicare una sorta di alterità indipendente, quelle oscure lacerazioni delle “carte” dell’anno prima, che ora non solo si aprono, ma sembrano anche sconfinare in un “indefinito” nero e inquietante, perché appena al di là. Fino al momento culminante in cui, preda di una multipla sovrapposizione di tela e stracci, uno squarcio rosso viene ironicamente ricomposto con una cucitura di filo per scarponi e l’“indefinito inquietante” sembra sollevarsi e dissolversi, incapace di divorare del tutto il chiaro che lo circonda.
Non sono solo i cascami e gli stracci a caratterizzare l’originalità e la fertilità artistica di Marini in questo periodo. Si può notare, in alcune ultime opere del ’77, una anticipazione quasi profetica dei lavori anche remotamente successivi; e forse questo a dimostrazione delle tracce che, strutturalmente, più o meno evidenti, caratterizzano tutta l’opera dell’artista. Mi riferisco a due tipologie di lavori: quelli dove il nero monocromo prevale nettamente su tutto il resto; dove gli stracci vengono come inglobati in una essenza più duratura e sacralizzante, che li sottrae al volgare dimenticatoio del “senso pratico” (anche nell’accezione kandinskiana), ossessivo e predominante nell’uomo di oggi; dove anche i cascami si individualizzano in una forma ordinata, nettamente stagliata e vengono nobilitati da pochi, intensi colori. E mi riferisco a quelli dove la presenza di una corda passante per uno straccio squarciato — limite e diaframma, per essa, fra due “astrazioni” diverse — riporta già alla mente, col senno del poi e le frequentazioni dell’oggi, le “canne” delle opere recenti: presenze di esili corpi fusiformi, inattesi, che realizzano l’evidenza di materia, colori e linee.
Grandi tele a grandi linee
Ad un periodo di relativa stasi creativa — anni dal ’78 all’’80 — segue, nel biennio successivo (soprattutto dopo un viaggio a New York dell’’81, di cui è compiaciuta testimonianza un Omaggio a Jasper Johns, dalla ironicamente rielaborata bandiera U.S.A.), la realizzazione di acrilici su tele e carte di medio-piccole dimensioni, in cui Marini sembra recuperare l’evidenza di un espressionismo astratto; i cui toni sono però leggeri, quasi evanescenti: sia per i colori delicati, sia per la sostanza stessa della materia pittorica che sembra appena sfiorare la superficie della tela, senza opprimerla. Ciò che rende alcune di queste nuove opere (acqueforti, per lo più) particolarmente interessanti, è l’apparire di una punta di concettualismo; stemperato però con una solare e struggente trovata: quella di collegarlo ad una grafia rapida di frammenti in versi di poesie, raccolte come illuminazioni: in alcuni casi i versi (che altrove assumono quasi la valenza di arabeschi; inserendosi con la loro forma grafica nel tessuto pittorico, mimetizzando in questo modo il loro valore di segni fonetici) trascolorano e svaniscono nel colore stesso; cosicché la poesia assume la forma della pittura e viceversa, con un meccanismo semplice e di immediata efficacia emotiva. Altre opere sono invece caratterizzate da segni di matita che, liberamente, vanno ad intrecciarsi alle stesure di acrilico su tela, in un ironico dialogo.
È proprio tale suggestiva caratteristica di poetica (o ironica, secondo i casi) commistione di testo e pittura, che viene ripresa e ingigantita nelle grandi tele dell’’82; dove, ad una irriducibile astrazione espressionistica, si aggiunge provocatoriamente la sfida della lettura di un testo. Ma dobbiamo cominciare o smettere di leggere?
Le grandi tele dell’’82 costituiscono una fase importante che porterà Marini a partecipare alla Biennale di Venezia. Sono anche, però, le avvisaglie di un approfondimento coraggioso delle possibilità del colore puro che, attraverso una fase intermedia di acrilici su tela documentabili dall’’83, sfoceranno in quella successiva dei Grandi Monocromi già nell’’84 e fino a tutto il 1986. Ma andiamo per ordine.
Il colore acrilico, nelle tele di medie dimensioni dell’’83, non viene più lavorato sul supporto ad intrecci e a grumi come quello a olio nelle opere degli anni settanta. La pennellata si fa più ampia e sintetica e si dispone sulla tela, già parzialmente inondata di un’ombra grigia, seguendo direzioni individuabili lungo le dimensioni fondamentali del quadro; disegnando percorsi che vanno poi a incorniciare sprazzi bianchi solcati da lampi di colore intenso, rosso, nero o giallo. L’apparente casualità del gesto viene talvolta esaltata da sgocciolamenti e talaltra attenuata da pennellate più piccole, quasi sottolineature, di colori intermedi tra quelli brillanti inseriti negli “squarci” luminosi e le varie gradazioni di grigio, che sembrano quasi provenire, distaccandosene, dalla sostanza della tela stessa. In altre opere di questo periodo cambia l’attribuzione dei colori, ma non lo schema generale caratterizzato da ampi squarci luminosi ed inserzioni di segni molto meno casuali, anzi quasi evocativi di forme immaginarie, lampeggianti e spiritose. Altrove ancora, i colori, di tonalità omogenee, si intrecciano in ampi intrichi di pennellate, ritmicamente amalgamantisi, e fanno risaltare rosseggianti lingue di colore; anche laddove esili sottolineature a pastello scuro sorgono ad estrarre, dallo sfondo neutro, indistinte e sfocate zone di grigio.
L’Invasione degli Ultracorpi
Risalgono al 1984 alcune grandi tele ad acrilico, in cui la parte centrale assume l’aspetto vibrante di un campo di luminosa forza magica; dove le piccole forme immaginarie, già intraviste in alcune opere dell’anno precedente, si rinnovano e ingigantiscono, roteando e guizzando energicamente, ricche di colori e di ironia. Ad una prima fase, in cui tali “germi cromatici” sembrano ancora attraversare un processo di iniziale formazione, così ancora indefiniti come sono e appena scontornati con rapide e rarefatte pennellate di colore vivace, corrisponde una fase seguente in cui i “germi” prendono forma: si concretizzano di colori diversi, assumono configurazioni più ordinate e parvenze strutturate di “baccelli”, manifestando insofferenti sintomi di interna trasmutazione per la presenza di nucleoli vividi di colore. La parte periferica di tutte queste tele è caratterizzata dalla presenza di uno strato di colore più scuro e continuo (che in una fase ancora successiva, quella dell’’85, prenderà un decisivo sopravvento monocromo): come una sorta di recinto adibito a contenere gli energici eventi che si realizzano nel centro, senza che si possano riprodurre al di fuori. La visione di queste opere di grande formato è particolarmente suggestiva, quando si abbia la possibilità di osservarle affiancate. La sensazione di vitalità che riescono a comunicarci è felice ed appagante per gli impulsi di calore, luce e movimento trasmessi, nonché per la ipnotica circolarità di quella reiterata creazione di organismi fantastici che, mai portata a termine, sembra avvenire proprio davanti ai nostri occhi, in una sorta di carosello psichedelico di corpi estranei, dal DNA incomprensibile e incompatibile con l’ordine prestabilito. È l’Invasione degli Ultracorpi!
Verrà il momento in cui questi “ultracorpi” dovranno essere attaccati, inglobati e fagocitati, perché sono troppo ironici e innocenti. E ciò accade nei due anni successivi. Nella società italiana, quando, dopo la morte di Enrico Berlinguer, prorompe, a sbaragliarne lo schivo e lungimirante francescanesimo, l’inesorabile conformismo dei giovani rampanti, e nell’opera di Marini, quando quel colore neutro o “quasi nero”, che già si era messo a guardia di incontrollate e pericolose fughe di germi di “incompatibilità”, travalicherà i suoi limiti e andrà a soffocare, come una gigantesca palude antibiotica, germi, baccelli ed ultracorpi.
Ma non ci riuscirà del tutto. Basta guardarli, questi Grandi Monocromi dell’’85 e dell’’86: di primo acchito sembra che il nero, l’oscurità e l’appiattimento abbiano vinto; che abbiano invaso tutto come una alluvione normalizzatrice. A ben vedere, però, non è così.
Il “nero” impazza, godendo della sua predominanza. Si spande, ondeggia, lievita e, in alcune parti del dipinto, si permette pure di autodefinirsi non proprio “nero”, ma “grigio”. In realtà, è solo un nero che si è espanso troppo per la sua effettiva consistenza, e ora alcune zone del quadro non ne risultano completamente coperte; tendendo a quella rarefazione compromissoria, definibile “grigio”. Inoltre, proprio là, al centro, dove l’energia luminosa era più vorticosa e affollata, questo “Nero” attua la sua preminente strategia: quella di occuparlo e di impossessarsi di quegli ultracorpi più potenti, che minacciano una troppo colorata e rivoluzionaria trasmutazione. “Germi” e “baccelli” sono tutti diventati neri; si sono come irrigiditi, non si muovono più. Ciò è bene per il “Nero”: dei “germi” incapaci di movimento, perdono tutta la loro virulenta efficacia di contagio multicolore. I Biechi Blu hanno vinto, per il momento. Ma per il “Nero” non sono tutte rose e fiori: alcuni piccoli ultracorpi, proprio perché minuscoli e apparentemente inoffensivi, conservano gagliardamente i loro vivi colori; anzi li accentuano, e si fortificano, evidenziandosi sempre più nel nero marasma, preparando la successiva riscossa; che non tarda ad arrivare, proprio quando ormai la vittoria definitiva del “Nero” sembrerebbe cosa fatta. Specialmente in quel dipinto dove tutto è divenuto più nero, omogeneamente nero: la pennellata più densa e la materia pittorica abbondante coprono tutta la tela di un manto oscuro e impenetrabile. Però anche qui due avamposti degli ultracorpi resistono, anzi hanno rafforzato le loro posizioni pur distanti fra loro, ingrandendole. E poi, in qualche microscopica parte, il nero comincia a sfaldarsi, lasciando intravedere un inquietante biancore sottostante.
