I racconti del Grande Cacciatore Bianco

Passaggio a Pretoria

Nel Congo c’erano aeroplani che sganciavano bombe sui villaggi africani. I villaggi africani non hanno difese contro le bombe. E i piloti non possono sapere su chi stanno sganciando le bombe. … Quei piloti che guidavano aerei pieni di bombe e le sganciavano sui villaggi africani, stavano massacrando donne, stavano massacrando bambini, stavano massacrando neonati. Qui, non avete sentito nessuna denuncia dei bombardamenti. …

Nessuna denuncia, nessuna solidarietà, nessun aiuto, nessun coinvolgimento, perché la stampa non aveva dipinto le cose con toni destinati a suscitare la vostra simpatia. Sanno come mettere una notizia in modo che voi ne siate coinvolti anche emotivamente, e sanno come metterla in modo che voi ne proviate ripulsa. Vi dico che sono maestri in questo. E se non sviluppate una capacità analitica di leggere fra le righe di quello che loro dicono, vi ripeto che costruiranno forni crematori. E prima di svegliarvi sarete in uno di quei forni, proprio come gli ebrei finirono nelle camere a gas in Germania. ….

Avevano chiamato dei mercenari, e quei piloti lo sono. Un mercenario non uccide perché è un patriota. Vi uccide per soldi che grondano sangue, è un assassino a pagamento. Questo significa il termine mercenario. Quelli sono capaci di assumere questi assassini a pagamento, metterli alla guida di aerei americani, con bombe americane, per sganciarle su villaggi africani, riducendo in pezzettini uomini neri, donne nere, bambini neri, neonati neri, e voi, gente nera, ve ne state qui calmi, come se la cosa non vi riguardasse affatto. Siete dei pazzi. Oggi lo fanno a loro, e domani lo faranno a voi. Perché voi e io e quegli africani siamo la stessa cosa. Lo chiamano un progetto umanitario e dicono che lo stanno mettendo in pratica in nome della libertà. ….

Poi prendono Ciombe. Avete sentito parlare di Ciombe. È il peggiore africano che sia mai nato. Il tipo più spregevole che sia mai nato. Lui stesso è un assassino. È l’assassino di Lumumba, il precedente primo ministro, il solo primo ministro legittimo del Congo. …

Quando giocate a pallone e vi hanno intrappolato, non tirate via la palla, la passate a quello dei vostri compagni di squadra che è libero. Questo fecero le potenze europee. Erano intrappolate nel continente africano, non potevano restare lì; erano visti come colonialisti e imperialisti. Quindi dovevano passare la palla a qualcuno la cui immagine fosse diversa, e passarono la palla allo Zio Sam. Lui la raccolse e da allora ha continuato a correre. Era libero, non era visto come uno che avesse colonizzato il continente africano. A quell’epoca, gli africani non potevano capire che sebbene gli Stati Uniti non avessero colonizzato il continente africano, avevano colonizzato ventidue milioni di neri in questo continente. Perché noi siamo tanto completamente colonizzati quanto qualsiasi altro popolo colonizzato.iv

Malcom Xv

Getsemani

Nella notte senza luna, Tsambei, Nduga e Isike scrutavano, accovacciati dietro il muretto di mattoni di fango essiccato, la luce gialla che trapelava attraverso una delle finestre dall’interno della baracca. Trattenevano istintivamente il respiro, per paura che i bianchi di guardia potessero accorgersi di loro. A quella distanza, dell’interrogatorio che si svolgeva dentro, potevano percepire solo suoni indistinti; e, ogni tanto, colpi sordi e lamenti soffocati. Ma, tutti e tre i bambini, avevano sufficiente esperienza dei metodi dei mercenari per immaginarselo.

Sinedrio

Il nero fissò il mercenario biondo davanti a lui, mentre un rivolo di sangue gli sgorgava dagli angoli della bocca. Un nugolo di braccia lo serrava alle spalle e al collo, bloccandolo sulla panca posta di fronte al tavolo dietro cui era seduto il suo inquisitore.

“In quali villaggi si sono rifugiati? Si decida a rispondere, una buona volta!” sibilò pieno d’ira costui.

“Gliel’ho già detto: in tutti e in nessuno,” rispose con un filo di voce l’inquisito, respirando affannosamente.

“Cosa vuol dire: ‘in tutti e in nessuno’? Non mi faccia perdere la pazienza. Non creda che abbia terminato il mio repertorio di atti di persuasione. Finora ha sperimentato soltanto quelli più amorevoli.”

“Come potete pensare che, quanto è accaduto in questi anni nel nostro paese, sia dipeso solamente da me e dai miei seguaci? Ma siete ciechi? Non capite che io sono solo un servo della volontà di tutto un popolo, destinato infine a riscattarsi. I miei seguaci sono tutto il popolo, ed allora essi si trovano in tutti e in nessuno dei nostri villaggi.”

Il biondo alzò lo sguardo verso i subalterni che attorniavano e immobilizzavano l’uomo e fece un gesto con la mano. Uno di costoro digrignò i denti in un sorriso malvagio. Il nero rabbrividì, ma sentì pure il suo spirito animarsi di coraggiosa rassegnazione: si era sempre chiesto come sarebbe stato capace di comportarsi, quando fosse arrivato all’ultimo atto. E adesso che sentiva ormai le sue forze abbandonarlo per sempre, era il momento di essere all’altezza della parte che gli era stata assegnata dal destino.

Lo afferrarono per le braccia e gliele stesero di colpo sul tavolaccio, facendogli sbattere con violenza il viso che prese a sanguinare anche dal naso. Schiacciato a faccia in giù per le spalle e le braccia, era riuscito appena a voltare la testa per liberare la bocca e respirare, quando, proveniente dall’altro lato, sentì il rumore di una porta che si apriva; dei passi si avvicinarono e qualcuno gli bloccò il palmo della mano sinistra aperto sul legno. Un tramestio, qualche risata; poi avvertì un colpo appuntito e un dolore lancinante attraversare tutti i suoi nervi spossati. Infine, pacificatore, il buio.

Prima che il gallo canti

La vecchia Land Rover scoperta caracollava sulla strada sterrata, zigzagando di qua e di là per evitare le buche fatte qualche giorno prima dalle bombe dei mortai; il guidatore, un uomo sulla cinquantina, con le maniche della camicia a quadri arrotolate e un logoro cappello da esploratore, fischiettava un vecchio motivetto francese reggendo con attenzione il volante.

La grande savana arborata, vicina alla provincia del Katanga, che lui stava percorrendo, era ormai diventata una zona pericolosa: soprattutto per gli unici bianchi imbecilli che, non solo non avevano osteggiato l’ascesa al potere di Lumumbavi, ma in qualche modo l’avevano salutata con simpatia e non si erano messi in affari facili e lucrosi con i secessionisti katanghesi, appoggiati dalle potenze occidentali. E di quei tre bianchi, lui era l’unico a poter ancora parlare: degli altri due, uno era stato fatto a pezzi a colpi di machete e all’altro erano state tagliate la lingua e le dita, in agguati tesi dai miliziani di Ciombevii a distanza di pochi giorni. Inutile dire che anche lui si sentiva adesso un po’ di fiato sul collo; così, prima che il fiato diventasse un affilato colpo di machete, aveva deciso di regalare quel poco che possedeva ai suoi amici del villaggio vicino a Kizamba e, approfittando degli ultimi sussulti di vita del motore della sua Rover, filarsela verso Luputa, attraverso la pista su cui ora procedeva, per inoltrarsi sulla camionabile che portava a Luluabourg. Da lì, con un aereo e con un po’ di fortuna, sarebbe arrivato a Brazzaville e poi a Pointe Noire, dove avrebbe potuto imbarcarsi sulla prima nave diretta in Europa.

Aveva regalato tutto, ma qualcosa aveva deciso di portare con sé: nel cassone della Land Rover, erano ammucchiati i ricordi che lo stregone del villaggio gli aveva lasciato durante gli anni della sua permanenza tra gli indigeni e ai quali si sentiva particolarmente affezionato. Si trattava di tre pitture su legno, coi colori vivaci delle antiche tribù del Kasai e con l’ornamento dei preziosi giunchi profumati che crescevano sulle rive del lontano Sankuru. Il vecchio Mwene gli aveva detto che quelle tinte e quelle canne, così intrecciate, portavano fortuna. Lui non sapeva spiegarsi ancora il perché, ma, in quel momento, non aveva potuto fare a meno di credergli, non appena aveva visto quei colori e quegli intrecci: era come se con essi fosse stata tessuta la trama di un destino più grande di tutti loro, invincibile ed eterno; che li avrebbe per sempre legati e a cui quelle tre figure avrebbero sempre fatto riferimento, in ogni luogo e in ogni tempo. Finito quell’improvviso lampo visionario di consapevolezza magica, lui aveva sorriso a Mwene; gli aveva baciato le mani, si era inchinato congiungendo con rispetto le sue e aveva sfiorato le tre pitture nel senso della larghezza, per comunicare al vecchio stregone che accettava con grande piacere il dono. Mwene aveva restituito il sorriso ma gli aveva anche detto, fissandolo intensamente con i suoi occhi profondi: “Ricorda, Philippe: oggi noi e voi portiamo gli stessi vestiti e sembriamo uguali, ma un tempo noi vestivamo diversamente; come ci vedi quando danziamo nelle nostre feste. E vivevamo diversamente: quando era buio e quando pioveva, nessuno ci costringeva a lavorare. Non potete pensare di rendere gli uomini uguali, vestendoli tutti alla vostra maniera. Dovevate rispettare la nostra diversità: io non so cosa potrà accadere, un giorno… Anche se da un po’ di tempo faccio degli strani sogni!”

Il vecchio aveva avuto ragione: erano passati appena due anni e lui ora stava scappando con tre tavole dipinte, buttate dentro al cassone del fuoristrada.

Il Grande Cacciatore Bianco

I misteriosi colori dell’alba, si stavano trasformando in quelli meravigliosi di un giorno terso e profumato di odori che lui aspirava con ebbrezza, non sapendo quanta aria d’Africa avrebbe potuto respirare ancora nella sua vita. E per questo guardava attentamente il paesaggio all’intorno, quasi a fissarne per sempre i contorni nella sua memoria. Fu grazie a ciò che poté notare le piccole camiciole colorate di tre marmocchi neri, che camminavano curvi e veloci nel fossato a lato della strada. Rallentò e si fermò poco dopo averli superati. Tirò il freno a mano e, senza spegnere il motore, scese dallo sportello di destra con un balzo agile per bloccare i tre bambini, che nel frattempo avevano accelerato la propria corsa.

