Scene da un’Intervista con Citazioni e Voce Narrante

Testo per la mostra “Zona Ri(e)mozione” di Enzo Lisi – 1994

E’ l’occhio a fornirgli le occasioni di fare dello spirito: ogni oggetto su cui si posa lo sguardo diviene per il suo spirito pretesto d’arguzia.

W. Shakespeare

La prima volta che ho sentito la voce di Enzo Lisi (perché non riuscivo a vederlo) fu in una affollata e concitata riunione di docenti, di quelle che si tenevano spesso al Liceo Artistico di Latina, ancora abbastanza vulcanico nella seconda metà degli anni settanta. Mentre la maggior parte dei colleghi si agitavano e, parlando forte, aggredivano l’aria, lui argomentava e il suo maestro Claudio Cintoli si limitava a stare zitto. Ma che Cintoli fosse il ‘‘maestro’’ di Enzo lo seppi molto dopo; anzi, per la verità, all’epoca non sapevo neppure chi fosse Cintoli.

Così, non distratto dalla sua figura, si può dire che di Lisi ho conosciuto prima l’‘‘anima’’ e poi la persona e che, in qualche imperscrutabile modo, quest’anima gli proveniva dal maestro, che intravedevo, sornione, tenere penzoloni fra le labbra il suo mezzo toscano.

Ora Enzo ci dirà che l’idea di quella famosa (?) macchina da scrivere – che lui aveva pazientemente ri costruito con

tutti i martelletti scambiati, così che, continuando a creare tutte le combinazioni che volevi, con la macchina che

avrebbe potuto stampare una paroletta di senso compiuto solo molto casualmente, avevi la dimostrazione che il dare un senso compiuto a parole venute fuori per caso non è altro che un gioco, un gioco cominciato molto tempo fa, più necessario del significato stesso delle parole – scaturì (anche) dalle idee di Cintoli che lui aveva conosciuto e condiviso in tutto il periodo che va dal ‘73 al ‘77, quando era stato suo collaboratore di studio; e ciò potrebbe pure bastare.

Ma Enzo era, ancora, molto giovane e quando si è giovani, quello che si costruisce sembra definitivo; poi si va avanti e ci si accorge che, col passare del tempo, quello che uno costruisce può (deve?) diventare sempre meno definitivo e più provvisorio. Così ora, forse, quella (famosa) macchina da scrivere non esiste neanche più.

Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito.

L. Wittgenstein

Siamo nel ‘78 quando accade qualcosa di drammatico e inaspettato: il maestro abbandona per sempre l’allievo, lasciandolo solo a rifarsi un’anima.

Così, nell’‘81, dopo un viaggio in India assai avventuroso, soprattutto per aver portato, ad un amico (me) che gliel’aveva chiesto, uno splendido sitar dragon shaped con custodia originale nel bagagliaio (molto aperto) di una Renault 5, qualcosa del vero oriente si fece nuovamente sentire. Forse questa rinnovata scoperta avveniva proprio attraverso le parole colte e miti di Ajai Shina Roy, un maestro di musica indiana – amico e eminente collega di Ravi Shankar, tanto per dare l’idea del livello dell’evento – che Enzo, come in una favola, aveva conosciuto in un ashram di Calcutta, spinto a ciò dall’impulso alla scelta oculata di un vero buon sitar per l’amico che, scettico, lo attendeva in Italia. Forte di tali esperienze e coincidenze, di cui feci parte anch’io (e ora, ripensandoci, non so dire davvero quanto tutto ciò fosse involontario e casuale), l’allievo riprendeva il cammino, tornando ai nastri di partenza per imboccare una nuova direzione.

Di nuovo a essere importante è la pittura e, prima ancora, la matita. Come anche Cintoli gli ha insegnato, prima di tutto non deve dimenticare Magritte e Man Ray.

Come accade per ogni ritorno alle origini che si rispetti, l’allievo smetteva di essere allievo e stava cominciando a diventare maestro di se stesso.