La rivincita definitiva arriva però nell’’86, quando finalmente, in uno dei Monocromi, il Grande Alibi del Nero viene confutato e smascherato: sulla sua superficie si sono aperte ormai numerose crepe e da esse riprendono vita i “baccelli” dimenticati con la loro “incompatibilità” rivoluzionaria. Riprenderanno forza e vigore insieme ai loro compagni, anche se i poveri ultracorpi risulteranno ormai quasi estinti. Tanto che per sopravvivere dovranno in qualche modo adattarsi ad una nuova vita, in una diversa dimensione…
Tutto in un’altra dimensione
In questo moto di spavento, pur nella volontà di dominare, deve per un attimo brillare la possibilità che il dominio sul predominante si conquisti nel modo più sicuro e più pieno quando si conservi semplicemente all’essere … la sua latenza, inibendogli così, in certo modo, ogni possibilità di apparire.14
Martin Heidegger
La ricerca artistica di Claudio Marini nei due anni seguenti è resa significativa dal mutamento di alcuni parametri fondamentali che avevano caratterizzato le opere precedenti, come le dimensioni, i colori e i “disegni”, pur rimanendo inalterata la tecnica usata. E particolarmente esemplificativi di questo momento artistico sono soprattutto i lavori del 1988.
Intanto le dimensioni delle tele mutano radicalmente riducendosi molto in larghezza, pur rimanendo quasi invariata l’altezza. Il risultato è l’immediata percezione di un verticalismo accentuato e interrogativo, che procura all’osservatore nuove inquietudini. Tutto il contesto osservabile nelle grandi tele precedenti, veniva percepito su di un piano dalle dimensioni più o meno equivalenti; così finiva per far ripiegare il senso del suo discorso su se stesso e al suo interno, rendendo il quadro una specie di grande arena chiusa, con l’implicazione di un eterno ritorno all’origine, punto di fuga ottico e mentale; sia per quanto riguardava l’atteggiamento di com-prensione immediatamente visivo che quello più riflessivamente evocativo e fantastico. Le nostre reazioni potevano essere di vario genere davanti a quelle immagini: ora di perplessità ora di svincolante ironia, tuttavia risultavano, infine, soddisfatte. Ma adesso l’accentuazione di una delle due dimensioni della tela provoca una situazione del tutto differente. Il nostro lavorio percettivo si sente costretto, per la limitatezza di una delle dimensioni, a percorrere il “corridoio visivo” in una sola direzione. Ciò provoca la sensazione, seria e drammatica, di una “costrizione” quasi fisica; che ci impedisce di accertare possibili diversi scioglimenti del nodo mentale e immaginativo, se non verso l’“alto”: proprio dove la visione, dopo averci fornito l’esca di una maggiore disponibilità, si interrompe con il limite fisico della tela. Non è più possibile alcun tipo di com-prensione: tutto ciò che rimane è la possibilità di una ap-prensione fortemente monca, fornitaci dalla visione del predominante che è di fronte ai nostri occhi e che lascia inquietantemente nella “latenza” tutto ciò che è al di là di quella ristretta fascia del visibile che ci si trova davanti. E chi siamo noi, quell’esile frammento dell’“essere”, al di qua? Non pochi sono i segni, le righe, le tracce che, attraversando il campo visivo nel senso della larghezza della tela, ci lasciano inappagati e all’oscuro della loro provenienza e della loro direzione, come scie luminose di aviogetti altissimi nel cielo al tramonto.
Per quel che riguarda i colori e i “disegni”, mentre prima sfuggivano a caso all’ignoto, galleggiando in un limbo che permetteva loro solo casualmente e per pochi attimi di venire alla luce, essi assumono ora dimensioni differenti e una collocazione più personale e indipendente: acquistano, infatti, una triplice ripartizione più netta; come se nell’immagine davanti a noi confluissero le apparenze di tre diverse entità, in lotta per la supremazia nell’imporsi del loro proprio essere. Le tele di questo periodo, infatti, presentano tutte, più o meno, un omogeneo colore di fondo che fa quasi da cornice ad una stesura centrale più agitata e complessa ma ben delimitata, la quale, a sua volta, è solcata e marcata da striature multicolori di varie forme e inclinazioni. Sfondo, centro e striature si rendono non solo autonomi tra loro ma ora sembrano animarsi di vita propria, in uno spazio che non è, comunque, il nostro; noi ci stiamo solo affacciando, attraverso una “feritoia” dello spazio-tempo, sulla loro dimensione, che sembra irrimediabilmente estranea e lontana dalla nostra, quando non ostile. Ma forse sono proprio i tempi che sono diventati ostili…
Dissolvenza n. 3
Sono abbastanza evidenti, in alcune di queste opere, caratteristiche analoghe a quelle di opere precedenti anche se improntate a più riflessive meditazioni. Riappare un modo di stendere ed amalgamare il colore, simile a quello di altri lavori dell’’83: la pennellata, come prima ampia e sintetica, si ordina però sulla tela in spazi predeterminati e distinti da colori lievemente differenziati, pur ancora inondata di grigie ombre; essa segue direzioni non più condizionate dalle dimensioni principali della tela ma, se mai, da intimi percorsi che vanno a tracciare malinconiche vie nascoste. Ancora, la pennellata abbandona la preminente casualità del gesto ma i colori, sempre di tonalità omogenee, si intrecciano in quegli “ampi intrichi di pennellate, ritmicamente amalgamantisi” già incontrati e descritti. Una variazione sul tema del monocromo si ritrova in altre opere dell’’88, dove il colore dello sfondo e quello del centro si uniformano (però senza alcuna possibilità di più profonda “intesa”, come presaghe metafore di una società lacerata nel profondo ma tutta intenta a far girare la “ruota della fortuna” e tutta d’accordo, in superficie, ad infischiarsene dei sinistri scricchiolii, anticipatori di probabili future catastrofi) su tonalità neutre e plumbee appena diversificate tra loro, un po’ per l’omogenea tinta nera dello sfondo e un po’ per quella sorta di stele grigiastra che costituisce il “centro” e che è avvisaglia di più tardi “cementizi” ammonimenti.
Flora e fauna, mappamondi e cemento
Siamo ancora alla fine dell’’88, quando a Claudio Marini viene in mente un’idea, i cui risultati si faranno vedere per tutto l’anno seguente: quella di farci osservare, magari proprio da quelle astronavi rimaste in orbita in cui si sono rifugiati gli “ultracorpi” superstiti, piccoli mondi in miniatura “girevoli”, scrutati col telescopio di una media ironia, partecipe e un po’ preoccupata. È vero che all’ironia non si addice preoccupazione alcuna, ma, se il mondo che ci ha fatto nascere si avvia verso la definitiva scomparsa, una volta che questa sia avvenuta, quale ironia sarà mai più possibile? E allora salviamo qualche “pezzo” di questo mondo, magari appiccicato sui “coperchi” di qualche avvolgicavo rimediato chissà dove; agghindiamolo e affibbiamogli un’identità qualsiasi e facciamolo girare come un mappamondo davanti ai nostri occhi, su un supporto che è, apparentemente, molto più serioso e importante del “mondo” stesso che gli sta sopra.
La tecnica mista di questi lavori, che si protraggono per tutto il 1989, è costituita dall’assemblaggio di minuscoli oggetti e frammenti di oggetti, più o meno comuni, trovati senza “cercare” troppo in là, in qualche caso riassestati, e fissati sulle due facce di quella magica superficie rotonda che scatena tutta la nostra fantasia di bambini. Il suonatore Jones è tornato ancora, all’improvviso, e si è messo a cantare il Marcondirondero. Questi “girevoli” sono le « filastrocche » di Marini. Piccoli mondi poetici con pochi accenni di flora e fauna superstiti che, dapprima immersi in un’oasi colorata ed allegra, popolare come le mura di quelle vecchie case del centro del paese che sono nell’infanzia di ognuno, presto affogheranno nel cemento; come avviene negli ultimi di questi lavori del 1989, cosparsi della sua patina grigia e rugosa che ogni tanto lascia trapelare all’evidenza sottostanti colori, come frammenti pavimentali di scavi archeologici, futuri e a futura memoria. Così fa la sua comparsa il cemento. Un cemento che, come una coltre, ricopre quei frammenti, diventati ora schegge di colore che occhieggiano verso di noi: vivaci e quasi puntiformi, come scintille di una antica sensibilità che viene piano piano soffocata da un’inarrestabile avanzata grigia e soffocante.
Noi non ci saremo
E il vento d’estate che viene dal mare
intonerà un canto fra mille rovine
fra le macerie delle città
fra case e palazzi, che lento il tempo sgretolerà
fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo,
ma noi non ci saremo…15
E il vecchio diceva
guardando lontano
immagina questo
coperto di grano
immagina i frutti
immagina i fiori
e pensa alle voci
e pensa ai colori.