“Fermi, paperi! Dove cavolo andate? Non sapete che qui c’è la guerra? Salite su, così vi riporto a casa!” li apostrofò burbero, ma con gli occhi era come se li stesse accarezzando. E poi quelle faccette avevano qualcosa di familiare…

I ragazzini si erano fermati sul ciglio del fosso e lo guardavano attentamente: il più alto si torceva le mani e lo fissava con evidente preoccupazione.

“Ma io vi ho riconosciuto, sapete?” fece lui in tono di rimprovero “Voi siete del villaggio di Gandajika. Lo stregone Mwene si arrabbierà moltissimo, quando saprà che vi siete allontanati così tanto da casa!”

Il più alto dei tre si fece coraggio e disse:

“Anche noi ti abbiamo riconosciuto. Tu sei Philippe, il Grande Cacciatore Bianco. E io sono Isike, e questi altri due Tsambei e Nduga. Percorrevamo con i nostri genitori e Dottore Lumumba i villaggi dell’est. I mercenari hanno ucciso tutte le nostre famiglie e noi siamo scampati per caso e li abbiamo seguiti di nascosto, mentre trascinavano via anche Dottore. Dopo un po’ abbiamo scoperto che l’avevano portato in una capanna di legno; e una notte da quella capanna abbiamo sentito colpi e urla. Solo noi, della sua gente, gli siamo stati vicini fino alla fine. Ma poi per la paura di essere scoperti, prima dell’alba, siamo scappati e non sappiamo dove l’hanno portato.”

Per riportarli da Mwene, lui sarebbe dovuto tornare indietro, e percorrere poi una zona ormai in mano ai mercenari; ma non c’era altro da fare, se voleva salvare i tre ragazzini. Si sollevò il cappello e si passò una mano sui capelli pieni di polvere e di sudore. Li guardò serio increspando le labbra e poi disse:

“Salite, non c’è tempo da perdere! Prima facciamo, meglio è!”

Batté significativamente un paio di volte sulla fiancata posteriore della camionetta; e mentre i bambini vi si arrampicavano per saltare dentro, li sculacciò uno per uno col cappello.

Crocifissione

“Cosa porti qua dietro, Philippe?”

La domanda lo aveva distolto dai suoi pensieri più degli scossoni della Land Rover.

C’era poco da stare allegri: una volta riportati al villaggio i tre ragazzini, lui avrebbe dovuto scegliere tra ripercorrere all’inverso la stessa strada, col pericolo di trovarsi circondato da nuove infiltrazioni di mercenari in un territorio da loro non ancora del tutto controllato, e conseguenti rischiosi posti di blocco; oppure cambiare del tutto senso di marcia e dirigersi a sud ovest con vari mezzi di trasporto, oltrepassando la frontiera del Sud Katanga e spingersi verso la parte orientale dell’Angola, mettendo in gioco, però, quasi tutto il denaro risparmiato in quegli anni.

“Sono doni di Mwene: pitture tribali che portano fortuna!” aveva risposto soprappensiero a Tsambei, il più piccolo, che aveva fatto la domanda.

Oltrepassata la frontiera angolana avrebbe raggiunto Munana e da lì avrebbe noleggiato un aereo e sarebbe potuto arrivare a Lusaka o addirittura a Salisbury; qui avrebbe chiesto a qualche spedizioniere, in cambio di assistenza al carico, un passaggio a Pretoria, se non avesse finito prima i soldi.

Ma, una volta a Pretoria, i suoi problemi sarebbero finiti, perché un bianco come lui avrebbe subito potuto guadagnare bene…

“Che cosa significano?” aveva interloquito Nduga.

“Sono intrecci di colori e vegetazione, simboli di antiche tribù della vostra terra,” rispose con pazienza Philippe, interrompendo definitivamente il corso dei suoi pensieri.

“Per me rappresentano il destino: le vecchie capanne con la luce gialla che si vede dalla finestrella, il lampo dei fucili dei bianchi e poi la crocifissione di qualcuno del nostro popolo. Non è così, Uomo Bianco?” disse con astio Isike, il più grande e il più intelligente.

“Ehi, che ti prende? Fino a prova contraria, nessuno dei vostri è stato mai crocifisso e io mi chiamo Philippe. E mi hai sentito chiamare così dai tuoi un sacco di volte! Che c’entro io con tutta questa follia? Ricordati che quello che paga i mercenari che hanno distrutto le vostre famiglie, ha la pelle nera come la vostra!”

“Sí, ma ha studiato nelle vostre scuole,” replicò secco Isike.

Philippe rimase interdetto per un momento, poi gli domandò:

“Che ne sai? Chi te l’ha detto?”

“Ce l’ha detto Dottore Lumumba, mentre lo accompagnavamo da un villaggio all’altro: e ci ha detto pure che i soldi coi quali Ciombe paga i mercenari, glieli danno gli uomini bianchi come te!” rispose di botto il ragazzo, scoppiando in singhiozzi nervosi.

Philippe non seppe cosa dire e sentiva salirgli un nodo alla gola. Teneva saldo il volante per evitare le buche come prima, ma non riuscì più a fischiettare; cercò pure di ripensare alle diverse possibilità del ritorno, ma non gli veniva. Ricordava solo la destinazione: Pretoria. Chissà perché? E come?

Avevano da poco imboccato la strada che attraversava per un lungo tratto il territorio del Katanga e poi ne usciva proseguendo verso Gandajika, quando videro in mezzo alla carreggiata un ammasso nero, brulicante di uccelli mangiacadaveri. Philippe ebbe il presentimento che quell’orrendo mucchio in qualche modo li riguardasse. Si accostò il più possibile per spaventare gli avvoltoi e farli volare via, ma non fu sufficiente: alcuni rimasero attaccati a quello che ormai appariva come un corpo umano. Suonò il clacson ripetutamente e stava per afferrare il fucile nascosto sotto il cruscotto, quando finalmente i rapaci si decisero ad abbandonare il banchetto. Lui e i ragazzini saltarono giù dall’auto e si avvicinarono con circospezione. Fece un gesto per tenere lontani i bambini, ma essi non gli diedero retta: mentre avanzavano, tutti fissavano con pietà e orrore quanto avevano davanti agli occhi. Gli uccelli si erano accaniti soprattutto con la parte inferiore del corpo straziato. Il torso, le braccia e la testa, seppure già morsicati, erano ancora riconoscibili: il tronco, con quanto restava delle gambe, giaceva prono sulla strada, ma le braccia e il viso erano schiacciati grottescamente su un tavolaccio, con i polsi legati e le mani inchiodate a palmi in giù.

Si sentiva il vento leggero frusciare in mezzo alle cime delle acacie lontane, mentre loro trattenevano il fiato. I profumi del giorno si erano dileguati e avevano lasciato il posto a un odore dolciastro di sangue e corrompimento. Lui l’aveva sentito spesso nella savana e nella foresta: lo spettacolo della morte rende simili uomini ed animali.

Nduga protese l’indice e ruppe per primo quel silenzio irreale, esclamando:

“È Dottore Lumumba, lo riconosco!”

Tsambei faceva di sí con la testolina.

“Sí, è lui. Togliamolo di lì,” disse Philippe con disgusto.

“Ora anche noi abbiamo il nostro Crocifisso,” sussurrò Isike, dando una sguardo al Grande Cacciatore Bianco.

Passaggio a Pretoria

“Vuoi proprio andartene, Philippe?” disse Mwene, posando una mano sulla spalla dell’uomo bianco, mentre Isike li guardava un poco discosto, nello spiazzo principale del villaggio.

“Sí, Mwene. Ho tardato anche troppo. Ma sono contento di aver riportato qui i bambini sani e salvi. Siatene orgogliosi: si sono comportati da uomini… Neri!” scherzò Philippe, stringendo la mano al vecchio stregone e incamminandosi verso il suo automezzo, parcheggiato poco lontano.

Isike aspettò che arrivasse vicino a lui e poi gli chiese:

“Sei sicuro di voler lasciare a me quelle pitture?”

Philippe si fermò un attimo, guardò a lungo il ragazzino, poi si abbassò davanti a lui e gli sussurrò, togliendosi il cappello e asciugandosi il sudore:

“In tutti questi anni, ogni volta che vedevo quelle pitture, sentivo dentro di me una grande emozione; ma tu hai capito che parlavano del destino del tuo popolo. Appartengono a te, Isike: cerca di comprendere con gli anni lo scopo per cui i tuoi avi le fecero, e ricordati che portano fortuna. Io non ho più tempo. Se ti comporterai come si deve, sentirò ancora parlare di loro, e sarò felice. Chissà, forse un giorno le rivedrò da qualche parte… A me non resta che rimediare un passaggio. Magari fino a Pretoria, eh? – e qui Philippe fece una risatina; poi, più serio, continuò. – Ma senti, ragazzo: Dottore Lumumba, dove l’avete sepolto?”

“Non diciamo mai dove seppelliamo i nostri morti. C’è il rischio che la voce si sparga e che gli uomini bianchi profanino anche le loro tombe.”

“Già. Hai ragione… Ma così, anche voi non ne saprete più niente!”

“Qualcuno viene sempre a sapere.”

Philippe lo fissò e gli sorrise un’ultima volta; si rimise il cappello e lo abbracciò forte. Poi, senza più voltarsi indietro, corse alla Land Rover, saltò dentro e partì.

Isike che non aveva mai smesso di guardarlo, sentì gli occhi inumidirsi e cominciò a sbracciarsi e a urlare con quanto fiato aveva in corpo:

“Addio, Grande Cacciatore Bianco! Addio! Addio, Philippe!”

E restò lì; a fissare la camionetta che si allontanava sobbalzando sullo sterrato che portava via dal villaggio, in mezzo a nuvole di polvere rossastra, sempre più piccole; finché non scomparve all’orizzonte.

La storia non è magistra

di niente che ci riguardi.

Accorgersene non serve

a farla più vera e più giusta.

La storia non è poi

la devastante ruspa che si dice.

Lascia sottopassaggi, cripte, buche

e nascondigli. C’è chi sopravvive.

La storia gratta il fondo

come una rete a strascico

con qualche strappo e più di un pesce sfugge.

Qualche volta s’incontra l’ectoplasma

d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.

Ignora d’essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.

Gli altri, nel sacco, si credono

più liberi di lui.viii

E. Montale

Questo racconto è stato ispirato, oltre che dalle opere di Claudio Marini, dal ricordo del film Seduto alla sua destra, di Valerio Zurlini.