Se non se ne ridesse, la Via non meriterebbe di essere considerata tale.

Tao té ching

Affascinato (ancora) dall’elemento paradossale della pittura del surrealismo, elabora immagini che lo contengono, ma contengono anche altre cose importanti, frutto del bel sole d’oriente: non solo l’equivoco e l’ambiguo, ma anche il complementare, l’affermazione che contiene in sé la negazione e viceversa, ma soprattutto l’ironia che costringe all’angolo tutte le ostinate certezze.

Vediamo immagini che, pur riconoscibilissime, sono ironicamente e paradossalmente lontane dalla concretezza occidentale: una mano con una biglia di vetro assomigliare alla testa di un’oca selvatica – l’animale dedicato al segno Li dell’I Ching, il segno della luce e del calore, uno yin racchiuso in un guscio yang – e poi ancora il mare (l’acqua: l’elemento naturale per eccellenza) asciugato da un gigantesco e burocratico tampone da scrivania e le conchiglie (altri elementi naturali) a stretto e imbarazzante contatto con cerniere lampo e microfoni (tipici rappresentanti di una ‘‘bassa’’ tecnologia occidentale che sfiora l’osceno).

Ma quello che si vede, si vede; è ancora eccessivamente ‘‘chiaro’’ e gli oggetti si raccontano troppo, con giochi di rimandi visivi ambigui e affascinanti, però, ancora e in larga misura, legati al pensiero cosciente e alla discorsività.

L’artista se ne rende conto e fa culminare e concludere questo periodo nel 1984, con una mostra alla galleria Il Punto di Velletri, intelligentemente gestita, tra gli altri, dai pittori Claudio Marini e Romolo Caporro.

Capisce che gli manca la conoscenza profonda dello spirito taoista e Zen, che del pensiero orientale sono l’espressione più originale, e si avvierà divertito, col sottoscritto, a mescolare, cammin facendo, il Tintoretto con D. T. Suzuki e Alan Watts, il wu wei con Duchamp, mentre in sottofondo risuoneranno le note di Miles Davis, di John Coltrane e di John Cage; ma questo avverrà un paio d’anni dopo. Intanto…

Intanto, in quella mostra vengono esposte anche le caratteristiche confezioni di Enzo Lisi: scatoline levigate di legno e vetro, discreti sipari per quiete scenografie, composte con oggetti disparati, raccolti qua e là, che sembrano ancora domandarsi: ‘Mio Dio, ma come mai sono capitato qui e con chi mi hanno messo?’. E a noi dispiace non poterli aiutare con una risposta chiara. C’est la vie. Sèlavy.

E qui ancora Enzo ci dirà che quelle scatole sono un suo temporaneo omaggio tributo a Joseph Cornell; Duchamp gli piace ma non è compreso da lui fino in fondo perché, al puzzle che va ricostruendo lentamente dentro di sé, manca il tassello più importante: quello dell’approfondimento dello Zen e allora meglio aspettare tempi migliori.

Ancora nell’‘84, durante un viaggio a New York, avviene l’incontro con alcuni artisti graffitisti (tra cui Robin Van Arsdol, meglio conosciuto sui muri come R. V., e Paolo Buggiani) che gli fanno riscoprire il fascino della pennellata veloce e immediata, prodotta più dalla dinamicità del gesto che dal lambiccamento mentale. E’ una illuminazione? Un satori americano?

No, non ancora; nella fase immediatamente successiva, la sua pittura continua ancora a essere particolarmente precisa ed esatta (ma, per carità, non gli parlate di iperrealismo!) mentre gli oggetti non vivono più in situazioni ambigue e paradossali: o meglio, il paradosso c’è, ma non si trova più nella situazione degli oggetti, ma nell’oggetto stesso. Ingigantito, macrofotografato, isolato e dilatato sul nero vuoto, l’oggetto restituisce un mistero tanto più arduo da svelare quanto più il suo disegno è meccanico, preciso, sostanziale. Ma che cos’è quel groviglio di enormi pagliuzze intrecciate come un titanico gomitolo? E quella maschera (carnevalesca o attrezzo di tortura medievale?) – esposta nel castello di Genazzano nell’‘86 – dal ‘‘naso’’ troppo lungo? Quel tampone gigantesco, tutto sporco di colore? E quel trofeo, è la testa di quale Minotauro?