E in questa pianura
fin dove si perde
crescevano gli alberi
e tutto era verde…16
Francesco Guccini
Non dovrà certo faticare molto Claudio Marini, per vedersi spiattellato di fronte il nocciolo del problema, che lui aveva già da qualche anno intuito ma che cercava, ottimisticamente, di considerare solo ipotetico e fantastico: la realtà supera sempre la fantasia. Il 1990 è l’anno di una vera colata di “calcio” e cemento in molte parti d’Italia. La cosa non è più, per niente, spiritosa e subito Claudio abbandona i supporti da favola e ritorna a quelli tradizionali della denuncia: la carta e la tavola. Riappaiono, accusatrici poiché inequivocabilmente leggibili, le superfici di medie dimensioni. Dapprima su carta e poi su supporto ligneo “mediodens”, prende corpo una serie di opere austere dove l’ironia s’affaccia ancora, ma assume i contorni, più ancora che della satira, del sarcasmo, riferito all’irresponsabile insipienza politica e sociale. Solo in una di queste opere l’ironia è scopertamente diretta: quella in cui, perfettamente riquadrati su una carta dai bordi chiari e regolari, vediamo un grigio contorno di colore acrilico circondare un rettangolo ancora più neutro e scuro di cemento, opacizzato in superficie da una stesura sottile di colore polveroso, simile ai residui delle lavorazioni edili. Ma il messaggio è ancora più sconvolgente: infatti a due piccole macchie, una verde e l’altra bianca, appena visibili, fa da evidentissimo contraltare una larga chiazza rossa dai bordi simili a sgocciolamenti: un’allusione civile e severa ai morti sul lavoro nell’immenso cantiere cementizio di “Italia 90”.
Nelle altre opere di questo anno si fa avanti un più poetico e struggente intendimento di Marini. Quel che rimane d’ironia e di sarcasmo è, infatti, poi autenticamente rivissuto e riproposto ad un più profondo livello interiore, che chiama in causa l’“uomo storico” Marini; ma con lui tutti gli altri, come genere umano. È mai possibile, si chiede Claudio, che nessuno voglia interrogarsi su quello che resterà di noi e dei nostri ricordi materiali, reliquie intendo, quando non ci saremo più e il cemento ridondante e in rovina, lascerà comunque intravedere, agli occhi di chi, più saggio e remoto, si appresterà a ricercarle, le nostre tracce colorate: come erano belle e come non ce ne siamo accorti in tempo!
I lavori realizzati su mediodens presentano analoghe caratteristiche: la parte più esterna è omogeneamente circondata da un colore nero rabbuiante, sorta di corridoio prospettico sprofondante in uno sconosciuto tempo futuro, quando i nostri occhi non saranno che quelli dei posteri. Al centro Marini dipinge un grande e regolare rettangolo con pennellate di colori acrilici vivaci e intersecantisi tra loro. Esso è, ma a noi è dato percepirne solo la frammentaria apparenza, poiché il Grande Rettangolo, magna charta della nostra storia passata e felice, è sepolto sotto uno strato di cemento dipinto di bianco, che lascia trasparire curiosamente, ancora al di sotto di repentini squarci, come delle tracce di rovine antiche, riportate alla luce dal gesto di una mano futura, che deterge con delicatezza la coltre polverosa accumulatasi nei secoli. E, com’è particolarità di un tale gesto, altri piccoli squarci o assottigliamenti di sabbia si formano per reazione di vento all’intorno, mostrando anch’essi, ma appena in trasparenza, non la visione, bensì la credenza di un colore, la sua “speranza”.
Marini aggiusta il tiro: ci dice che un bel giorno gli uomini saranno costretti a riscoprire l’essenza al di sotto dell’apparenza. Apparenza che, se idealisticamente intesa (come fin dai tempi di Platone ed Aristotele), ha la responsabilità di separare definitivamente l’ente dal fenomeno, il pensiero dalla poetica, il linguaggio dall’essere.
L’essere come ’ιδέα è ora promosso al rango di essente per eccellenza, e l’essente stesso, che era dianzi il predominante, decade al livello di ciò che Platone chiama μή ’όν: ciò che propriamente non dovrebbe essere e, di fatto, anche propriamente non è, in quanto deforma sempre l’idea, la pura e-videnza, col realizzarla, con l’incarnarla nella materia.17
L’apparire riceve ora, in base all’idea, un altro senso ancora. Ciò che appare, l’apparenza, non è più la φύσις , lo schiudentesi imporsi, e neppure il mostrarsi dell’evidenza; l’apparenza è invece l’emergere della copia. Siccome questa non raggiunge mai l’originale, l’apparente è mera apparenza, ossia propriamente un sembrare, una difettività, una mancanza. A questo punto l’ ’όν e il φαινόμενον si separano. Ne discende un’altra essenziale conseguenza. Siccome l’essere vero e proprio è l’ ’ίδεα, e questa è il modello, bisogna che ogni manifestazione dell’essente tenda ad eguagliare l’originale, ad adeguarsi al modello, a regolarsi sull’idea.18
La conquista della non-latenza dell’essente, e con ciò dell’essere stesso, nell’opera, questa conquista che già di per sé non si produce che sotto forma di un costante antagonismo, è sempre, in pari tempo, lotta contro il nascondimento, il coprimento, contro l’apparenza.19
Martin Heidegger
Eccola l’“opera” di Marini. Essa si pro-pone a noi come ri-costruzione di un tempo perduto, non solo materialmente ma anche spiritualmente e filosoficamente, col riallacciarsi a quel “punto zero” della storia del pensiero occidentale, quando la separazione idealistica dall’essere generò l’equivoco della rappresentazione idealistica e mimetica. Tutto questo con conseguenze anche eticamente e socialmente determinanti, poiché l’“apprensione” dell’essere si trasformò nella sua “rappresentazione”, secondo schemi idealistici e metafisici, non derivati dall’essere stesso dell’uomo ma dalla sua “rappresentatività” ideologica e sociale.
La verità della φύσις, l’ ’αλήθεια, concepita come la non-latenza che si realizza nello schiudentesi imporsi, diventa l’ ’ομοίωσις, la μίμησις, l’adeguazione, il regolarsi su…, l’esattezza del vedere, dell’apprendere concepito come un rappresentare.20
Martin Heidegger
Archeologia del futuro remoto
Nel 1991, le caratteristiche delle opere ci riportano radicalmente nel cuore dell’ironia tipica della sensibilità e dell’impegno civile di Claudio Marini, e ci avvicinano ad una sorta di futura ricerca archeologica del piccolo evento, del piccolo oggetto che, dimenticato dall’“Uomo Superiore” odierno, poi ne rimarrà, in definitiva, sola ed unica testimonianza. Nei lavori, di medie dimensioni, è l’altezza, di nuovo, a prevalere. La mano di Marini è costretta a scontrarsi con misure più ristrette, che sembrano quasi costringerlo a gesti più meditati; prova di una volontà espressiva più circoscritta e radicale. Anzi, di più: l’opera diventa progetto per una “stele”, dove la mano dell’artista attuale dispone i reperti destinati ad un’archeologia del futuro, in un rito di commemorazione rovesciato nei fini e nei destinatari. Si tratta di “reperti” comuni e bizzarri, come sicuramente comune e bizzarra (al minimo!) verrà ritratta la vita quotidiana di questo nostro presente, quando, sui libri dei nostri posteri, sarà diventato “passato”; e le nostre stupide e “plasticose” anticaglie costituiranno le uniche testimonianze che noi, di oggi, saremo stati capaci di tramandare. E allora, non si tratta propriamente di commemorazione ma di un monito,di cui noi stessi siamo i destinatari.
Nelle opere di questo periodo, le Teche, si avverte la sensazione di aver varcato un limite da cui è difficile tornare indietro; come se l’avventura stesse per finire, in una commedia che non ammette più variazioni di trama. Il cemento ora ricopre ed ingloba oggetti carichi di tenero anonimato o di sarcastica individualità, come ex-voto e fiori di plastica, spatole e scatolette, funi e conchiglie; “ritrovamenti archeologici” di cui, nel futuro remoto, non ci si riuscirà a dare spiegazione. Sorta di frammenti di una civiltà sconosciuta, ritrovati chissà come sul pianeta dei posteri, queste stele li riporteranno a circostanze ed usanze ignote e, per questo, curiose.
