“Ciò che io sono è un nulla; questo procura a me e al mio genio la soddisfazione di conservare la mia esistenza al punto zero, tra il freddo e il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine, tra il qualche cosa e il nulla come un semplice forse” 1
Séren Kierkegaard
Testa con cane
Un vecchio cane nero ha oltrepassato la linea di mezzeria ed è andato ad accucciarsi stremato sul bordo opposto della via. Si guarda impaurito intorno, meravigliato di essere sopravvissuto, ancora una volta, all’attraversamento di una di quelle strade larghe che i bipedi solcano a tutta velocità, rinchiusi nel ventre di quegli animali di ferro che hanno misteriosamente addomesticato, senza dar loro neppure del cibo. Poi ha incominciato a leccarsi insistentemente le zampe; un po’ per asciugarle, un po’ per riscaldarsi. Ha sbuffato due o tre volte, si è acciambellato appoggiando il muso sulle estremità posteriori, ha chiuso gli occhi e si è assopito.
La testa di un uomo si è rizzata leggermente da dietro il guardrail; il suo sguardo si è fatto attento e la mano destra è corsa rapidamente sul bordo superiore della barriera, afferrandolo per sostenere il corpo nel sollevarsi da terra. Il cane è a pochi metri e lui può ascoltarne il soffio regolare del respiro nel sonno profondo. L’animale è probabilmente sopravvissuto ad una giornata di stenti, coronando il sogno di un riposo tranquillo e sazio, dopo aver attraversato una strada a scorrimento veloce, nella più completa oscurità come epica conclusione. Ma che ci fa lui là, in piena notte?
Come ci è arrivato su quella strada? Da solo o ce l’ha scaricato qualcuno?
China il capo tra le mani sulla sommità del guardrail e sente sulla fronte il freddo umido del metallo. Poi cerca almeno di ricordare il suo nome.
Socchiude gli occhi per qualche istante e il buio della memoria gli restituisce soltanto i margini pallidi di una stanza spoglia, una poltrona bianca e l’eco di una risata.
Trittico con colore rosso
Quell’uomo non era suo padre: stava reagendo troppo sguaiatamente. Inarcava indietro il capo chiudendo gli occhi; derideva sghignazzando; prolungava la sua risata come supremo atto di disprezzo volgare, spalancando la bocca enorme
Quell’uomo non poteva essere suo padre. Chi mai potrebbe essere condannato ad avere un così tremendo ricordo del proprio padre? Eppure, dove aveva visto quel faccione brutale ed insensibile se non nella sua vecchia casa, in quella stanza illuminata da un unico assurdo globo bianco, dove quella persona, che tutti conoscevano come suo padre, trascorreva pochi momenti della giornata; e solo per urlare, rinfacciare, imbestialirsi, percuotere e commiserare chi non la pensava come lui?
Poi un bel giorno una donna vestita di rosso, stanca delle continue violenze, se n’era andata via da quella casa, portandosi dietro la figlia più piccola.
Lui ricordava bene quella figura di schiena, i lembi del cappotto svolazzanti per la fretta di lasciarsi dietro le spalle quell’inferno, nella paura di ripensarci e di non averne mai più il coraggio.
La ricordava, perché quella era la figura di sua madre e aveva abbandonato anche lui. Lì, da solo.
L’aveva vista andarsene dalla soglia di casa dando la mano alla sorellina: quella era l’ultima visione che era riuscito a conservare della madre.
Era stato per anni ad attendere che almeno la sorella ritornasse, e spesso l’aveva sognata apparire di nuovo sulla porta di casa, ma la risata triviale del padre cancellava ad ogni risveglio quell’illusione.
Perché sua madre l’aveva lasciato solo? Un lavoro che poteva sostenere una donna ed una bambina di dieci anni, non poteva mantenere anche un adolescente?
O forse sua madre aveva avuto paura che lui sarebbe cresciuto troppo somigliante a suo padre?
Figura seduta su poltrona bianca
Come in tante altre simili occasioni, stava ad osservare l’uomo davanti a lui, ancora in attesa di una parola risolutrice.
Lui ora guadagnava bene e si era potuto permettere di andare in analisi già da alcuni anni. Ma l’altro non lo guardava neppure negli occhi, come sempre, e intratteneva un muto dialogo con la mano che teneva la sigaretta, accesa non appena lui aveva smesso di parlare. Anzi sembrava arrovellarsi non nel cercare una soluzione possibile ai suoi drammi personali, ma nel trovare le parole adatte a congedarlo senza troppa scortesia, per l’ennesima volta.
Poi il tizio, che gli stava di fronte seduto su una poltrona bianca, aveva cominciato a parlare a ruota libera.