Umani cascami

Non c’è nessun giusto, neppure uno.ix

S. Paolo

Mombasa 1965

Faceva particolarmente caldo quel giorno a Mombasa: troppo, per incoraggiare qualunque movimento superfluo, anche minimo. Di conseguenza Elijah Klostermann sollevò malvolentieri perfino gli occhi stanchi dal banco di lavoro. Si aggiustò gli occhialetti da presbite sul naso sudato e squadrò il nuovo venuto con curiosità mista a scetticismo.

“Come ha detto di chiamarsi, scusi?” chiese con aria mite al tipo che aveva disceso con timorosa circospezione i pochi gradini del seminterrato dove era situato il suo laboratorio di tassidermia, e che, per la titubanza mostrata nel rivolgergli la parola, non poteva certo definirsi un probabile cliente.

“Morgan. Mi chiamo Fletcher Morgan. Ho detto che sono felice di incontrarla e che mi hanno parlato molto di lei, Herr Klostermann” ripeté l’uomo appena entrato. Era biondo e prestante.

A Klostermann parve pure abbastanza giovane, poco oltre la trentina. Diede un’occhiata al biglietto da visita che quello gli tendeva, lo prese e lo posò con cura vicino alla rastrelliera dei ferri.

“Ah, davvero? Ma chi e perché?” domandò l’imbalsamatore, ricominciando ad infilzare con un ago le penne remiganti per cucirle sulle ali di un falco pellegrino, intorno ad un invisibile rivestimento di cuoio sottile già trapuntato all’interno del corpo mummificato del volatile.

“È stato due anni fa, a Pretoria. Feci la conoscenza di un certo Philippe Joubin o Joubert, adesso non ricordo bene, che di mestiere aveva fatto il cacciatore nel Congo. Affermava di averla conosciuta a Salisbury e che le sue parole gli avevano cambiato la vita: pensi che diceva di essersi messo a fare il pittore !”

Elijah Klostermann distolse l’attenzione dal proprio lavoro e la rivolse interessato all’uomo che aveva davanti a sé e che, in piedi, lo guardava dall’alto in basso ma con cortese deferenza. Poi si concentrò di nuovo sulla sua opera e disse in tono assertivo:

“Joubert. Si chiamava Philippe Joubert. Sí, me lo ricordo. Fu quattro anni fa, nel ‘61, che ci conoscemmo. Era appena scappato dalla regione congolese del Kasai, subito dopo la scomparsa di Lumumba e la secessione del Katanga, dove raccontava di aver assistito ai massacri più sanguinosi che avesse mai visto e di non riuscire a credere che gli uomini potessero arrivare a tanto. Sosteneva che solo i negri erano capaci di simili crudeltà. Allora io mi sentii in dovere di narrargli qualcosa del mio passato, per non lasciarlo in un tale equivoco.” Klostermann, dopo aver pronunciato queste parole, interruppe ancora il lavoro e si mise a fissare il suo interlocutore, chiedendogli:

“Che ci fa lei adesso a Mombasa, qui davanti a me, signor Morgan?”

“Vede, Herr Klostermann…”

“Mi chiami Elijah, il nome che mi diede mio padre. Mi sentirò più a mio agio, Fletcher” lo interruppe l’artigiano, soffiando sulla superficie del bancone e spolverandola con una mano, sbarazzandosi così dei frammenti di piume che svolazzarono sul pavimento.

“Sí, certo. Grazie, Elijah… Beh, insomma – riprese Morgan, – io rimasi colpito dalla personalità di un tipo come Philippe, che si era rivolto a me come suo possibile mediatore per un trasferimento qui in Kenya, proprio a Mombasa; e non le posso nascondere che anche le frasi allusive che dedicava a lei, senza però mai scendere in particolari, mi incuriosirono un bel po’. Volevo incontrarla: che tipo d’uomo poteva essere colui che era riuscito a cambiare così un altro uomo? Un cacciatore d’occasioni e d’animali, con pochi scrupoli e molto pelo sullo stomaco, che diventava in un paio d’anni un artista pensoso e turbato. Intendevo conoscere l’autore di una simile trasformazione.”

“Non sono mai gli uomini a cambiare gli altri uomini: sono le circostanze. Qualche volta i paesi, con i loro paesaggi e presagi. L’Africa è riuscita dapprima a cambiare me, e poi Joubert. Solo un americano come lei – è americano: non è vero, Fletcher? – si potrebbe porre il problema. Voi preferite cambiarli, i paesi!” Klostermann chinò gli occhi nuovamente sulla sua opera; rivoltò la carcassa del volatile e cominciò ad assemblare le penne caudali. Un odore di formaldeide si sparse per il piccolo ambiente, sospinto dal ventilatore che ruotava lentamente sul soffitto.

“Forse è così, Elijah. Ma per il tempo che frequentai Joubert, non lo vidi mai con un pennello in mano; tanto meno vidi qualche suo dipinto. C’era un po’ di mistero in lui.”

Il tassidermista sollevò lo sguardo, rimettendosi nuovamente a posto gli occhiali, e accennò un breve sorriso quando iniziò a spiegare:

“Joubert le disse la verità. Quando io lo conobbi, Philippe sentiva l’esigenza incontenibile di raccontare al mondo tutto ciò a cui aveva assistito nel Congo, con i propri occhi. E siccome non sapeva scrivere una parola, gli suggerii di usare la matita e il pennello, o qualsiasi cosa avesse ritenuto opportuna. Però aggiunsi che i suoi resoconti, chiamiamoli così, non sarebbero stati completi se avessero riguardato solo ciò che i suoi, di occhi, avevano visto. Avrebbe dovuto imparare ad esprimersi anche per gli occhi degli altri. Allora sí che sarebbe potuto diventare un artista vero.” Le dita dell’uomo intrecciavano adesso abilmente lembi di pelle disseccata, cuoio e piume, spennellando ogni tanto queste ultime con una sostanza ambrata, dall’odore pungente.

“Il Grande Cacciatore Bianco, come gli indigeni chiamavano Philippe – continuò Klostermann, – aveva visto per la prima ed unica volta delle pitture proprio lì, in Congo, e in età più che matura, quando lo stregone del villaggio dove viveva gliene aveva donate alcune, tra quelle tradizionali della sua tribù. Poi lui le aveva abbandonate, prima della fuga da quel paese, affidandole ad un ragazzino; almeno così mi raccontò. Ma mi disse anche che ne aveva sempre continuato a subire il fascino magico e misterioso.

“Gli dissi che lo invidiavo; anch’io avevo sempre voluto raccontare agli altri quello che i miei occhi avevano visto, ma non ne ero mai stato capace. Così lui si offrì di farlo per me, ma io posi una condizione: che mi stesse ad ascoltare e che alla fine del mio racconto riflettesse sul fatto che solo i negri potessero essere capaci di orribili massacri, e non anche i civili uomini bianchi. Non è così, americano?” concluse Klostermann, scrutando con un’occhiata ironica Morgan il quale, a disagio, abbassò per un attimo lo sguardo.

“Per un po’ di tempo ci frequentammo spesso: io fornii a lui l’ausilio della mia memoria, ed egli diede a me lo strumento della rappresentazione.” Il volto gli si era illuminato ed ora l’imbalsamatore guardava il proprio ospite con un sorriso sincero.

“Ma che cosa gli raccontò, se non sono indiscreto?” chiese l’americano.

L’espressione di Elijah Klostermann improvvisamente si rabbuiò ed il suo tono si fece duro nel rispondere:

“Non sono tedesco, come il mio cognome ha potuto farle ritenere. Io sono un povero piccolo ebreo polacco, esule in Africa da Cracovia e poi qui a Mombasa da Salisbury, quando anche lì agli inizi del ‘62 ha cominciato a tirare una brutta aria per quelli come me, in mezzo ai purosangue bianchi della Rhodesia.

“Ebbi la disgrazia di avere quarantacinque anni, un figlio di dodici, una moglie e un padre ancora in vita nel 1942, quando i nazisti erano padroni di quasi tutta l’Europa e cominciarono le deportazioni per la Soluzione Finale. Che cosa potrei aver mai raccontato ad un sincero aspirante pittore, signor Fletcher Morgan? Non ha mai sentito parlare dell’Olocausto?

“Siamo nel 1965: forse c’è già qualcuno che ne mette in dubbio la verità? Me lo dica. Perché, se così fosse, io potrei sempre ricominciare da capo il mio racconto. Finché vivrò. In ogni momento.”

La madre di tutte le barbarie

Fletcher Morgan guardò con una punta di compassione Elijah Klostermann e gli si rivolse con ancor maggiore riguardo chiedendo discretamente, ma parafrasando impercettibilmente il tono e le parole usati in precedenza dall’altro:

“Come è accaduto che lei si sia… che sia rimasto solo? Perché lei è solo: non è vero, Elijah?”

Klostermann sollevò la testa e Fletcher si avvide dell’improvviso immalinconirsi dell’ebreo e del luccichio umido apparsogli negli occhi.

“Non potei fare niente –  sussurrò sconsolatamente Elijah, scuotendo il capo. – Non potei mai fare niente. Neanche per mio figlio.”

L’ebreo distolse lo sguardo da quello di Morgan e prese a fissare la parete di fondo, come fosse uno schermo cinematografico.

“Ricordo ancora tutte le scene. E con la colonna sonora. I lampi dei proiettori delle camionette nella notte. Il bagliore dei fari delle locomotive che ci portavano via, tutti ammassati sui nostri escrementi; e la sete terribile dentro ai vagoni piombati durante gli interminabili giri viziosi della deportazione. Lo sferragliare dei convogli sulle rotaie. Lo schianto dei portelloni che si richiudevano. L’abbaiare furioso dei cani, il sibilo delle fruste e le urla delle donne separate dai propri figli. Il mio tese le mani disperato a sua madre chiamandola per nome e lei ebbe la forza di rispondergli calma e di suggerirgli di non allontanarsi mai da me, mentre la trascinavano via e le facevano brutalmente urtare le braccia e il viso che cercava di guardarci per l’ultima volta. Quel viso che, rivolto verso di noi conservò fino all’ultimo un’espressione dolce come quella di un ritratto di Vermeer. Fino all’ultimo.”