In particolare, di due di queste opere mi piace parlare. Quella in cui si scoprono, dimenticati sul cemento, due pennelli ancora imbrattati di tinta densa ma improvvisamente abbandonati, come a causa di una ignota catastrofe, accanto a comunissimi recipienti di colore rappreso. È, da parte di Claudio, una metafora (tardivamente riportata alla luce da altre future mani, si spera, più sensibili) dell’impegno artistico annegato nell’indifferenza della tragedia comune, o una sarcastica commiserazione della propria testardaggine d’artista nel continuare a denunciare, comunque, l’incombere della tragedia? La seconda opera ha un immediato e indiscutibile carattere di denuncia sociale, economica e politica, dal messaggio tanto più chiaro quanto più scarni sono i “segni” del messaggio stesso: una pubblicizzatissima carta di credito spunta mezzo affogata nel cemento, come inutile superstite di un modo di vita tanto esaltato quanto ormai inesorabilmente estinto; ma il senso di sollievo, che da tale benedetta estinzione si potrebbe trarre, viene annullato dalla consapevolezza che, a quel modo di vita, non è sopravvissuto nessuno; come viene testimoniato da altri piccolissimi frammenti, che mai più nessuna mano umana potrà toccare. Vi ricordate l’ultima scena del film degli anni settanta “Il pianeta delle scimmie”, in cui si vede la Statua della Libertà affiorare semidistrutta dalle spiagge dell’oceano, facendo realizzare al protagonista la fine dell’umanità per Olocausto Nucleare? Beh, qualcosa del genere, legato all’“immaginario” della mia generazione, ho provato nel vedere quest’opera di Marini. E qualcosa di simile deve aver provato anche lui, se un’altra sua opera allude chiaramente al Secondo Olocausto che minaccia il genere umano: quello ecologico. E se siamo scampati (ma ne siamo proprio sicuri?) al Primo, non è detto che riusciremo a farlo con il Secondo. Forse sfuggire alla Bomba è stato più facile che sfuggire alla droga più pericolosa: la cieca fiducia in un illimitato sviluppo materiale. Tra tutte le sue opere, sarà una sola immagine a ricordarcelo. Come nel racconto di Poe “La mascherata della Morte Rossa”, una sola immagine, sconvolgente, ricoperta di cemento nero, sarà testimonianza sarcastica e brutale, non certo di tenerezza o di originalità, bensì di tremenda, ultima costrizione per tutti, prima della fine: la maschera antigas.
panoramica dall’alto
Ma sono macchine. Qualsiasi cosa sia accaduta, qualsiasi coscienza di massa abbiamo dato loro, non possono riprodursi. Tra cinquanta o sessant’anni, saranno soltanto ammassi di lamiere arrugginite, senza più niente di minaccioso; carcasse immobili che gli uomini liberi potranno prendere a sassate.21
Stephen King
La natura, ad ogni modo, non è caotica, perché assolutamente nulla di caotico può esistere di per sé. Si tratta semplicemente di un concetto che appartiene ad un ambito il quale si sottrae alla misurazione mediante le comuni regole del raziocinio.22
Daistz Teitaro Suzuki
See it. Like it. Buy it.
Come liberare la poesia dai suoi oppressori? La poesia che è chiarezza enigmatica e fretta di accorrere, scoprendoli, li annulla.23
René Char
Quello che dalle opere degli anni ’90 e ’91 traspariva come allusione e metafora, nelle opere degli anni seguenti, e fino ad oggi, si impone per la sua presenza stessa. Il pericolo della catastrofe ecologica non viene più evocato, ma esplicitato attraverso la sua prima e principale materializzazione, tipica dell’“usa-e-getta” della civiltà dei consumi: la plastica; una sorta di disorganico “blob” che s’insinua in ogni angolo del nostro mondo in senso letterale e metaforico: nella Terra, nell’ambiente tutti i giorni intorno a noi, nella nostra memoria. La plastica ha invaso tutto e in certi casi, più che rifiuto, è già reperto archeologico. E con lei le lattine e tutti quegli altri tipi di scarti che, occhieggianti pietà e misericordia, spaventati essi stessi di che cosa diventeranno, di quale fine sarà loro riservata, attendono sul ciglio delle strade. Sorta di contrappasso per la nostra pretesa di continuare a produrre, senza ri-durre e con-durre.
Ma questi sono anni terribili, in cui si produce un altro genere di rifiuti: quelli umani; emigranti non voluti (e quindi clandestini); o voluti, ma solo a prezzo di costo (e quindi più sfruttati degli sfruttati); uomini soli, sradicati; senza lavoro e speranze, provenienti da paesi di cui noi a malapena conosciamo i nomi; ma dove loro hanno lasciato genitori, mogli o mariti, e figli. Perciò nelle opere di Marini di questi ultimissimi anni comincia a comparire la traccia dell’Uomo.
Infatti dopo il periodo già descritto, dal ’92 inizia per l’artista una fase di ripensamento importante, già preannunciata proprio dalle Teche del ’91: i rifiuti non sono più “archeologia”, ma diventano resti, tracce di un passaggio confuso di uomini diversi, con altri bisogni e differente origine. Claudio è un artista che non si risparmia e si mette continuamente in discussione, provando e riprovando; finché l’idea che ha in testa non prende una forma salda e definitiva; ma di tutto quello che l’ha preceduta, Marini non rinnega nulla: la sua produzione artistica è come un diario scritto e ri-scritto in continuazione. Ed egli è affezionato a tutte le sue pagine; perché tutte, bene o male, sono vergate da lui e di lui parlano.
Le opere esposte nella mostra “Shopping” del ’93, documentano una parte importante del percorso intrapreso dall’artista; sono lavori realizzati in cemento e acrilico su tela di considerevoli dimensioni o, successivamente, su legno e di più piccole misure. Il cemento viene dipinto in monocromo con l’inserzione di frammenti, più o meno spiegazzati, di buste di plastica o di radi e minuscoli oggetti; come nell’“Incubo del Cane”, dove in una sterminata pianura rossa intravediamo un solitario alberello, evocativo e crudele richiamo di una irraggiungibile oasi, forse già contaminata.
I numerosissimi lavori del ’92 e del ’93, possono essere suddivisi in tipologie caratterizzate dall’utilizzazione di un diverso supporto, come la tela o il legno, e dalla diversa valenza interpretativa della tecnica mista e, in particolare, della plastica: talvolta segno a metà strada tra il consumismo pubblicitario dell’“usa-e-getta” e il “rifiuto” abbandonato dall’uomo, nonostante tracce ancora evidenti della sua potenziale ulteriore vitalità; talaltra puro mezzo espressivo, ricco di colori e di stampigliature divertenti e inaspettate; prodotti, questi, comunque di un ingegno creativo dell’uomo che, nella manifattura di serie e nella loro pratica e selvaggia utilizzazione, perdono ogni loro dignità e bellezza. Solo il recupero nell’opera d’arte, per frammenti illuminanti immersi nel cemento e inseriti in un contesto totalmente estraneo, concede loro, ancora, una qualche giustificazione all’esistere.
In alcune opere realizzate in cemento e acrilico su legno, sono ravvisabili somiglianze con i « fitti tratti pittorici, ampi, ma incanalati in modo gioiosamente libero e vitale » già detti, a proposito delle opere risalenti agli anni ’70; e, soprattutto, con quei « repentini squarci, come delle tracce di rovine antiche, riportate alla luce dal gesto di una mano futura che deterge con delicatezza la coltre polverosa accumulatasi nei secoli », nominati a proposito delle opere del ’90. Ma qui il lavoro di discoperta non è casuale come quello di un ipotetico ricercatore futuro; esso è invece razionale e svelante come quello di un critico osservatore contemporaneo, che ci manifesta con quali oggetti visivi dobbiamo fare i conti tutti i giorni, senza pensare alla loro pericolosità ecologica e logica. Squarci, tra il bianco e il grigio del cemento, si aprono su inquietanti appendici di colore nero, rosso e giallo, o allusivi rettangoli di tecniche miste dai colori vivaci; i quali con le loro scritte molto meno allusive, danno per scontato, surrettiziamente, che il nostro mondo è fatto per scegliere e per comprare, in mezzo a fiori e ammennicoli vari di carta e plastica; ma non ci dicono che è, prima, necessario essere scelti e vendersi: “Guardalo. Ti Piace. Compralo.” Chi avrebbe scelto che?
E allora rimandiamo tutto al mittente, magari alle Poste di Sua Maestà Britannica. Return to Great Britain Post!
Ma la plastica, come dicevamo, può essere anche mezzo espressivo.
E Claudio ne dà la dimostrazione l’anno successivo.
Artista a Schema Libero
Nella mostra “Artisti a Schema Libero” del ’94, Marini presenta alcuni suoi lavori che, rispetto a quelli precedenti, utilizzano la plastica, soprattutto, ma anche altri generi di “rifiuti”, come strumento espressivo e di denuncia.
È difficile, in queste opere, realizzate in cemento, plastica e acrilico su legno, discernere il motivo che porta l’artista a servirsi della plastica come mezzo di espressione. A prima vista potrebbe sembrare una specie di regressione alla matericità, ma poi, osservando bene il genere di plastiche di cui si avvale, ci si accorge che le intenzioni di Marini sono altre. Egli adopera “tovaglie” di plastica, quelle da quattro soldi che, per intenderci, ricoprono i tavoli di cucina di mezzo mondo; se le va a cercare personalmente nei negozi del paese. Anzi, meglio, neanche le cerca: le trova; perché la maggior parte di esse sono scampoli di merce invenduta, e spesso per evidenti ragioni estetiche! Doppia « bruttezza », dunque. Quelle plastiche sono orribili sia immaginate distese su qualche tavolo, sia abbandonate in qualche discarica (e questa non è solo una bruttezza estetica, ma anche etica ed esistenziale). Eppure Claudio è un artista, più di altri, a “schema libero”, e non se la sente di abbandonare al suo destino tutto quello che — anche di negativo — l’uomo produce; se non altro per sbandierarlo come monito, come segno della nostra irresponsabilità. Del resto non sono, questi, tempi in cui uomini attirano dall’Oltremare altri uomini, col miraggio della restituzione di un benessere precedentemente sottratto loro, e poi li ricaccia in mare? Si può creare la bruttezza per i nostri fini personali, e poi rifiutarla, quando i suoi fini non corrispondono più ai nostri?