Lui non aveva una gran cultura, però fino a lì sapeva arrivarci.
Quello, ripetendo la solita solfa, gli aveva detto di come le violenze fisiche e psichiche, e bla… e bla…, subite da parte di suo padre nel corso degli anni, e bla… e bla…, lo avessero reso dapprima succube, e bla… e bla…; poi, dopo la morte del genitore, colmo di rimorsi inconsci. “Guardi, che questo non gliel’ho mica detto”, l’aveva interrotto lui.
“Che cosa non mi ha detto?”, aveva chiesto con sufficienza l’altro.
“Che mio padre è morto. Anzi, è ancora vivo. E vegeto!”
“Ah, ma allora è tutta un’altra questione!”, aveva esclamato rassegnato lo psicanalista.
E stavolta, dopo che ebbe sorriso, il dottore lo aveva guardato dritto negli occhi, spegnendo con solennità la sigaretta.
Figura con blue-jeans Levi’s
“Signor Leroy, lei mi è simpatico. Perciò le dirò che il dottore non è poi un gran dottore. Ci sono altri metodi per riacquistare una certa tranquillità, oltre a quelle schifezze di pillole che il dottor Paxton le ha sbrigativamente prescritto.”
Ecco, mi chiamo Leroy. Scott Leroy. Almeno questo sono riuscito a ricordarlo.
“Vede, io sono l’autista del dottor Paxton, e gliene ho riaccompagnati di clienti, a casa! Oh sì, se gliene ho riaccompagnati!”
Chi continuava a parlargli era un uomo muscoloso dal cranio rasato e dai caratteristici occhiali scuri, che non promettevano nulla di buono. In ogni caso il tono della voce pacato lasciava supporre che in qualche modo sapesse il fatto suo. Per di più aveva continuato ad orinare come se nulla fosse, infischiandosene del suo malcelato imbarazzo, quando se l’era trovato davanti sulla soglia del bagno dello studio dello psicanalista.
Ora mi ricordo anche qualche altra cosa. Vicinissima alla mia tempia sinistra, vedo e sento una grossa goccia fioccare inesorabile, in continuazione dal soffitto, da cui inoltre pende un aggeggio che sembra una telecamera puntata proprio verso l’orinatoio. Il suono ritmico di questo sgocciolio mi appare stranamente familiare.
Per un attimo è come se mi riportasse alla memoria un analogo rumore pulsante, ancora più remoto e spaventoso.
“Bene – aveva proseguito l’uomo -, quando quei clienti li riporto a casa mezzo sconvolti, ho parlato con loro abbastanza da capire che in fondo quello che vogliono tutti è solo un’altra possibilità. Vogliono ritornare a quel punto zero che gli permetta di ricominciare. Vorrebbero un’altra identità. Purtroppo, creda a me, quando ci si imbarca in certe situazioni, gli antidepressivi non bastano.”
L’autista si era diretto al lavandino e stava ora sciacquandosi le mani.
“Se uno potesse ricominciare tutto, da qualche altra parte e senza eccessivi problemi – aveva ripreso a dire l’autista -, non crede che la smetterebbe d’impasticcarsi e di confessarsi con un estraneo che gli spilla soldi in continuazione?”
Ora il pelato lo stava fissando dritto negli occhi, da dietro le lenti scure.
“Vuole che la riaccompagni a casa io, signor Leroy?” aveva concluso, con una piega ironica sulle labbra.
Figura con specchietto retrovisore
Apro a fondo il rubinetto e l’acqua scroscia fin sopra lo specchio che ho sistemato dietro di me, per essere più accurato mentre mi rado a fondo la testa. La mia espressione è finalmente felice, entusiasta.
Bud mi ha regalato lo specchietto, dicendomi: “Mentre ti radi la testa, guardati alle spalle. È a questo che servono gli specchi!” ed è scoppiato a ridere.
Scott Leroy si era fatto riaccompagnare a casa da Bud Weiser, l’autista del dottor Paxton.
Ma prima di riportarlo sotto il portone, costui gli aveva fatto presente alcune cose.
“Non è facile tornare a casa con una nuova identità, ma non è nemmeno impossibile.” Bud, nel dire questo, si era tolto gli occhiali e li aveva posati sul cruscotto.