Klostermann tacque per qualche secondo nel silenzio interrotto dal ronzio delle pale del ventilatore e poi riprese:

“Dio, quanto deve avere sofferto! Lei che mi diceva sempre, negli anni felici, di come era contenta nel sentire la voce del nostro bambino rispondere ai suoi richiami per il pranzo. E anch’io non provavo gioia più grande di quando lo cercavo ansioso e lui dopo un po’ spuntava fuori da chissà dove e strillava ‘eccomi arrivo, sono qua!

“Un giorno, quando ormai eravamo stati portati tutti al campo di sterminio di Birkenau, lo vidi varcare a capo chino la porta nera della soglia di un capannone insieme ad altri ragazzini accusati di aver rubato delle patate. Io ero dietro una delle tante recinzioni di filo spinato che separavano le baracche dalle camere a gas. Mi avevano ridotto in uno stato tale che ebbi paura ; perfino di gridare il suo nome.

“Quella fu l’ultima volta che vidi mio figlio da vivo. Era la fine del ‘44 e mancava meno di un mese alla liberazione da parte dei Russi. Non aveva ancora quindici anni.”

“Come fa a ricordare tutto così… nitidamente?” chiese addolorato e stupito Morgan.

Elijah Klostermann continuò a fissare la parete al di là, senza rivolgergli lo sguardo nemmeno per un attimo, e proseguì:

“Poi alla fine della guerra, la folle logica dell’Olocausto, la madre di tutte le barbarie, mi impose lo strazio di vederlo di nuovo. Ne riconobbi il viso ed un braccio, ormai mummificati, che sporgevano da un osceno cumulo di cadaveri mentre, nelle condizioni io stesso di uno scheletro che ancora respirava, osservavo i russi costringere gli aguzzini superstiti a dissotterrare dalle fosse comuni quei corpi che non avevano fatto in tempo a incenerire nei forni. Per seppellirli finalmente in modo degno, ma soprattutto per filmare l’orrenda carneficina e trasformarla in prova giuridica contro gli sconfitti.

“A mio padre, appena arrivati ad Auschwitz nel ‘43, strapparono gli occhiali calpestandoglieli davanti ai piedi. Poi raccolsero la montatura dorata e la fecero sparire. Io ero a pochi passi da lui. Indossavamo ancora i nostri vestiti, anche se già ci era stato sottratto ogni effetto personale. Feci per avvicinarmi e prendergli la mano. Sapevo che senza i suoi occhiali da vista sarebbe stato comunque un uomo perso. Stavo per chiamarlo, quando il calcio di un fucile mi si abbatté sulla faccia spaccandomi la mascella e una voce infernale strepitò dietro le mie spalle. Credetti immenso il dolore, ma non sapevo ancora quello che avrei provato dopo. Mi rialzai, con una mano sulla bocca a trattenere il sangue, mentre lo portavano via urlando e strattonandolo perché si voltava per cercare di capire cosa avessero fatto a me. Lui, non lo rividi più.”

“Ma come può ricordare tutto così nitidamente?” insisté Morgan, con maggiore intensità.

Giudizio Universale

Elijah Klostermann parve risvegliarsi da uno stato di ipnosi. Scosse il capo e si strofinò l’indice sotto il naso, tirando su più volte. Poi si alzò dallo sgabello e si pulì le mani con il lembo inferiore del grembiule. Lo sciolse e se lo tolse di dosso, posandolo sul bancone, vicino al falco pellegrino ricostruito a metà e si sfilò gli occhiali.

Io vidi tutto questo – scandì lentamente l’ebreo. – Tutto questo ed altro. E lui lo fece.”

“Lui, chi? E che cosa fece?”

Io gli dissi di utilizzare qualsiasi cosa avesse ritenuto opportuna…”

“Elijah, ma…”

“… e lui mi parlò di una scena a cui aveva assistito sulla strada che percorreva insieme a tre ragazzini neri, per riportarli al loro villaggio nei pressi di Kizamba, prima di fuggire definitivamente dal Kasai. Forse solo qualche settimana prima di incontrare me, Morgan!”

“La prego, mi ascolti un attimo… Parla di Philippe?”

“Lui – proseguì imperturbabile Klostermann, – lui fu uno degli ultimi a vedere il corpo straziato di un martire… crocifisso e corroso a metà dalla morte e dalla bramosia affamata degli avvoltoi.

“Nonostante la cura che mio padre mise nell’impartirmi un’educazione religiosa, io non sono mai stato credente nel vero senso della parola; ma Philippe mi guardava disperato quando mi raccontò di questa sua esperienza, dopo che io gli avevo narrato tutti gli orrori delle mie, e credo che in quel momento egli cominciasse a credere, mentre io tuttora non ne sono capace.

“Mi guardava commosso e si rigirava il cappello nelle mani, passandosi ogni tanto le dita fra i capelli; diceva: ‘Sai, Elijah, che sensazione mi fece quel povero corpo disteso nella polvere davanti alla mia Land Rover? Quella di un rifiuto, di uno scarto, di un sottoprodotto di lavorazione della specie umana, di quella specie umana trionfante, quella che ha il denaro e il potere dalla sua parte, ma non la ragione e l’amore. Era un cascame, ecco cos’era! Un cascame umano! Ora so con che cosa rappresenterò la mia e la tua storia.’ Questo mi diceva. E quella visione non l’ha più abbandonato. Ecco perché…”

“Va bene: si tratta di Philippe Joubert. Ma che cosa fece, in nome di Dio?” quasi urlò Fletcher Morgan, mentre Klostermann continuava imperterrito, con voce sempre più emozionata:

“… lei, Fletcher, non riuscì mai a vederlo con un pennello in mano. Il pennello è fatto per la natura bella e incontaminata, per l’umanità buona e generosa… Ma quando mai? Quanto c’è di buono e generoso in quello che lui ed io abbiamo vissuto e visto? Gliel’ho detto, e mi dispiace che non l’abbia capito fino a adesso: lui fece quello che io vidi. Il suo fu un Giudizio Universale senza gli eletti! Dall’Acheronte fino all’Inferno della sua tradizione cristiana, ma senza passare per il Paradiso. Gli umani cascami non giungono mai in Paradiso. Sí, Philippe fece delle pitture! Una sola volta nella sua vita, prima di lasciare Salisbury qualche tempo avanti a me e scomparire; ma le fece. In pochissimo tempo, quasi di getto. E nessun altro, eccetto lui, seppe rappresentare in modo così – come dire? – adeguato il suo ed il mio dolore. E il dolore di quelli che verranno. L’Olocausto non finisce mai! Non ascolta la radio, non li legge i giornali, Fletcher? Non ricorda quel che è successo nel ‘56, in Ungheria e sulle rive del canale di Suez, tra popoli che hanno origini e tribolazioni comuni? Fu la celebrazione ritardata del decennale della fine della guerra o una splendida festa in onore di ogni genere di trafficanti? Come si può desiderare un futuro costruito sul sangue degli innocenti? E dove comincia e finisce l’innocenza? Non sa quello che è accaduto in Algeria, o che sta avvenendo nel Vietnam del Suddove non passa giorno che qualcuno si dia fuoco per protesta contro la guerra, come i monaci buddisti? Per non parlare dei massacri infiniti che insanguinano il Congo da qualche anno e che il nostro comune amico aveva conosciuto bene.”

Dopo un profondo sospiro Elijah Klostermann non riuscì a trattenere alcuni singhiozzi e piegò il capo in avanti, sopraffatto dai ricordi. Morgan gli si avvicinò e pose una mano sulla sua spalla, senza dire nulla.

“Grazie, Fletcher. Sapesse quante volte mi metto a piangere all’improvviso! Sempre da solo. Ormai ci sono abituato. Soltanto mentre lavoro non mi capita” disse Elijah quando si fu calmato un po’.

“Perché si è messo a fare l’imbalsamatore, e proprio qui a Mombasa?” chiese l’americano, più per allentare la tensione che per una reale curiosità.

Klostermann lo guardò con un sorriso. Aveva compreso la piccola ipocrisia dell’altro e gliene era grato.

“È più importante di quanto lei creda – spiegò, facendo finta di nulla: – ci sono creature così belle che è un peccato vederle svanire, e poi trattare le carcasse degli animali abitua al pensiero della fine. Propria e quella degli altri. Dà l’illusione che si possa sopravvivere, in qualche modo. Come un involucro senza più memoria.”

Fece silenzio, quasi a cercare suggerimento per le parole nel ritmico frusciare delle pale del ventilatore.

“Allora Salisbury… Mombasa… Qualunque altro posto… – riprese Elijah, dopo un momento in cui parve ricostruire mentalmente un ben più lungo itinerario. – Vede, Fletcher, credo che neanche uno dei sopravvissuti ai campi di sterminio si sia più sentito al sicuro, dopo ; da nessuna parte. Per quel che mi riguarda cercai di mettere la maggior distanza possibile tra me e la vecchia Europa.

“Ma ora venga. Forse sono stato rude con lei, che mi si è avvicinato con tanta gentilezza. Per farmi perdonare le farò vedere qualcosa che nessuno ha mai visto prima di lei, se avrà la bontà e la forza di seguirmi.” Così dicendo, Elijah Klostermann prese un mazzo di chiavi da una cassettiera posta vicino all’angolo del breve corridoio che si inoltrava nel retro della bottega, e lì dentro si incamminò insieme a Fletcher Morgan.

La Porta Nera

Si fermarono davanti ad una porticina. Klostermann aprì la serratura e l’anta girò cigolando sui cardini. Di nuovo un odore di formaldeide investì le narici di Fletcher Morgan. Si abbassarono tutti e due per oltrepassare la soglia di quello che aveva tutta l’aria di essere il magazzino del laboratorio.

Attaccate alle alte pareti laterali dell’ambiente in cui erano penetrati, molto più vasto di quanto le dimensioni della porta avrebbero potuto far supporre, c’erano decine di mummie di animali di tutte le specie e dimensioni impagliati a regola d’arte, tanto da sembrare ancora vivi e, i volatili, quasi sul punto di spiccare il volo.

Sulla sinistra vi era una specie di catafalco ricoperto fino a terra da un grande drappo di lino. A destra erano ammucchiati strumenti e utensili più o meno logori, insieme a recipienti e flaconi pieni in varia misura di liquidi dai colori più disparati. Nell’angolo a destra della porta, collocato al suolo, faceva mostra di sé un enorme e disordinato ammasso di filati di spessore, consistenza e colore diversi.

La parete di fondo era nascosta da un’ampia tenda di resistente tessuto cremisi, inanellata ad una sbarra di ferro che correva da una parte all’altra del locale, quasi all’altezza del soffitto.