E’ quasi un’operazione di entropia, ma a rovescio: l’artista dilata a dismisura la sostanza dell’oggetto per annullarne l’essenza. Rimane il mistero, ma non è poi abbastanza tale se quel disegno, se quella pittura continuano a essere così maledettamente precisi e nitidi.

A questo punto il maestro ci confermerà che, per il forte desiderio di svincolarsi dalla schiavitù ossessiva della forma raffigurata attraverso uno stato di riflessione cosciente, rispecchiato da quel pennello meticoloso e pignolo, con grande perplessità all’inizio, ma poi via via con sempre maggiore convinzione, si metterà a dipingere sulla carta, più piccola e ‘‘veloce’’, forme rappresentate con una tecnica pittorica basata sulla rapidità e sulla progressività della pennellata.

Non puoi ottenerlo pensandoci;

Non puoi ottenerlo non pensandoci.

Zenrin kushu

E’ un ‘‘momento’’, una singolarità (un satori che dall’‘85 dura in pratica fino a oggi?…) in cui il ‘‘pennello meticoloso’’ si fa più disinvolto e libero e, liberando se stesso, svincola la mente del pittore, non più soggetta allo stato di riflessione cosciente già detto; e l’artista sviluppa quella visione periferica che gli permette, come dicono i buddisti Zen, di non guardare più il dito che indica la luna, ma la luna stessa.

Il processo si inverte: la sostanza degli oggetti si estingue, mentre ne viene afferrata e tirata fuori l’essenza, in uno stato mentale, che al contrario di quello della fase precedente, è ora felice e immediatamente conseguente, come il camminare o il respirare. E, come il respiro, l’atto pittorico si realizza, nello stesso tempo, in modo spontaneo e necessario. Ma anche, come il respiro o il camminare, è ripetitivo (nel senso che una volta che abbiamo imparato a respirare o a camminare, non ne possiamo più fare a meno) e irripetibile (proprio come ogni passo o respiro è diverso dall’altro).

Testimonianza di questo fondamentale periodo di passaggio è la mostra Tamponi a catena e Stop allestita nell’‘87, sempre alla galleria Il Punto.

‘‘Essere’’ e ‘‘non essere’’ sorgono simultaneamente.

Lao tzu

Ma non solo le ‘‘carte’’ si prestano a questa operazione. La tela può diventare una protagonista ancora più convincente di questo trapasso dalla sostanza all’essenza. E ciò per un motivo molto semplice: la tela permette uno sviluppo della pittura di grandi dimensioni e sono, invece, proprio le piccole dimensioni delle ‘‘carte’’ che spesso costringono e determinano, condizionandolo, lo slancio del gesto alla conquista di quel tratto che sulla tela, invece, pur potendo esprimersi in centinaia di combinazioni e direzioni possibili, tuttavia si va a limitare all’essenziale, in una scelta completamente libera e incondizionata: e allora, è solo sulla tela che l’atto pittorico può raggiungere quelle caratteristiche polarità che lo zen suggerisce: la totalità e l’unicità, complementari tra loro. E l’oriente, di nuovo, ci insegna: l’uno è nel tutto e viceversa.

Il pennello può espandersi in infinite direzioni, ma poi se ne concede una sola, quando tutte le altre sono ancora possibili. Quando l’Uno si concretizza nell’oggetto, il Tutto continua a esistere ancora, può essere e non essere l’oggetto; è, per così dire, dentro e fuori l’oggetto; sotto forma di possibilità, che non devono essere considerate pure astrazioni.