Più i calcolatori sono importuni,
più senza misura la società.
Più raro chi pensa,
più solitario chi poeta.
Più angustiato chi presagisce,
presagendo la distanza
di cenni di salvezza.24
Martin Heidegger
Inoltre quelle plastiche, inserite in un ambito completamente diverso e reinventate dalla generosità magica di Claudio Marini, sembrano riacquistare vita e mettersi a camminare con le proprie gambe. Ce ne sono di straordinarie, e cito a caso: un triplice canestro di frutta, un plaid scozzese dai tenui colori, una biblica separazione del cielo dalle acque, una vetrata a grisaille, una saracinesca abbassata, un bianco deserto screpolato in mezzo a una ghirlanda di fiori, un racconto mitologico in geroglifici greci (!), e una commovente coppia di fagiani sperduti in una improbabile palude, dal cielo squarciato di bianco: una specie di giorgionesca Tempesta per soli uccelli.
Compostaggio in Via dello Sterparone
Dopo “Zapping” e per tutto il ’94, Claudio Marini, complice anche la testimonianza di un profetico video da lui realizzato, si mette in cerca di ulteriori e più « sporche » specie di rifiuti; forse qualcuno sta equivocando sulle sue “plastiche”: le ritiene quasi artistiche e comincia a dimenticare le lontane origini eversive degli Ultracorpi. Marini, allora, non si ferma e sbatte il mostro in prima pagina: costruisce e riempie i “cassonetti”. Questi sono simili a delle teche: alcuni raggiungono dimensioni medio-grandi e tutti gli altri si accontentano di rimanere in quelle medie!
In queste scatole di legno, dai bordi rigorosamente neri, vengono raccolti tutti i resti, le tracce, come dicevo prima, di quella parte delle nostre giornate occidentali dedicata al consumo e all’abbandono, spesso immediato e freddamente inconsapevole, di quello stesso che viene consumato; una abitudine, ormai: involucri privati del loro contenuto e di esso molto più ingombranti e appetibili per forme e colori; ma a vederli, schiacciati e deformati in questi “cassonetti”, viene da chiedersi cosa mai in essi ci sia stato di tanto prezioso, da averlo assunto, così, senza badare al contenitore; anzi, forse, attirati solo da questo, che ora giace nel fondo del cassonetto. Ma non solo involucri e contenitori; ci sono anche bombolette spray, lattine di bibite, targhette e bottiglie di plastica, ritagli di foto e di vecchi giornali appassiti, profilattici più o meno usati. E unicamente questi rappresentano la sola traccia di un’azione veramente umana.
Tutti questi oggetti e frammenti di oggetti, non vengono solo composti nel cassonetto, ma risultano pure certificati, diciamo così, da impianti e cornici variopinti, da spruzzi e pennellate di colori vivaci, in una totemica accozzaglia di prodotti industriali diversi e destinati alle più svariate (per qualità e genere) attività dell’uomo occidentale e consumista: abbuffarsi, bere intrugli, leggiucchiare e far finta di acculturarsi, guardare senza vedere, toccare senza sentire.
In Via dello Sterparone, la targa con il nome della strada si staglia contro un “azzurro orizzonte” che malinconicamente guarda ai rifiuti sottostanti, accumulatisi alla rinfusa in mezzo ad “arbusti” dai filamenti colorati. In un altro cassonetto, un minuscolo violino attende con pazienza la venuta dell’armonia universale, circondato da un grigio manto di desolata solitudine, interrotta da un mucchietto di ignari rifiuti. In un altro ancora, risuona la Voce del Padrone dei “Migliori Magazzini Musicali del Mondo”, mentre la pennellata dissacrante di Claudio ne riecheggia l’acronimo, quasi come un avvertimento. Che dire, poi, degli altri “cassonetti” così piacevoli da guardare; anche solo per i loro coloratissimi oggetti e pennellate, o per l’Uomo Ragno che si arrampica su una vecchia cornice? E di quello in cui, di fronte a noi, si apre il sipario di un magico circo dove i cavalli ammaestrati hanno imparato a volare alto, in un’aureola dorata?
campo lunghissimo a sfumare
Nuvole per la Grande Sete
… Nel 1945 abbiamo immaginato che lo spirito autoritario avesse perso, con il nazismo, il suo terrore, i suoi veleni sotterranei e i suoi forni definitivi. Ma i suoi escrementi sono sepolti nel fertile inconscio degli uomini. Una specie di colossale indifferenza rispetto alla riconoscenza degli altri e alla loro espressione vivente, parallelamente a noi, ci informa che non ci sono più princìpi generali o morale ereditaria. Un movimento fallito li ha travolti. Vivremo improvvisando al livello del nostro prossimo. Quando la fame diventa sete, la sete non si fa nuvola. Un’intolleranza demente ci cinge. Il suo cavallo di Troia è la parola felicità. E credo sia mortale. Io parlo, uomo senza peccato originale su una terra presente. Non ho mille anni davanti a me. Non mi esprimo per gli uomini lontani che saranno — come non dubitarne? — altrettanto infelici di noi. Ne rispetto la venuta. Di solito, si è tentati di allungare l’ombra chiara di un grande ideale davanti a ciò che chiamiamo, per comodità, il nostro cammino. Ma questo tratto sinuoso non può nemmeno scegliere tra l’inondazione, le erbacce e il fuoco! Eppure, l’età dell’oro promessa meriterebbe un nome simile soltanto al presente, e poco più. La prospettiva di un paradiso ilare distrugge l’uomo. Ogni avventura umana la contraddice, ma per stimolarci, non certo per opprimerci.25
René Char
Nel ’95, e siamo ormai alle mostre “La nave dei folli” e “Presagi, paesi, e paesaggi”, lo sguardo di Claudio Marini si inoltra in spazi più ampi. Nelle sue opere, quello che prima era stato archeologia fantastica e denuncia ecologica, apocalittica o sarcastica, si trasforma in una riflessione antropologica dolente e partecipata. La sua com-passione per il destino (già prima accennato) dei rifiuti umani si accentua, e appaiono i suoi primi lavori dedicati ai Naufraghi della Terra, che, da ogni parte, emigrano in ogni parte. Dentro alcuni degli ultimi cassonetti erano apparse, oltre ai rifiuti industriali, canne assemblate, incollate e intrecciate, in forma di zattere male in arnese, schizzate di colore; con bandierine di plastica stese da una estremità all’altra, come patetiche emulazioni del Gran Pavese di imbarcazioni ben più ricche e lussuose. Ma queste zattere trasportano emigranti e naufraghi della vita: difficilmente costoro potrebbero permettersi un biglietto di prima classe e sul ponte belvedere.
Queste zattere si differenziano l’una dall’altra per dimensioni, orientamento e “dotazioni” varie. Sono lavori realizzati in legno e tecniche miste. Elementi costanti sono gli sfondi di colori accesi su un blu marino — evidente riferimento alla drammaticità e all’instabilità della situazione dei naufraghi —, gli schizzi filamentosi di colori vivaci, come spruzzi irrequieti di un ambiente che i naufraghi stessi riescono ad affrontare con difficoltà, tentando di inserirvisi circondati da un’ostilità che cercano di vincere con sbandieramenti ammiccanti di stracci e buste di plastica, come unica possibilità di intendimento semantico: “anche noi usiamo la plastica, come voi; e su questo potremmo intenderci: ci siamo modernizzati anche noi. Mica siamo tanto diversi!”.
Ma quando la fame diventa sete, la sete non si fa nuvola.
Passaggio a Pretoria
L’antifona di tutto questo è che bisogna tornarsene, in spirito o, forse, in carne e ossa, in quel Continente da dove il genere umano si è sparso per il mondo, a partire da due milioni di anni fa. Chissà se la povera Lucy, quando ebbe chiuso gli occhi, si addormentò per sempre immaginando, pur senza linguaggio e forse senza pensiero, un futuro in cui i suoi remotissimi figli, dopo essersi da lei allontanati, si sarebbero volentieri ricongiunti con il suo breve respiro selvaggio, molto meno selvaggio del nostro.
Ed ecco allora Claudio desiderare, neanche tanto metaforicamente, un “passaggio” a Pretoria. In quel paese dell’Africa che ha resistito, che ha combattuto, circoscritto e integrato la civiltà dei Bianchi, ben al di là delle Nevi del Kilimangiaro!
Così, come al risveglio da un sogno o al ritorno da un lungo viaggio, ora cerco di riportare alla memoria quelle recentissime opere che Claudio, quasi costretto e imbarazzato, si è rassegnato a farci vedere (a me e a nostri comuni amici, tutti sinceramente impressionati) le une a fianco delle altre; come le ultime, suggestive scene di un film iniziato molti anni fa, girate, prima del ritorno a casa, in un villaggio della fantasia; dove io ho potuto osservare le capanne illuminate dal sole o dai falò della notte, e le finestrelle con la loro luce gialla che si proietta all’esterno, in mezzo a pelli di zebra e canne intrecciate; che stavolta non sono più zattere, bensì forse, finalmente, focolare e rifugio.
Ma per chi?