Elijah si avvicinò al lembo destro della cortina e, afferratolo, lentamente prese a farlo scorrere nella direzione opposta, dischiudendo agli occhi di Fletcher Morgan uno spettacolo di tinte e fogge mai viste.

Sulla parete di fondo dal pavimento al soffitto erano sistemate, una accanto all’altra e in un ordine che sembrava seguire una logica narrativa, piccole e grandi tavole dipinte, caratterizzate da sbruffi di materiali e filati di risulta e da forme disuguali: alcune allampanate ed evocative, altre impregnate di colori vividi e avvinghiate su sé stesse nell’apparente, eterna circolarità di un ineluttabile e tragico destino.

Fletcher Morgan osservava a bocca aperta e stava per dire qualcosa allorché Klostermann, assunto un tono solenne, esclamò:

“Queste sono le opere di Philippe Joubert! E non si meravigli di vederle qui. Un pittore in fondo non fa che imbalsamare la realtà propria e quella degli altri, affinché la memoria non ne vada perduta. Esattamente come fa un tassidermista con gli animali più belli. Sapesse quanti esemplari di animali scomparsi ci sono là, attaccati su quelle pareti! In questo modo verrà conservato il ricordo del loro aspetto.

“Philippe utilizzò cascami di stoffe e materiali diversi per raccontare le sofferenze dei cascami umani che lui ed io incontrammo, e che noi stessi siamo diventati una volta sopravvissuti. Almeno io, sicuramente.

“E le carcasse dei miei animali non sono altro che cascami” concluse in un sussurro Elijah Klostermann, volgendosi a guardare Morgan.

L’americano si scosse e distogliendo lo sguardo dalla parete di fondo si voltò a sinistra, dove l’altro sembrava in attesa di qualche sua reazione.

“Non ci avrei mai creduto se me lo avessero raccontato – disse in tono estatico. – Ma quello che vedo, con tutto il rispetto, mi sembra ancora più chiaro e tragico delle sue parole e dei suoi racconti. Io vedo quella Porta Nera, e già so che è la soglia dell’anticamera delle docce dove migliaia di suoi correligionari furono sospinti…”

“Milioni” lo corresse Klostermann.

“… e poi – continuò immerso nelle sue considerazioni Morgan – l’Inferno, il Giudizio Universale dove non esistono gli eletti… e gli impiccati…”

“Alcuni venivano impiccati solo perché non avevano pronunciato forte e correttamente la parola ‘buongiorno’ in tedesco” sottolineò Klostermann, con lo sgomento e il rimorso di contarsi tra i sopravvissuti.

“E questo… Oh, mio dio! Questo rappresenta l’orrore della spoglia di suo figlio. Ma come ha potuto, Elijah?”

“Philippe capì. Io non credo nell’al di là, ma credo nell’insegnamento che la memoria tramanda. Forse altri uomini non commetteranno più una tale barbarie, pensando ai loro figli… O sono un ingenuo a crederlo?” si lasciò sfuggire Klostermann, fissando quasi provocatoriamente Morgan.

“Le sbarre delle prigioni…” elencò ancora Fletcher, senza raccogliere.

“È là dentro che ci torturavano; per un’inezia. E se eravamo fortunati.”

“La disposizione delle baracche, a Birkenau… In mezzo alla neve…”

“Questo era difficile. Come ha fatto ad indovinare?” ironizzò amaro Elijah.

“I fari del convoglio che si avvicina al binario…”

“Beh, questo era più facile. Continui. Lo vede che parlare con gli altri e ascoltare quello che hanno da dire aiuta a comprendere meglio i fatti!”

“La Ragazza con Turbante di Vermeer… Sua moglie!”

“Sí. Circondata da cascami. Prima che le fracassassero il viso sulla maniglia del vagone. Così come la ricordo quando ci guardò per l’ultima volta; nostro figlio e me!”

“Elijah, la smetta! Il suo è un angoscioso compiacimento.”

“No. Lei non ha capito niente. Voglio che tutto sia ricordato. Altrimenti le mie sofferenze non avrebbero alcun senso. Gliel’ho detto che non credo in nessun riscatto soprannaturale!”

“Basta, non ce la faccio più!” esclamò l’americano abbassando gli occhi.

Elijah Klostermann guardò con commiserazione Fletcher Morgan, ma continuò inflessibile:

“Allora proseguirò io. È lei che è venuto a chiedermi di Philippe Joubert e delle sue opere; delle frasi allusive che pronunciava sul mio conto! Ha detto ‘frasi allusive’, proprio così! Ecco a cosa alludevano… Guardi qui: questo è il fumo che usciva dai camini quando i forni funzionavano a pieno regime. È rosso, come il sangue di tutti quegli innocenti. E questo è quello che fui costretto a vedere, quando alcune guardie si accanirono con il calcio dei fucili su un mio compagno di baracca, esanime a terra: ma fecero bene, perché si era azzardato a chiedere una coperta, e invece tutti noi zitti ad accettare di morire dal freddo e di patire! Non sapemmo mai se stesse chiedendo quella maledetta coperta per sé o per il compagno di branda che sussultava e delirava per la febbre encefalica. Questo è il cappio realizzato con corregge di cuoio o con corde di pianoforte, a scelta del boia, perché strangolasse a rilento quei disgraziati che vi venivano appesi e che loro chiamavano ‘traditori del Reich’.

“Questa più grande, infine, è la Porta Nera attraverso la quale un giorno passeremo tutti. Come vede è ben più ampia e comoda di quella attraverso cui passarono mio figlio, mia moglie e mio padre!” A questo punto Elijah Klostermann si coprì il viso con le mani e si accovacciò, inginocchiandosi senza un lamento.

L’americano se ne va

Fletcher Morgan era scosso da un tremito profondo. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma fu ancora una volta sorpreso dalla reazione di Klostermann, il quale si rialzò in fretta ricomponendosi accigliato ed imbarazzato; poi lo prese per un braccio e, mentre lo riaccompagnava nel laboratorio chiudendosi la porta del magazzino alle spalle, gli disse:

“Sono dispiaciuto per essermi lasciato andare così. Ma un uomo nelle mie condizioni ha sempre paura di non farsi comprendere fino in fondo. E poi lei, Fletcher, è stato il primo occidentale a interessarsi e a discutere con me con un po’ di partecipazione, da quando sono qui a Mombasa. I negri, loro sí, mi parlano. Non sono disturbati da uno come me. Ma i negri è come se avessero ciascuno il proprio dio personale: che cosa vuole che gliene importi se io sono ebreo invece che protestante, eh?” Klostermann si interruppe per ridacchiare.

Morgan si accorse però che l’altro era ancora agitato. Decise di cambiare discorso e di chiedergli se avesse avuto nel frattempo notizie di Philippe. Era quella, tra l’altro, una delle ragioni per cui si era mosso da Pretoria ed aveva affrontato il lungo viaggio verso Mombasa.

“Elijah, la prego di non preoccuparsi per me. Piuttosto, ero convinto che sapesse darmi qualche notizia di Joubert, visto che lui era a conoscenza del suo trasferimento qui e che a Pretoria mi aveva contattato proprio per poterla raggiungere. Del resto il suo recapito mi fu dato da Philippe in persona.”

L’espressione di Klostermann si fece perplessa e la sua figura minuta si irrigidì.

“Sí, è vero – spiegò. – Lui era al corrente del mio indirizzo qui a Mombasa perché gliel’avevo comunicato io: quando ci conoscemmo, già da tempo stavo organizzando il mio trasloco in questo laboratorio. Ma Philippe era un uomo dalle decisioni improvvise, e per andarsene da Salisbury non aspettò la mia partenza, nonostante tra di noi ci fosse ormai dell’affetto. Tagliò la corda qualche settimana prima. Alla fine del ‘61 se ne andò, e di lui non ho saputo più nulla. Adesso, perché me lo ha detto lei, so che nel ‘63 si trovava a Pretoria. Vivo.”

“Forse prima o poi se lo vedrà ricomparire davanti, non è possibile? A volte ne parla come se fosse morto. E invece certi uomini non dovrebbero mai scomparire.”

“Con uomini come lui non si può mai sapere. Ad ogni modo, come ha visto, prima di andarsene mi consegnò tutte le sue pitture. ‘Le lascio a te – disse. – È come se le avessi fatte tu, coi tuoi racconti. Io non saprei neanche dove tenerle.’ Non pensavo che potessi ancora voler bene ad un essere umano; però, quando non lo vidi più nel mio negozio di cianfrusaglie, giù a Salisbury, per la prima volta dopo tanti anni si rinnovò in me il dolore causato dalla privazione della presenza di una persona. Anche per questo affrettai la partenza, e venni qui a mettere a frutto le mie conoscenze professionali, con il grosso e costoso carico delle sue pitture al seguito, utilizzando buona parte dei miei risparmi. Ma ne è valsa la pena. Le sue opere sono molto di più che un ricordo. E adesso, in qualche modo, sono riuscito ad attenuare la malinconia.”

“È bello quest’uccello che sta impagliando – osservò con ammirazione Morgan, al tacere dell’altro. – Quando ha imparato la tecnica della tassidermia?”

Klostermann, che aveva inforcato nuovamente gli occhiali e indossato il grembiule, riprendendo il lavoro seduto dietro al proprio banco, per un po’ non rispose continuando a incollare piume sulla parte anteriore del falco. Poi disse:

“Ad Auschwitz costrinsero alcuni di noi a fare i becchini. Io sono curioso e imparo molto in fretta. Il resto se lo può immaginare. C’erano dei gerarchi nazisti così fanatici che volevano essere imbalsamati, prima di essere seppelliti. Ecco perché mi permisero di sopravvivere così a lungo… Ma lasciamo perdere.”

“È vero, mi scusi” si affrettò a convenire Morgan.

Poi, dopo un paio di minuti di silenzio in cui si era soffermato a contemplare le abili dita dell’ebreo muoversi, l’americano disse con tono dispiaciuto:

“Beh, signor Klostermann è giunto il momento di separarci. Ho degli affari da sbrigare qui a Mombasa e domattina presto devo ripartire. Sa: carbone, petrolio e compagnia bella. Un mediatore come me è sempre costretto a mischiare piacere e dovere.”

“Ammesso che sia stato un piacere starmi ad ascoltare” disse Elijah scuotendo mestamente il capo.

“No. Non è stato un piacere. Ma può essere certo che non dimenticherò mai quello che mi ha raccontato. E io lo racconterò ad altri. Glielo prometto. Credo sia questo ciò che lei vuole di più.”