Vi ricordate la tazza di tè che Lama Norbu fa cadere in terra in una scena bellissima del film ‘‘Piccolo Buddha’’?…

Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati.

L. Wittgenstein

Adesso, con quel suo fare ironico e distaccato, Enzo ci sta raccontando (e mi sembra di vederlo mentre allontana con discrezione il fumo della mia sigaretta, lui che non fuma e tuttavia riesce a essere grande amico di grandi fumatori…) che col passaggio dalla carta alla tela di ampie dimensioni e mantenendo la pittura a olio, ha continuato a rappresentare l’oggetto enormemente dilatato ma, stavolta, con una tecnica fondata sulla rapidità e sulla continuità della pennellata, eseguita senza ripensamenti e cercando di non considerare troppo il dettaglio, in armonia con una certa visione zen che ultimamente ha abbastanza approfondito…

Gli inizi di questo approfondimento del pensiero orientale e dello Zen in particolare risalgono ormai a una decina d’anni fa, quando, lui ed io, sulla base di letture e chiacchiere fatte, queste ultime, nelle più disparate situazioni, lasciavamo prendere forma in noi stessi una diversa concezione del mondo che, visto quello che ci stava capitando, a noi in particolare ma, in generale, un po’ a tutti, fosse meno meccanicistica e dogmatica. Anche se, per la verità, molto rigidi non siamo mai stati.

In questi ultimi anni Enzo Lisi, spinto dalla lettura di testi fondamentali, si è interessato alla conoscenza delle recenti teorie della fisica, che sembrano, dopo un percorso circolare e millenario, di nuovo così vicine alle antiche intuizioni delle filosofie induiste e buddiste.

E’ riapparsa quindi all’orizzonte dell’artista l’intrigante figura di Duchamp, centrale per la costruzione della sua nuova, originale poetica. La ‘‘physique amusante’’ sembra la paradossale arca sulla quale dovremo tutti – artisti e non – imbarcarci nel momento in cui saremo costretti, qui in occidente e nel nord del mondo, a qualche disillusione e a qualche ripensamento.

Il fine della nassa è il pesce: preso il pesce metti da parte la nassa. Il fine del calappio è la lepre: presa la lepre metti da parte il calappio. Il fine delle parole è l’idea: afferrata l’idea metti da parte le parole.

Chuang tzu

Ancora una volta Enzo potrà dirci quanto sia evidente e affettuoso il suo richiamo al caro Duchamp. E nel dirlo i suoi occhi si accendono nuovamente di quella allegra carica ironica che ti fa pensare come poi tutto, di quello che hai creduto di capire, possa non essere vero.

Parla degli ultimissimi lavori, che sono un po’ ready made, un po’ scelta. Quelle ipotesi sulla multidimensionalità dell’universo, lo (ci) hanno convinto davvero. E’ inevitabile pensare a come ci apparirebbero gli oggetti e come ce li rappresenteremmo, se i nostri sensi fossero in grado di percepirne, oltre che sulle tre dimensioni spaziali e lungo lo scorrere del tempo, la proiezione su ulteriori dimensioni. Ma l’idea è così difficile da accettare, e soprattutto da rappresentare, che è altrettanto inevitabile pensare, a questo punto, all’insufficienza delle parole e delle immagini, che fino ad ora le avevano, in molti casi, sostituite. E poi gli oggetti, sarebbero ancora oggetti?

Per fortuna che c’è l’ironia. Una carica ironica, quasi comica brucia e arrugginisce qualsiasi residuo di intellettualismi. L’oggetto viene trovato, adesso, e gli si unisce una parte di paradosso: i segnali stradali si ribellano, buttano il loro ruolo alle ortiche e iniziano un gioco linguistico totalmente nuovo; le insegne pubblicitarie, orgogliose della loro essenza, si mostrano in tutta la loro verità. Altro che strade! Altro che pubblicità!

Cintoli glielo diceva a Enzo Lisi, di non dimenticarsi di Magritte… e neanche di Duchamp.

voce narrante: Enrico Smith