Dissolvenza n. 4
La vecchia Land Rover scoperta caracollava sulla strada sterrata, zigzagando di qua e di là per evitare le buche fatte qualche giorno prima dalle bombe dei mortai; il guidatore, un uomo sulla cinquantina, con le maniche della camicia a quadri arrotolate e un logoro cappello da esploratore, fischiettava un vecchio motivetto francese reggendo con attenzione il volante.
La grande savana arborata, vicina alla provincia del Katanga, che lui stava percorrendo, era ormai diventata una zona pericolosa: soprattutto per gli unici bianchi imbecilli che, non solo non avevano osteggiato l’ascesa al potere di Lumumba, ma in qualche modo l’avevano salutata con simpatia e non si erano messi in affari facili e lucrosi con i secessionisti katanghesi, appoggiati dalle potenze occidentali. E di quei tre bianchi, lui era l’unico a poter ancora parlare: degli altri due, uno era stato fatto a pezzi a colpi di machete e all’altro erano state tagliate la lingua e le dita, in agguati tesi dai miliziani di Ciombe a distanza di pochi giorni. Inutile dire che anche lui si sentiva adesso un po’ di fiato sul collo; così, prima che il fiato diventasse un affilato colpo di machete, aveva deciso di regalare quel poco che possedeva ai suoi amici del villaggio vicino a Kizamba e, approfittando degli ultimi sussulti di vita del motore della sua Rover, filarsela verso Luputa, attraverso la pista su cui ora procedeva, per inoltrarsi sulla camionabile che portava a Luluabourg. Da lì, con un aereo e con un po’ di fortuna, sarebbe arrivato a Brazzaville e poi a Pointe-Noire, dove avrebbe potuto imbarcarsi sulla prima nave diretta in Europa.
Aveva regalato tutto, ma qualcosa aveva deciso di portare con sé: nel cassone della Land Rover, erano ammucchiati i ricordi che lo stregone del villaggio gli aveva lasciato durante gli anni della sua permanenza tra gli indigeni e ai quali si sentiva particolarmente affezionato. Si trattava di tre pitture su legno, coi colori vivaci delle antiche tribù del Kasai e con l’ornamento dei preziosi giunchi profumati che crescevano sulle rive del lontano Sankuru. Il vecchio Mwene gli aveva detto che quelle tinte e quelle canne, così intrecciate, portavano fortuna. Lui non sapeva spiegarsi ancora il perché, ma, in quel momento, non aveva potuto fare a meno di credergli, non appena aveva visto quei colori e quegli intrecci: era come se con essi fosse stata tessuta la trama di un destino più grande di tutti loro, invincibile ed eterno; che li avrebbe per sempre legati e a cui quelle tre figure avrebbero sempre fatto riferimento, in ogni luogo e in ogni tempo. Finito quell’improvviso lampo visionario di consapevolezza magica, lui aveva sorriso a Mwene; gli aveva baciato le mani, si era inchinato congiungendo con rispetto le sue e aveva sfiorato le tre pitture nel senso della larghezza, per comunicare al vecchio stregone che accettava con grande piacere il dono. Mwene aveva restituito il sorriso ma gli aveva anche detto, fissandolo intensamente con i suoi occhi profondi: “Ricorda, Philippe: oggi noi e voi portiamo gli stessi vestiti e sembriamo uguali, ma un tempo noi vestivamo diversamente; come ci vedi quando danziamo nelle nostre feste. E vivevamo diversamente: quando era buio e quando pioveva, nessuno ci costringeva a lavorare. Non potete pensare di rendere gli uomini uguali, vestendoli tutti alla vostra maniera. Dovevate rispettare la nostra diversità: io non so cosa potrà accadere, un giorno… Anche se da un po’ di tempo faccio degli strani sogni!”
Il vecchio aveva avuto ragione: erano passati appena due anni e lui ora stava scappando con tre tavole dipinte, buttate dentro al cassone del fuoristrada.26
Lo schiudersi all’evidenza
Questo aspetto scosceso ed estremo non è mai visibile agli occhi di chi si appaga della semplice descrizione e della mera constatazione dei fatti, fossero pure migliaia d’occhi a voler scrutare condizioni e stati d’animo nell’uomo. Un tale essere può rivelarsi solo a una prospettiva poetica-pensante.27
Martin Heidegger
Il mio cuore unico e nobile ha testimoni in tutte
Le contrade d’amore, che svegli andranno tentoni;
E quando cieco sonno cadrà sui sensi spianti,
Il cuore sarà senso, anche se crepino cinque occhi.28
Dylan Thomas
L’“inquietante” si contrappone senza posa al “predominante” (anche heideggerianamente inteso). L’estromissione dalla « tranquillità » è il prezzo che l’uomo deve pagare nel suo tentativo continuo di contrapporsi al “predominante”, cui è perennemente esposto. Questa lotta, questa “violenza” che l’uomo accetta per la propria realizzazione esistenziale, si compone di due momenti fondamentali: il momento della identificazione dei limiti del “familiare” e il momento della trasgressione di tali limiti29. Lo strumento principale di questa interpretazione e trasformazione non è la logica, il pensiero calcolante; e ancor meno la consuetudine mentale e vagamente raziocinante. È, invece, il pensare-poetico (nell’accezione più vicina al significato greco di poetica); il “cuore” che diventa “senso” e atto.
Come prescindere da tale strumentazione poetica, nel desiderio di “apprensione” che suscita in noi lo schiudersi alla visione di ogni opera d’arte? “L’apprensione — dice Heidegger — non è un modo di comportamento che l’uomo possegga come una proprietà, ma al contrario, l’apprensione è l’evento che possiede l’uomo30”. Perché non pensare, allora, che l’atto (ma proprio il gesto, dico) artistico e l’evento dell’apprensione, abbiano tra di loro significativi punti di contatto, o siano, addirittura, essenzialmente tutt’uno?
Quattro anni dopo…
Più degli orecchi
gli occhi
testimoniano31
Eraclito
Dissolvenza n. 5
Sulla parete di fondo dal pavimento al soffitto erano sistemate, una accanto all’altra e in un ordine che sembrava seguire una logica narrativa, piccole e grandi tavole dipinte, caratterizzate da sbruffi di materiali e filati di risulta e da forme disuguali: alcune allampanate ed evocative, altre impregnate di colori vividi e avvinghiate su sé stesse nell’apparente, eterna circolarità di un ineluttabile e tragico destino.
Fletcher Morgan osservava a bocca aperta e stava per dire qualcosa allorché Klostermann, assunto un tono solenne, esclamò:
“Queste sono le opere di Philippe Joubert! E non si meravigli di vederle qui. Un pittore in fondo non fa che imbalsamare la realtà propria e quella degli altri, affinché la memoria non ne vada perduta. Esattamente come fa un tassidermista con gli animali più belli. Sapesse quanti esemplari di animali scomparsi ci sono là, attaccati su quelle pareti! In questo modo verrà conservato il ricordo del loro aspetto.
“Philippe utilizzò cascami di stoffe e materiali diversi per raccontare le sofferenze dei cascami umani che lui ed io incontrammo, e che noi stessi siamo diventati una volta sopravvissuti. Almeno io, sicuramente.
“E le carcasse dei miei animali non sono altro che cascami” concluse in un sussurro Elijah Klostermann, volgendosi a guardare Morgan.
L’americano si scosse e distogliendo lo sguardo dalla parete di fondo si voltò a sinistra, dove l’altro sembrava in attesa di qualche sua reazione.
“Non ci avrei mai creduto se me lo avessero raccontato. — disse in tono estatico — Ma quello che vedo, con tutto il rispetto, mi sembra ancora più chiaro e tragico delle sue parole e dei suoi racconti. Io vedo quella Porta Nera, e già so che è la soglia dell’anticamera delle docce dove migliaia di suoi correligionari furono sospinti…”
“Milioni” lo corresse Klostermann.
“… e poi — continuò immerso nelle sue considerazioni Morgan — l’Inferno, il Giudizio Universale dove non esistono gli eletti… e gli impiccati…”
“Alcuni venivano impiccati solo perché non avevano pronunciato forte e correttamente la parola ‘buongiorno’ in tedesco” sottolineò Klostermann, con lo sgomento e il rimorso di contarsi tra i sopravvissuti.
“E questo… Oh, mio dio! Questo rappresenta l’orrore della spoglia di suo figlio. Ma come ha potuto, Elijah?”
“Philippe capì. Io non credo nell’al di là, ma credo nell’insegnamento che la memoria tramanda. Forse altri uomini non commetteranno più una tale barbarie, pensando ai loro figli… O sono un ingenuo a crederlo?” si lasciò sfuggire Klostermann, fissando quasi provocatoriamente Morgan.
“Le sbarre delle prigioni…” elencò ancora Fletcher, senza raccogliere.
“È là dentro che ci torturavano; per un’inezia. E se eravamo fortunati.”
“La disposizione delle baracche, a Birkenau… In mezzo alla neve…”
“Questo era difficile. Come ha fatto ad indovinare?” ironizzò amaro Elijah.
“I fari del convoglio che si avvicina al binario…”
“Beh, questo era più facile. Continui. Lo vede che parlare con gli altri e ascoltare quello che hanno da dire aiuta a comprendere meglio i fatti!”
“La Ragazza con Turbante di Vermeer… Sua moglie!”