“Sí. Grazie, Morgan. Non sempre le immagini sono sufficienti. Il suo racconto si accompagnerà alle pitture di Joubert. E forse le sue parole, con i cascami di Joubert, salveranno ancora almeno una vita da qualche parte, ed eviteranno tante altre sofferenze. C’è probabilmente un Olocausto da contrastare dovunque.”

Fletcher Morgan si alzò dalla panchetta posta accanto al banco e strinse con vigore la mano a Klostermann, dicendo nell’accomiatarsi:

“Elijah, il mio indirizzo è stampato ben chiaro su quel biglietto che le ho dato! Veda di scrivermi. Pure se Philippe Joubert non dovesse più farsi vivo. D’accordo?”

“D’accordo, Fletcher” acconsentì Klostermann, con un sorriso.

Poi accompagnò l’ospite all’uscita dandogli dei colpetti affettuosi sulla spalla, mentre ambedue fissavano la bianca strada polverosa che univa la città vecchia al porto di Kilindini.

Dopo essere andato via dalla bottega e aver percorso una ventina di metri, Morgan si volse indietro verso Klostermann che era rimasto a guardarlo sulla soglia e disse ad alta voce:

“Vedrà che un giorno o l’altro Philippe ritornerà, quando meno se lo aspetta!”

“Di lui mi è rimasto molto. Spero che abbia cose più utili da fare che venire a trovare un vecchio ebreo. E la stessa cosa vale anche per lei! Addio, Fletcher!”

L’americano sbottò in una sincera risata e rispose al saluto agitando una mano. Riprese a camminare verso il mare, mentre Elijah Klostermann lo guardò finché si fu definitivamente allontanato e poi rientrò nel laboratorio per concludere la sua opera, mormorando fra sé e sé:

“Molto. Molto più di quanto lei immagini.”

Il giorno dopo

Di buon mattino Elijah Klostermann si recò all’ufficio postale con un pacco sotto il braccio.

Era rassegnato ad una lunga fila, ma quel giorno fu fortunato e alle dieci uscì dalle poste. Senza alcun pacco.

Alle dieci e trenta stava di nuovo nel laboratorio.

Faceva ancora più caldo del giorno prima e lui si sentì insopportabilmente esausto.

Le pale del ventilatore continuavano a girare sul soffitto ed Elijah le osservò per un bel pezzo, stropicciandosi le mani sul grembiule. Poi, lasciando gli occhiali sul banco, si alzò e raggiunse il corridoio. Prese le chiavi dalla cassettiera e tornò ancora nel magazzino.

Si avvicinò alla tenda cremisi che il giorno prima non aveva avuto il tempo di richiudere. L’afferrò per il lembo esterno e la riaccostò accuratamente, aggiustandola con ambedue le mani davanti alle opere di Philippe Joubert, celandole del tutto alla vista.

Girò il capo di qua e di là, per osservare alle pareti tutti i suoi animali impagliati.

Ce n’erano alcuni molto belli, ma tutti erano inesorabilmente morti.

Poi si diresse al catafalco, sollevò un lembo del tessuto che lo ricopriva e guardò al di sotto. A lungo.

Certi uomini non dovrebbero mai scomparire. Ripensò alle parole dell’americano.

Come i monaci buddisti nel Vietnam del Sud. Ripensò alle proprie parole.

Con un gesto lungo e meticoloso fece ricadere il drappo di lino e si spostò all’altro lato della stanza. Raccolse uno dei grossi recipienti che vi erano radunati. Lo aprì e ne versò tutto il contenuto sul pavimento.

Si sedette al centro della pozza e lasciò che il liquido intridesse a fondo il grembiule, i pantaloni, ed arrivasse a lambire il mucchio di cascami deposto nell’angolo alle sue spalle.

Adagio, per controllare il lieve tremore delle mani, prese una sigaretta dal pacchetto che aveva nella tasca della camicia e se la mise in bocca. Poi estrasse l’accendino e fece scoccare la scintilla.

Saigon 1975

Fletcher Morgan si arrampicò convulsamente insieme ad altri fuggiaschi, avventurieri, fotoreporter e falsi diplomatici incaricati d’affari, sull’ultimo elicottero alzatosi in volo dalla terrazza dell’ambasciata americana nel cielo in fiamme di Saigon, che stava per essere invasa dalle forze dei Vietcong.

Dopo meno di un’ora la bandiera statunitense fu ammainata e al suo posto sventolava quella del Vietnam del Nord. Ma Fletcher si sentiva ormai al sicuro, cullato dal possente rombo del Sikorsky da trasporto truppe.

Qualche giorno prima aveva preparato i bagagli e li aveva spediti in California tramite corriere espresso. Lui, che si era messo nel redditizio ramo degli armamenti, ne conosceva parecchi: sicuri ed affidabili, più o meno legali. Una volta tornato a San Diego, avrebbe sicuramente ritrovato tutto ciò che contava. Gli era costato un po’, ma era niente in confronto a quello che aveva messo da parte coi suoi traffici in quegli ultimi tre anni.

Un compagno di viaggio, mentre stava sistemando la sua borsa sulla reticella, fece rovesciare e cadere quella di Morgan.

Sul pianale del velivolo rotolò la sagoma spennacchiata di un vecchio falco pellegrino impagliato.

“Ehi, Fletcher, ma che ci fai con questo rospo? Te lo porti sempre appresso. Che è? Un portafortuna?” L’uomo rideva sguaiatamente, e urlava per contrastare il rumore del motore e le grida della ressa.

“Beh, mi piaceva – rispose Morgan a voce ancora più alta. – Per un po’ di tempo mi è piaciuto. Ma adesso mollalo al mitragliere. Digli che lo butti di sotto, in testa a qualche giallo. È solo un impiccio, ormai. E digli che prenda bene la mira!”

“Okay!” fece l’altro raccogliendo l’animale imbalsamato e sbarazzandosene.

Fletcher si sistemò meglio sui risicati sedili di tela; lì dentro c’era un caldo infernale e la più piccola mossa richiedeva uno sforzo intollerabile: faceva fatica a muovere perfino un braccio per accendersi una sigaretta. Ma dopo qualche gomitata a destra e a sinistra ci riuscì, e aspirò felice una boccata di fumo.

Ne aveva passate, e viste, di cotte e di crude durante i suoi viaggi. Questa aveva l’aria di essere stata tra le peggiori, ma a lui in tanti anni era cresciuta una pelle bella dura; e ce l’aveva fatta.

Sí. Ce l’aveva proprio fatta.



Falco Pellegrino

1 Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione.3 Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso. 4 Ciascuno esamini invece la propria condotta e allora solo in se stesso e non negli altri troverà motivo di vanto: 5 ciascuno infatti porterà il proprio fardello.

S. Paolo ai Galati, VI

Ritorno a Mombasa

Fletcher Morgan arrivò a Mombasa con un volo noleggiato proveniente da Pretoria il 13 novembre del 1965, due giorni dopo la dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Rhodesia, perché era lì che un emissario lo avrebbe cercato per un trasferimento clandestino di armi, in vista della probabile guerra civile. Inoltre aveva intenzione di tornare a far visita dopo cinque mesi a Elijah Klostermann, un anziano imbalsamatore che abitava nella parte vecchia della città, il quale per primo gli aveva parlato dei dipinti di Philippe Joubert, il cacciatore belga scappato dal Congo quattro anni prima per sfuggire alla repressione di Ciombè.

Morgan aveva conosciuto Joubert per ragioni di lavoro a Pretoria nel ’63, quando questo gli aveva raccontato di come avesse deposto il fucile e impugnato il pennello proprio grazie alla conoscenza, avvenuta due anni prima a Salisbury, di Elijah Klostermann un ebreo scampato allo sterminio nazista, rifugiatosi in seguito definitivamente a Mombasa, presso il quale voleva effettuare un trasporto.

Tutto ciò aveva reso Fletcher Morgan estremamente curioso: a detta di Joubert, le parole di Klostermann lo avevano trasformato in un altro uomo. E anche lui era rimasto molto impressionato dalla personalità del vecchio, quando l’aveva incontrato la prima volta a Mombasa, appunto cinque mesi prima, per sapere qualcosa di più su Philippe Joubert, il quale nel frattempo era improvvisamente sparito.

Quindi, oltre alla prospettiva di concludere un lucroso affare con i rhodesiani, due erano le ragioni che lo avevano spinto a tornare a Mombasa ed entrambe facevano riferimento ad Elijah Klostermann. La prima consisteva nel fatto che dopo la precedente visita a Mombasa, si era visto recapitare da parte di questo un pacco contenente un magnifico falco pellegrino impagliato e lui voleva sapere il perché di quello strano dono. La seconda ragione si basava sulla sensazione che il vecchio tassidermista non gli avesse raccontato tutto di Philippe Joubert, nel loro primo incontro. Infatti ricordava bene come Klostermann, mentre gli parlava, distogliesse di frequente lo sguardo, per rivolgerlo su un grosso mobile mimetizzato sotto un telo di lino, situato accanto alla parete della sala nella quale aveva appeso i quadri che Joubert gli aveva lasciato in custodia. E certi atti involontari non sfuggivano a Fletcher Morgan abituato, nelle sue mediazioni d’affari non sempre leciti, a intrattenere con estrema accortezza personaggi dalla dubbia reputazione.

Nelle mani di Hadiya

Fu percorrendo la via verso la casa di Klostermann, che il biondo americano incrociò una giovane donna nera avvolta nel tradizionale kanga. E quello che la donna sorreggeva nelle mani fu per lui più evidente di un’illuminazione improvvisa. Così si avvicinò, rivolgendolesi in swahili con atteggiamento estremamente rispettoso: «Onorata Donna, il mio nome è Morgan, Fletcher Morgan. Leggo sul mji del suo kangaWema hauozi’, ossia che ‘la gentilezza non è mai sprecata’ con lei, perciò le chiedo gentilmente: da dove proviene l’oggetto che regge nelle mani?»

Gli occhi della donna scintillarono sul bel viso scuro, che risaltava ancora di più tra i lembi del velo rosso che lo incorniciava, e la sua bocca turgida ebbe un tremito. La donna si immobilizzò senza indietreggiare di un passo, rimanendo completamente muta ma fissandolo intensamente senza sorpresa, come se conoscesse già quell’uomo che le si era parato dinanzi all’improvviso. Quindi si abbassò sulle lunghe cosce fasciate dal kanga che ne rivelavano l’origine masai e appoggiò al suolo con delicatezza l’oggetto che aveva tra le mani, accostandolo alla gamba destra per sostenerlo mentre si rialzava lentamente.