“Sì. Circondata da cascami. Prima che le fracassassero il viso sulla maniglia del vagone. Così come la ricordo quando ci guardò per l’ultima volta; nostro figlio e me!”
“Elijah, la smetta! Il suo è un angoscioso compiacimento.”
“No. Lei non ha capito niente. Voglio che tutto sia ricordato. Altrimenti le mie sofferenze non avrebbero alcun senso. Gliel’ho detto che non credo in nessun riscatto soprannaturale!”
“Basta, non ce la faccio più!” esclamò l’americano abbassando gli occhi.
Elijah Klostermann guardò con commiserazione Fletcher Morgan, ma continuò inflessibile:
“Allora proseguirò io. È lei che è venuto a chiedermi di Philippe Joubert e delle sue opere; delle frasi allusive che pronunciava sul mio conto! Ha detto ‘frasi allusive’, proprio così! Ecco a cosa alludevano… Guardi qui: questo è il fumo che usciva dai camini quando i forni funzionavano a pieno regime. È rosso, come il sangue di tutti quegli innocenti. E questo è quello che fui costretto a vedere, quando alcune guardie si accanirono con il calcio dei fucili su un mio compagno di baracca, esanime a terra: ma fecero bene, perché si era azzardato a chiedere una coperta, e invece tutti noi zitti ad accettare di morire dal freddo e di patire! Non sapemmo mai se stesse chiedendo quella maledetta coperta per sé o per il compagno di branda che sussultava e delirava per la febbre encefalica. Questo è il cappio realizzato con corregge di cuoio o con corde di pianoforte, a scelta del boia, perché strangolasse a rilento quei disgraziati che vi venivano appesi e che loro chiamavano ‘traditori del Reich’.
“Questa più grande, infine, è la Porta Nera attraverso la quale un giorno passeremo tutti. Come vede è ben più ampia e comoda di quella attraverso cui passarono mio figlio, mia moglie e mio padre!” A questo punto Elijah Klostermann si coprì il viso con le mani e si accovacciò, inginocchiandosi senza un lamento.32
Ferri, guaine e cascami
Ci siamo ritrovati. Eh, sì. Ci siamo ritrovati, quasi quattro anni dopo. Lui era sempre lì nel suo studio, con i soliti altri amici tutti intorno.
Mi ha fatto vedere qualcosa… Molto di più che qualcosa. Ho visto tutto…
Il suo studio è sempre più affollato. E non soltanto di persone.
Gli amici sono più o meno sempre quelli, ma sono le opere che si accatastano sempre di più, una sull’altra, appoggiate alle pareti. Chiede aiuto a noi per aiutarlo a scostarle, sostenerle e farcele vedere. Sono di grandi dimensioni, la maggior parte; grandi tavole di legno, con cascami incollati a forma di capanna: le “Capanne” appunto, come dice lui; superstiti, dopo il Passaggio a Pretoria. Poi conduce mia moglie e me, dapprima nella sala principale dello studio, dove ci fa vedere la sua ultima invenzione: guaine isolanti di gomma, incollate, spianate e quasi liquefatte “nel” legno, accostate a smalti e cascami, ancora quei “Cascami” che nell’ottobre del ’97 sono stati i drammatici protagonisti della mostra omonima;
(ma ora i colori sono più vividi e tersi. Ho l’impressione di trovarmi di fronte a qualcosa di completamente nuovo, al di fuori degli schemi dell’ordinario corredo materico di altri anni e di altri artisti. C’è qualcosa di dolente in queste “guaine”. Una drammaticità profonda che non si può collegare a nient’altro che a Marini stesso; il Marini delle “Teche” e dei “Cementi” di qualche anno fa, che si manifesta in più grandi dimensioni e con ben altra, grandiosa tragicità)
quindi ci riporta all’ingresso, dove in un primo momento ci fa notare uno squarcio, che un malaugurato incidente di “spostamento” ha prodotto in una grande tela, vecchia di almeno un decennio,
(eppure quello squarcio sembra averle ridato nuova vita, e Marini come sempre, se ne è subito accorto…
Cosa ne uscirà fuori, di qui a qualche mese?)
e poi ci mostra l’ultimissima novità: gli smalti e il cemento aggiunti alle guaine ed ai cascami.
Piccole tavolette, dapprima; poi tavole sempre più grandi
(fino all’ultima, che ho visto da poco, appena qualche giorno fa…, arricchita di una stesura di smalto rosso, liscio e levigato come l’aria e l’acqua nel “Battesimo di Cristo” di Piero della Francesca; ma qui c’è sentore di paura e di tragedia incombente: il sentore del nostro scorcio di fine millennio, che ha ben poco di rinascimentale…)
che si ricollegano idealmente ai “Ferri”: quelle mostruose “schegge” che ricordano le lamiere di carri e case divelte dalle bombe, frammenti di stragi e di massacri che Claudio ha realizzato nel ferro e col rosso, striature di sangue e di morte, urla di madri e figli, perché il mondo non si è pacificato affatto.
Il mondo non si è affatto pacificato, nel frattempo…
Dissolvenza n. 6
“Il Grande Cacciatore Bianco, come gli indigeni chiamavano Philippe, — continuò Klostermann — aveva visto per la prima ed unica volta delle pitture proprio lì, in Congo, e in età più che matura, quando lo stregone del villaggio dove viveva gliene aveva donate alcune, tra quelle tradizionali della sua tribù. Poi lui le aveva abbandonate, prima della fuga da quel paese, affidandole ad un ragazzino; almeno così mi raccontò. Ma mi disse anche che ne aveva sempre continuato a subire il fascino magico e misterioso.
“Gli dissi che lo invidiavo; anch’io avevo sempre voluto raccontare agli altri quello che i miei occhi avevano visto, ma non ne ero mai stato capace. Così lui si offrì di farlo per me, ma io posi una condizione: che mi stesse ad ascoltare e che alla fine del mio racconto riflettesse sul fatto che solo i negri potessero essere capaci di orribili massacri, e non anche i civili uomini bianchi. Non è così, americano?” concluse Klostermann, scrutando con un’occhiata ironica Morgan il quale, a disagio, abbassò per un attimo lo sguardo.
“Per un po’ di tempo ci frequentammo spesso: io fornii a lui l’ausilio della mia memoria, ed egli diede a me lo strumento della rappresentazione.” Il volto gli si era illuminato ed ora l’imbalsamatore guardava il proprio ospite con un sorriso sincero.
“Ma che cosa gli raccontò, se non sono indiscreto?” chiese l’americano.
L’espressione di Elijah Klostermann improvvisamente si rabbuiò ed il suo tono si fece duro nel rispondere:
“Non sono tedesco, come il mio cognome ha potuto farle ritenere. Io sono un povero piccolo ebreo polacco, esule in Africa da Cracovia e poi qui a Mombasa da Salisbury, quando anche lì agli inizi del ’62 ha cominciato a tirare una brutta aria per quelli come me, in mezzo ai purosangue bianchi della Rhodesia.
“Ebbi la disgrazia di avere quarantacinque anni, un figlio di dodici, una moglie e un padre ancora in vita nel 1942, quando i nazisti erano padroni di quasi tutta l’Europa e cominciarono le deportazioni per la Soluzione Finale. Che cosa potrei aver mai raccontato ad un sincero aspirante pittore, signor Fletcher Morgan? Non ha mai sentito parlare dell’Olocausto?
“Siamo nel 1965: forse c’è già qualcuno che ne mette in dubbio la verità? Me lo dica. Perché, se così fosse, io potrei sempre ricominciare da capo il mio racconto. Finché vivrò. In ogni momento.”33
Dissolvenza n. 7
Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso.34
Fabrizio De André
Siamo oggi agli inizi del 1999, e tante stragi (ancora…) si sono verificate in varie parti del mondo, e proprio nell’ultimo decennio. Marini, come il vecchio Elijah Klostermann, ha dovuto ricominciare da capo il suo racconto. Ha radunato tutto il “sangue rappreso” delle povere vittime di Moštar, Goma, Sarajevo, Kisimayo, Goradže, Baidoa, Hebron, Kigali, Grozny, Vukovar, Aden, Mogadischu, Bassora …, e lo ha inciso nella carne dei suoi “Ferri”, a partire dal ’91 fino al ’96,
(ci sono tutte le scorie della guerra e delle crudeltà che non cessano mai, in quelle concrezioni di ferro violato, lacerato, butterato, liquefatto…)
richiamo all’insensatezza (ancora…) della guerra e al tormento che si trascina dietro. Ne ha fatto testimonianza molto più dolorosa e inobliabile, che non gli assuefatti reportage di tante troupe televisive. La telecamera, con (dopo…) le varie Buone Domeniche, ti fa abituare e dimenticare.
È molto diverso con un’opera d’arte: più ne vedi e meno ti rassegni a continuare a subire la pubblicità della morte in TV.
Poi, dopo un paio di minuti di silenzio in cui si era soffermato a contemplare le abili dita dell’ebreo muoversi, l’americano disse con tono dispiaciuto:
“Beh, signor Klostermann è giunto il momento di separarci. Ho degli affari da sbrigare qui a Mombasa e domattina presto devo ripartire. Sa: carbone, petrolio e compagnia bella. Un mediatore come me è sempre costretto a mischiare piacere e dovere.”
“Ammesso che sia stato un piacere starmi ad ascoltare” disse Elijah scuotendo mestamente il capo.