«Onorata Donna…» provò a dire Morgan con lo sguardo attento, rivolto a terra verso l’oggetto.

«La smetta di apostrofarmi in questo modo ridicolo e mi parli pure in inglese: lei è americano, no? Il mio nome è Hadiya e mi guardi negli occhi come faccio io!» lo interruppe in tono fiero la donna.

«Ebbene Hadiya» si corresse subito Morgan in inglese, «io ho riconosciuto quest’oggetto e conosco anche l’uomo che adesso lo possiede. Sono venuto a Mombasa per rivederlo, e mi chiedo come mai quest’uomo glielo abbia affidato, lui che è così geloso dei quadri che custodisce. Potrebbe accompagnarmi da lui?»

Infatti Fletcher Morgan rammentava benissimo l’oggetto che Hadiya aveva appoggiato al suolo: era una delle opere di Philippe Joubert che aveva visto cinque mesi prima, conservate da Klostermann nella sua casa.

Sotto tutte le bandiere

«Onorato Signor Morgan» disse ironicamente la donna, «potrò accompagnarla alla casa di Elijah Klostermann, ma non da lui: il signor Klostermann si è ucciso dandosi fuoco cinque mesi fa e mi ha lasciato custode di tutti i suoi beni. Comprese le opere di Philippe Joubert.»

Fletcher Morgan spalancò gli occhi sorpreso e disse: «Mi dispiace molto. Davvero. Anche lei conosce Philippe Joubert? Come è possibile? È sparito alcuni anni fa.»

«Se mi aiuta a tenere il quadro, sarò ben lieta di dirle come stanno effettivamente le cose mentre ci avviamo verso la casa di Klostermann», rispose Hadiya guardandolo e sorridendo amichevolmente.

«Prima di suicidarsi, Elijah ebbe il tempo di parlarmi di lei e delle domande che gli aveva rivolto su Philippe Joubert» riprese la donna mentre ricominciavano insieme il cammino. «Mi raccontò dell’ammirazione dimostrata da lei per i quadri di Philippe, ma anche dell’apprezzamento per la sua abilità di tassidermista: fui io a suggerirgli di inviarle l’ultima sua creatura, un meraviglioso falco pellegrino. Credo che sia stata la sua ultima azione prima di farla finita. Dovrebbe essergli grato: in fondo uno dei suoi estremi pensieri è stato per lei.»

«È vero, Hadiya. L’ho ricevuto qualche mese fa: è bellissimo e lo conservo gelosamente, come il ricordo delle sue parole sagge. Volevo rivederlo proprio per riascoltare un vecchio maestro; ma ormai, a quanto pare, è tardi…»

«No, forse non è tardi; almeno per rivedere alcune cose rimaste nella casa di Klostermann che potrebbero farla riflettere su di sé e sulla sua vita.»

«Perché pensa che voglia riflettere sulla mia vita? Io volevo solo rivedere Elijah e sapere qualcosa di più su Philippe Joubert.»

La donna si fermò e si volse a guardarlo dicendo in tono sibillino: «In genere quando si vuol rivedere una persona che si è vista una volta sola, lo si fa perché si desidera sentire ancora le sue parole, e quelle parole si ascoltano per imparare qualcosa di nuovo che possa influenzare nel bene la nostra vita. Non si può vivere sempre sotto tutte le bandiere.»

Fletcher Morgan contraccambiò lo sguardo intenso della donna e le domandò in tono incuriosito: «Perché? Cosa sa di me esattamente, Hadiya?»

«Vede Fletcher, dopo il suicidio di Klostermann ricevetti una lettera da parte di Philippe Joubert, che evidentemente ne era venuto a conoscenza…»

«Allora Philippe Joubert è ancora vivo!» la interruppe Morgan «Sa come potrei rintracciarlo?»

«… nella quale, tra le altre cose» continuò Hadiya ignorando l’interruzione, «mi chiedeva che fine avesse fatto un grosso mobile lasciato nel magazzino della casa di Klostermann, quello dove teneva le sue pitture più recenti. Io gli risposi ad un fermo posta che mi aveva indicato, dicendogli di non temere: Elijah Klostermann si era dato fuoco alla maniera dei bonzi, ma aveva fatto in modo che le fiamme rimanessero circoscritte e divorassero solo il suo corpo. La casa non aveva subìto danni: tranne una grossa macchia scura sulla parete, tutto il resto, comprese le sue opere, era rimasto intatto.»

«Le chiedo ancora: cosa sa di me e di Philippe Joubert?» insisté Morgan.

«Philippe Joubert non si è mai allontanato troppo, e soprattutto mi ha parlato molto di lei.»

«Beh, cosa può averle detto? In fondo ci eravamo conosciuti per un trasporto di suppellettili che avrei dovuto organizzargli qui a Mombasa, proprio a casa di Elijah Klostermann.»

«Joubert è molto perspicace e avrà capito che lei non si occupa soltanto di trasporti di suppellettili.»

Nel pronunciare questa frase in tono allusivo, Hadiya si fermò davanti ad un portoncino malmesso, prese una chiave da un borsello mimetizzato fra le pieghe del suo kanga e disse: «Ecco, siamo arrivati!»

Infilò la chiave nella toppa, fece scattare due volte la serratura e spinse la porta sui cardini cigolanti, aprendola direttamente sul piccolo laboratorio di Klostermann, parzialmente illuminato dalle finestrelle in alto. Morgan portò istintivamente una mano sulle narici per attenuare l’intenso odore di formaldeide mescolato a quello di bruciato che ancora ristagnava nell’ambiente chiuso. Hadiya entrò decisa all’interno, gli tolse dalle mani il quadro di Philippe Joubert e lo appoggiò di fianco ai gradini dell’ingresso.

«Mi segua Fletcher» esclamò Hadiya prendendogli la mano, «le farò vedere qualcosa che Klostermann non ha fatto in tempo a farle conoscere: la seconda fase della carriera pittorica di Philippe Joubert!»

Touché

Hadiya, dopo aver percorso un angusto corridoio, condusse Fletcher nel magazzino dove, sulla grande parete di fondo, erano fissate le opere di Joubert che lui aveva già visto. Le dolorose parole che Klostermann aveva pronunciato allora nel descrivergliele riecheggiarono una volta di più nella sua memoria. Stava ancora dando un’occhiata intorno, quando si avvide che la donna si era spostata alla sua sinistra e si era messa davanti a lui, dando le spalle a quel grosso mobile che tanto aveva impegnato lo sguardo riluttante di Elijah cinque mesi prima.

«Quando organizzò il trasporto» spiegò Hadiya rivolta a Fletcher, «lei fece trasferire qui le prime opere di Philippe Joubert, quelle fatte a Salisbury e date poi in custodia qui a Mombasa ad Elijah Klostermann. E Klostermann, dagli individui che aveva incaricato della faccenda, capì subito che lei, signor Morgan, non si occupava soltanto di traslochi di suppellettili, come del resto l’aveva capito anche Joubert.»

«Mia cara Hadiya, sono tempi difficili questi: tempi in cui non si può guardare tanto per il sottile», disse lentamente e a bassa voce Fletcher Morgan.

«Certo. Anche Joubert e Klostermann lo sapevano. Comunque, avendola conosciuta di persona entrambi, credo si siano fatti l’idea giusta di lei. Così a me, che li frequentavo in amicizia da tempo, l’hanno descritta molto bene e mi hanno detto che, qualora si fosse fatto rivedere, avrei dovuto accoglierla senza pregiudizi. Anch’io abito nei dintorni e vengo spesso qui a prendermi cura delle cose di Elijah. Quindi sapevo che, se lei fosse venuto, prima o poi l’avrei incontrata. Devo dire che, dopo averla conosciuta di persona anch’io, probabilmente hanno avuto ragione tutti e due nel descrivermela così bene.»

Fletcher Morgan guardò fisso la donna, esitando un po’ prima di dire: «Hadiya, il suo parlare è molto libero, così come il suo comportamento con un estraneo e per di più uomo. Come è possibile in un paese e in una cultura come la sua? Lo dico con rispetto.»

«Ho vissuto e studiato in Gran Bretagna, poi appena laureata sono tornata a condividere le mie conoscenze col resto delle persone del mio paese, che mi capiscono e mi rispettano, anche se non condividono del tutto la mia educazione occidentale. È quello che dovreste fare tutti voi bianchi, quando venite in Africa. Se veniste solamente per desiderio di conoscenza… Lo dico con rispetto» rispose Hadiya, sottolineando con un sorriso l’ironia dell’ultima parte della frase.

«Touché!» scherzò Fletcher Morgan, sorridendo anche lui e inchinandosi leggermente.

Non un giorno senza massacro

A questo punto Hadiya con un gesto rapido del braccio sollevò il telo di lino che celava il mobile, mettendo in mostra una serie di scomparti nei quali si intravedevano le tavole dipinte da Joubert. Poi si voltò verso Morgan e disse: «Questi qui sono altri quadri di Philippe Joubert, che di quando in quando è sempre ritornato a Mombasa a trovare il vecchio Elijah per portargli le opere che man mano continuava a realizzare. Anche dopo la morte di Klostermann, Philippe è venuto alcune volte a trovarmi collaborando a sistemare la casa di Elijah un po’ come se fosse il suo museo personale, ma non gli piace che si dica a qualcuno dove si trova. Compreso lei, Fletcher. Per questo Klostermann è stato reticente con lei: aveva paura che gli potesse sfuggire qualche indiscrezione sul conto di Philippe.»

«E perché mai?» l’interruppe Morgan «Sono stato in buoni rapporti con tutti e due.»

«Vero. Ma Philippe Joubert diffidava di lei. Intendiamoci, non della sua persona; ma di quello che lei rappresenta: anche Joubert è stato, come lei, privo di scrupoli e ha militato sotto tutte le bandiere, però un giorno è cambiato completamente, ripudiando tutto il male del suo passato dinnanzi agli eccidi avvenuti proprio nel Congo, che lui riteneva la sua seconda patria. Lei, Fletcher, per Philippe rappresenta quello che è stato e quello che potrebbe tornare ad essere, perché nessun cambiamento è definitivo e non sono mai gli uomini a cambiare altri uomini: sono le circostanze. E, come lei dice, questi sono tempi difficili.»

«Ma che possibilità ha un trentenne intermediario come me di influenzare un uomo maturo come Joubert?»

«Joubert è convinto di quello che lui è e fa adesso, però uno come lei, giovane, bello, e che si avvia a diventare molto ricco potrebbe essere un termine di confronto troppo allettante, visto che anche lui è stato bello e trentenne come lei, e i fucili rendono molto più dei pennelli, soprattutto quando stanno dalla parte sbagliata.»

«Sarò franco con lei, Hadiya» disse Fletcher Morgan, distogliendo lo sguardo dalla donna e avvicinandosi allo scaffale delle pitture per sfiorarle quasi soprappensiero. «Mi devo incontrare nei prossimi giorni con un emissario della Rhodesia per trattare una grossa partita di armi. Io non so fare altro nella vita. Mi piacerebbe che qualcuno mi insegnasse ad agire diversamente. Finora ci hanno provato solo Philippe Joubert ed Elijah Klostermann; ma con scarsi risultati.»

«Philippe dice che non passa giorno senza un massacro in qualche parte del mondo, e che molti di questi massacri vengono perpetrati in nome di una bandiera. Così lui ora si è messo a dipingere bandiere: bandiere stravolte e insanguinate. Qualche volta riesce ad andare di persona nei posti dove avvengono dei massacri, dipinge le bandiere coinvolte e le porta qui. Sapesse quante ne ha dipinte, finora! C’è sempre un massacro, da qualche parte.»

Hadiya concluse l’ultima frase con la voce incrinata dall’emozione e si volse per togliere dagli scaffali alcune tavole che raffiguravano le bandiere di Philippe Joubert. Tutte erano rappresentate deformate e, agli occhi di Fletcher, alcune sembravano decomporsi e dissolversi, altre sanguinare proprio come aveva detto Hadiya. Morgan, dopo averle guardate con attenzione, alla fine distolse lo sguardo dalle tavole che Hadiya gli aveva deposto davanti, per dirigerlo con delicatezza verso la donna e disse: «Presumo che questo sia il massimo di quanto lei mi possa dire riguardo a Philippe Joubert. Spero comunque che lei ed io non siamo i soli a vedere queste opere.»

«No, signor Morgan» spiegò Hadiya con orgoglio. «Come ha constatato quando mi ha incontrata, spesso porto le opere di Philippe in giro per farle vedere agli abitanti dei dintorni, soprattutto ai bambini e ai giovani, che mi ricambiano con decine di domande su quello che il povero Elijah Klostermann e Philippe Joubert hanno passato e sugli stermini a cui hanno assistito. Cerco si spiegare loro il significato e soprattutto il messaggio di pace che quelle opere comportano e devo dire che esse sono più efficaci di tante parole. I maestri veri non comunicano soltanto con le parole, lo fanno anche con cose che possono sembrare soltanto dei doni a perdere, ma sono doni che in realtà ci legano molto di più che un semplice rapporto di gratitudine. Quei doni presuppongono che noi si sia capaci di donarli a nostra volta ad altri, anche quando gli autori di quei doni non saranno più tra noi.»

«Quindi farà vedere anche gli animali impagliati realizzati da Klostermann. Ricordo che ne aveva decine nel suo laboratorio. Pure quelli mi sono sembrati, come dire… dei lasciti!» disse Morgan.

«Certo. Elijah affermava che ci sono creature così belle che è un peccato vederle svanire, e poi trattare le carcasse degli animali abitua al pensiero della fine. Propria e quella degli altri. Dà l’illusione che si possa sopravvivere, in qualche modo. Come un involucro senza più memoria. Queste erano le sue esatte parole, a proposito della sua concezione dell’arte della tassidermia.»

«Sì, me lo ricordo» confermò Morgan e fece una pausa. Poi, come colpito da un improvviso pensiero, continuò: «Mi ha detto che fu lei stessa a suggerire a Klostermann di inviarmi quel falco pellegrino che aveva appena finito quando io me ne andai la prima volta. Scoprire perché lo fece è una delle ragioni che mi hanno spinto a venire di nuovo qui. Lei che ne pensa, visto che non posso più chiederlo direttamente a lui?» Il tono di Fletcher Morgan si era fatto più pensieroso.

«Klostermann le spedì il falco poche ore prima di suicidarsi. La sera precedente mi venne a trovare per parlarmi di lei e di come volesse in qualche modo lasciarle un ricordo, una testimonianza. Presumo sia stato uno di quei doni di cui ho parlato prima», spiegò Hadiya in tono vago.

Il falco pellegrino

«Insomma, perché mai Elijah Klostermann mi avrebbe regalato quel falco impagliato?» ribadì Morgan in tono leggermente spazientito. «Sia sincera. Lo so che c’è qualcosa di più

«Fletcher» disse con dolcezza Hadiya sfiorando la mano di Morgan, «il falco pellegrino è un nobile animale ma il suo istinto ancestrale è quello di predare, come tutti i rapaci. Per noi è simbolo di coraggio e di determinazione ma anche di schiavitù, come chi è costretto incoercibilmente dalla sua natura a ripetere sempre le sue azioni, anche quando sa che dovrebbe scegliere diversamente. Lui ci prova, ma non lo fa perché quella è la sua natura e, nonostante i suoi migliori propositi, ci ricasca sempre. Elijah Klostermann ed io, anche se non la conoscevo, intendemmo metterla in guardia dalla sua stessa natura, se possibile.»

Morgan la guardò con un velo di rammarico e disse: «Questo vuol dire che fra poco io varcherò quella porta e mi dirigerò dall’emissario, dimenticando tutto quello che Elijah Klostermann e lei mi avete detto e soprattutto quello che Philippe Joubert ha cercato di dire a tutti noi con le sue bandiere insanguinate?»

«No, io voglio soltanto dire che si può vivere sotto tutte le bandiere, senza dimenticare mai però la nostra umanità e sapendo che ci sono dei limiti che non si possono mai varcare, neanche per la cifra di denaro più alta al mondo: quei limiti dovrebbero essere dei tabù per tutti gli uomini. E la guerra è uno di questi.»

Hadiya tacque, lo guardò ostinatamente negli occhi e poi gli disse: «Fletcher, lo so. La sua è una attività difficile. Può venire a Mombasa quando le pare ma, se vuole incontrarmi di nuovo, la prossima volta deve avere le mani pulite e avere sopito tutti i suoi spiriti malvagi nella carcassa di quel falco pellegrino. Il mio fu solo un suggerimento spontaneo, ma credo sia questa la ragione profonda per cui Elijah Klostermann glielo abbia regalato: lui aveva compreso bene la sua natura predatoria e accompagnò il suo ultimo dono a lei col suo ultimo messaggio a tutti noi: immolandosi col fuoco. Per mettere sull’avviso tutti noi dall’incamminarci su una strada che porta al suicidio, in un modo o nell’altro.»

«Spero che si sbagli, Hadiya. Mi piacerebbe rincontrarla, quando tornerò a Mombasa. Senza troppi rimorsi nel cuore!» Fletcher Morgan nel dire le ultime parole allungò una mano ad accarezzare il viso di Hadiya che non si ritrasse e gli sorrise.

«Se ritornerà e mi cercherà ancora» disse Hadiya con una sfumatura d’affetto nella voce, «vorrà dire che grazie a Klostermann, a Philippe Joubert e anche un po’ a me, lei è cambiato davvero. Allora quel giorno io indosserò un kanga sul cui mji sarà scritto Kawia ufike, ‘Meglio tardi che mai’!»

Due giorni dopo

Due giorni dopo un biondo straniero americano uscì dall’emporio situato all’incrocio tra Rogers Street e Old Kilindini Road, soffermandosi un po’ sulla soglia a guardare il cielo terso dopo giorni di nuvolosità e a respirare gli odori inebrianti delle spezie, provenienti dal mercato di Biashara Street poco distante. Espose compiaciuto il viso alla brezza e ai profumi, poi si allontanò alla ricerca di un taxi, in direzione dell’aeroporto.

All’interno del negozio in una saletta riservata, seduto su un divanetto di bambù accanto ad un minuscolo tavolino di legno intarsiato, un uomo corpacciuto dall’evidente ascendenza boera, pieno di efelidi e dai radi capelli rossicci, era rimasto silenzioso a fumare nella penombra un sigaro, osservato con distaccata curiosità da un inserviente nero che spazzava l’altra ala del negozio destinata agli acquirenti, rinfrescata a malapena da un vecchio ventilatore a pale cigolante dal soffitto.

L’afrikaner si domandava cosa avesse voluto intendere l’americano, che l’aveva appena piantato in asso da solo nel negozio, quando, dopo avergli restituito un’ingente caparra e detto «Mi dispiace, amico. Stavolta non se ne fa niente», gli aveva ripetuto «Kawia ufike, kawia ufike, kawia ufike!» a voce sempre più alta; e poi sorridendo se n’era andato, aprendo e richiudendo la porta del negozio dietro di sé con tale garbo da far risuonare appena la campanella d’ingresso penzolante dallo stipite.

Enrico Smith

Il racconto è stato ispirato dalla visione delle ‘Bandiere’ di Claudio Marini

Enrico Smith

ivMalcom X, dal discorso tenuto a Detroit il 14 febbraio 1965; pubblicato in Contro il potere bianco, Manifestolibri 1995; p. 40 e segg.

vMalcom X, uomo politico americano (Omaha, Nebraska, 1925 – New York 1965) attivista e leader del movimento dei Black Muslims. Venne assassinato poco prima di prendere la parola in un’ennesima manifestazione ad Harlem. Le indagini si fermarono ben presto e i mandanti ed esecutori dell’attentato rimasero sconosciuti.

viPatrice Lumumba, nato a Katako Kombé nella provincia del Kasai nel 1925, fu il primo ministro del Congo ex belga dopo l’indipendenza (30 giugno 1960), fu ucciso in circostanze misteriose nel 1961, dopo la sua destituzione e la consegna alle forze secessioniste del Katanga, avvenuta il 5 settembre 1960.

viiMoïse Ciombe, uomo politico congolese (Musumba, 1919), fu a capo della repubblica secessionista del Katanga (11 luglio 1960), dove maggiori erano gli interessi delle potenze occidentali, opponendosi per lungo tempo, con un esercito di mercenari, all’opera di unificazione perseguita dal governo centrale congolese, subito dopo l’indipendenza.

viiiEugenio Montale, dalla poesia “La Storia”; in: Montale 41 Poesie, Arnoldo Mondadori Editore, I Miti Poesia, febbraio 1996; p. 62.

ix S. Paolo, Lettera ai Romani; 3, 10.