“No. Non è stato un piacere. Ma può essere certo che non dimenticherò mai quello che mi ha raccontato. E io lo racconterò ad altri. Glielo prometto. Credo sia questo ciò che lei vuole di più.”
“Sì. Grazie, Morgan. Non sempre le immagini sono sufficienti. Il suo racconto si accompagnerà alle pitture di Joubert. E forse le sue parole, con i cascami di Joubert, salveranno ancora almeno una vita da qualche parte, ed eviteranno tante altre sofferenze. C’è probabilmente un Olocausto da contrastare dovunque.”35
Dissolvenza n. 8
Così, ora siamo giunti al termine. Dobbiamo tornarcene a casa.
Claudio Marini si alza e regala a noi due un sorriso sincero.
E qualcosa di più che un sorriso…
(scorgiamo ancora guaine di gomma incollate e bruciate. I cascami stanno diventando rovine di cemento, di gomma inibente, smalti rossi di sangue rappreso…)
Nell’ultimo anno, Claudio aveva cominciato con le “Capanne”, ma ha subito compreso che queste costituivano un ben misero rifugio per le scorie di carri armati, cannoni e mitraglie, evocate dai “Ferri” degli anni precedenti.
Il senso morale di Marini è di nuovo in rivolta, e ci fa bene saperlo.
Ci fa bene sapere che non siamo rimasti soli.
Ci siamo ancora quasi tutti. E quasi tutti percorriamo il nostro piccolo sentiero, sperando di incontrarci di nuovo nella Grande Radura, dopo la nebbia di questi anni. Molti hanno abbandonato e se ne sono andati, qualcuno ha pure tradito. Ma un po’ di delusioni e qualche ruga in più, non ci faranno certo dimenticare i sogni.
Usciti dallo studio, mentre scendiamo per le antiche scale, mia moglie mi guarda negli occhi, mi sorride e mi stringe la mano.
Armonia invisibile
a visibile superiore.36
Eraclito
panoramica Allo scorrere dei titoli di coda
“Vuoi proprio andartene, Philippe?” disse Mwene, posando una mano sulla spalla dell’uomo bianco, mentre Isike li guardava un poco discosto, nello spiazzo principale del villaggio.
“Sì, Mwene. Ho tardato anche troppo. Ma sono contento di aver riportato qui i bambini sani e salvi. Siatene orgogliosi: si sono comportati da uomini… Neri!” scherzò Philippe, stringendo la mano al vecchio stregone e incamminandosi verso il suo automezzo, parcheggiato poco lontano.
Isike aspettò che arrivasse vicino a lui e poi gli chiese:
“Sei sicuro di voler lasciare a me quelle pitture?”
Philippe si fermò un attimo, guardò a lungo il ragazzino, poi si abbassò davanti a lui e gli sussurrò, togliendosi il cappello e asciugandosi il sudore:
“In tutti questi anni, ogni volta che vedevo quelle pitture, sentivo dentro di me una grande emozione; ma tu hai capito che parlavano del destino del tuo popolo. Appartengono a te, Isike: cerca di comprendere con gli anni lo scopo per cui i tuoi avi le fecero, e ricordati che portano fortuna. Io non ho più tempo. Se ti comporterai come si deve, sentirò ancora parlare di loro, e sarò felice. Chissà, forse un giorno le rivedrò da qualche parte… A me non resta che rimediare un passaggio. Magari fino a Pretoria, eh? — e qui Philippe fece una risatina; poi, più serio, continuò — Ma senti, ragazzo: Dottore Lumumba, dove l’avete sepolto?”
“Non diciamo mai dove seppelliamo i nostri morti. C’è il rischio che la voce si sparga e che gli uomini bianchi profanino anche le loro tombe.”
“Già. Hai ragione… Ma così, anche voi non ne saprete più niente!”
“Qualcuno viene sempre a sapere.”
Philippe lo fissò e gli sorrise un’ultima volta; si rimise il cappello e lo abbracciò forte. Poi, senza più voltarsi indietro, corse alla Land Rover, saltò dentro e partì.
Isike che non aveva mai smesso di guardarlo, sentì gli occhi inumidirsi e cominciò a sbracciarsi e a urlare con quanto fiato aveva in corpo:
“Addio, Grande Cacciatore Bianco! Addio! Addio, Philippe!”
E restò lì; a fissare la camionetta che si allontanava sobbalzando sullo sterrato che portava via dal villaggio, in mezzo a nuvole di polvere rossastra, sempre più piccole; finché non scomparve all’orizzonte.37
Fine
Il compito del commento non può essere mai, per definizione, portato a termine. Eppure il commento è interamente orientato verso la parte enigmatica, mormorata, che si nasconde nel linguaggio commentato: fa nascere al di sotto del discorso esistente un altro discorso, più fondamentale e quasi « più primo », che è suo compito restituire.38
Michel Foucault
Enrico Smith
1 D. Thomas, Poesie; dalla poesia “In my Craft or Sullen Art”, trad. di Ariodante Marianni; Arnoldo Mondadori Editore, 1970, Gli Oscar; p. 181.
2 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione; trad. di Luciano Gallino e Tilde Giani Gallino; Giulio Einaudi editore, 1967, Nuovo Politecnico; p. 79.
3 R. Musil, Sulla stupidità e altri scritti; trad. di Andrea Casalegno; Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1986, Oscar Saggi; p. 33.
4 A. Ginsberg, Jukebox all’Idrogeno; dalla poesia “Canzone”; trad. di Fernanda Pivano, Oscar Mondadori, 1971; p. 175.
5 F. Guccini, Canzoni; Lato Side editori, Roma 1979; p. 103.
6 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio; trad. di Alberto Caracciolo e Maria Caracciolo Perotti, Mursia Editore, GUM 1990; p. 42.
7 C. Lévi-Strauss, Guardare Ascoltare Leggere; trad. di Francesco Maiello; il Saggiatore, Milano 1994; pp. 9 – 10.
8 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica; trad. di Giuseppe Masi, Mursia Editore, GUM 1990; p. 166.
9 B. Dylan, Blues Ballate e Canzoni; trad. di Stefano Rizzo; Newton Compton Editori, 1972; p. 250.
10 D. Thomas, op. cit.; « La forza che nella verde miccia spinge il fiore / Spinge i miei verdi anni; quella che fa scoppiare le radici degli alberi / È la mia distruttrice » dalla poesia “The force that through the green fuse drives the flower”, p. 56 – 57.
11 F. De André, dal testo delle canzoni “La collina” e “Il suonatore Jones” riprodotto nel disco “Non al denaro non all’amore né al cielo”; PA/LP 40 Produttori Associati, 1971.
12 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica; op. cit. pp. 163 – 164.
13 Ibidem; pp. 166 – 167.
14 Ibidem; p. 182.
15 F. Guccini, op. cit.; p. 21.
16 Ibidem; pp. 74 – 75.
17 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica; op. cit. p. 189.
18 Ibidem; p. 190.
19 Ibidem; p. 196.
20 Ibidem; p. 190.
21 S. King, A volte ritornano; trad. di Hilia Brinis; Bompiani, Grandi Tascabili, 1991; p. 180.
22 D. T. Suzuki, Buddhismo Zen, in: Fromm, Suzuki, De Martino, Psicoanalisi e Buddhismo Zen; trad. di Patrizia La Malfa; Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, s.r.l., Roma, 1968; p. 23.
23 Da: René Char, Impressioni Antiche; trad. di Valerio Magrelli, in MicroMega, Almanacco di Filosofia ’96, Editrice Periodici Culturali; p. 173.
24 Da: Martin Heidegger, Cose Pensate; trad. di Valerio Magrelli, in MicroMega, Almanacco di Filosofia ’96, Editrice Periodici Culturali; p. 177.
25 Da: René Char, Impressioni Antiche; trad. di Valerio Magrelli, in MicroMega, Almanacco di Filosofia ’96, Editrice Periodici Culturali; p. 173.
26 Dal racconto Passaggio a Pretoria di E. Smith, catalogo della mostra omonima di C. Marini, Romberg Edizioni, 1996, pag. 11.
27 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica; op. cit. p. 157.
28 D. Thomas, op. cit.; dalla poesia “When all my five and country senses see”, p. 111.
29 Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica; op. cit. p. 159.
30 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica; op. cit. p. 149.
31 Eraclito, I Frammenti, a cura di Luciano Parinetto, ed. Stampa Alternativa, 1993, pag. 47.
32 Dal racconto Umani cascami di E. Smith, catalogo della mostra “Cascami” di C. Marini, Romberg Edizioni, 1997, pag. 23.
33 Ibidem, pag. 17.
34 F. De André, dal testo della canzone “Ballata degli impiccati” riprodotto nel CD Tutti morimmo a stento; CDOR 8901, Produttori Associati, 1970.
35 Dal racconto Umani cascami di E. Smith, catalogo della mostra “Cascami” di C. Marini, Romberg Edizioni, 1997, pag. 27.
36 Eraclito, I Frammenti, a cura di Luciano Parinetto, ed. Stampa Alternativa, 1993, pag. 25.
37 Dal racconto Passaggio a Pretoria di E. Smith, catalogo della mostra omonima di C. Marini, Romberg Edizioni, 1996, pag. 24.
38 M. Foucault, Le parole e le cose; trad. di Emilio Panaitescu; Rizzoli Editore, Milano; BUR, 1985; p. 55.