“Non sto parlando di una identità ricostruita a forza di pillole e sedute, sdraiato su un divano – aveva proseguito – parlo di una identità nuova, vera; come quelle che i servizi segreti affibbiano a certi personaggi, che così come sono non potrebbero nemmeno percorrere cento metri, prima di essere buttati vivi in un compattatore di rifiuti. Un’identità con documenti, domicilio, lavoro e annessi e connessi vari, tutti nuovi e inattaccabili. Ne ho visti, su nello studio dello strizzacervelli, di ossessivi compulsivi, nevrotici e schizofrenici, psicotici assassini o suicidi potenziali! Tutta gente che il dottor Paxton cerca di curare con pasticche e prediche. In cambio di tanti bigliettoni, s’intende. Ma gli unici che si sono ripresi davvero sono quelli che sono riusciti a fuggire e a rifarsi un’esistenza da qualche altra parte, mollando tutto alle spalle. E colui che li ha portati all’indirizzo giusto, è sempre stato il sottoscritto!”
Weiser si era voltato un attimo a guardarlo, mentre con il braccio sinistro appoggiato sul finestrino teneva con un dito il volante e con la mano destra si strofinava la superficie dei Levi’s sulla coscia.
“Non andrebbe anche a lei, Scott, una soluzione del genere?”
La mia faccia ride dallo specchietto retrovisore.
“Così conciato, solo suo padre potrebbe riconoscerla.”
È vero solo mio padre potrebbe riconoscermi.
Figura seduta con calze gialle
“Non si deve sentire troppo perplesso, signor Leroy, nel voler assumere una nuova identità. Molta della violenza che c’è in questa società deriva dalla mancata accettazione della nostra identità e Bud, che ne sa molto più di Paxton, gliel’avrà già spiegato molto bene, mentre lo portava qui da me. Se no, in fondo, lui che se ne farebbe di quei bicipiti e di quegli occhiali da bodyguard?”
L’uomo che aveva parlato gli stava seduto davanti, gesticolando con le mani lunghe ed ossute, spesso puntandogli contro un indice sputasentenze.
Quel tipo che mi parla indossa stravaganti calze gialle, siede anche lui su una poltrona bianca in una stanza disadorna. Una stanza dove l’unica nota di colore, oltre a quelle calze gialle, è un ampio tappeto liso.
La stanza di un appartamento situato in un anonimo agglomerato di periferia, dove mi ha condotto Bud Weiser.
“Le identità di tutte le persone che popolano il nostro paese – stava proseguendo l’uomo – sono realizzate rapidamente e a buon mercato, a partire dai pregiudizi e dalle violenze più o meno materiali che ci propinano dalla nascita, costringendoci ad estromettere dalla nostra vita non solo quello che volentieri crederemmo normale e bello, se ci fosse permesso, ma persino i nostri ricordi: questo fino all’età dell’adolescenza. Poi ci buttano in mezzo alla strada e quello che è fatto è fatto. Alcuni si accontentano, altri se ne fanno una ragione; altri ancora non si adattano e si ammalano, ma le medicine che la società gli fornisce, per mezzo di spacciatori più o meno legali, non li guariscono, perché la maggior parte di loro non sa che un’identità non si può avere da subito. Una vera identità si costruisce col tempo, con l’esperienza, con gli errori e soprattutto senza escludere nessuna possibilità dal nostro orizzonte; ma questa perseveranza bisogna impararla da soli, fin da quando si è giovani. Però la nicchia in cui vivono tanti è molto stretta, e pochi hanno il coraggio di allungare lo sguardo e di trovarsene un’altra.
“Così io, invece di spacciare droghe, ho deciso di fornire sottobanco, a chi lo desidera e proprio non ne può fare a meno, una nuova identità, pulita e vergine; un punto zero, come dice Bud, da cui ripartire alla grande.
“Questo le costerà un po’ perché io sono comunque uno spacciatore: uno spacciatore di identità, se così si può dire, ma corro lo stesso dei rischi. Però, dopo che sarà uscito da quella porta, lei sarà letteralmente un altro, a cominciare dal nome. Inoltre questo significa che dovrò muovere per un po’ di tempo qualche pezzo sulla scacchiera senza rispettare le regole, e mettere gli occhi e le mani in posti non consentiti; ma questo è un problema mio.
“Lei si dovrà preoccupare, per adesso, solo di assomigliare un po’ di più a Bud, diciamo. Così conciato, solo suo padre potrebbe riconoscerla. Se fosse vivo.”
“Ma mio padre è vivo, signor Daroux!” aveva interloquito Leroy.
Ecco, un altro frammento si aggiunge al puzzle che sto cercando di ricostruire: il tipo strano che mi ha fatto conoscere Weiser si chiama Daroux, Hector Daroux; è di origine francese e di professione fa il procacciatore illegale di identità.
“Be’, dei tipi strani come lei c’è poco da fidarsi, per la verità – aveva ribadito Daroux, dando un’occhiata interrogativa a Weiser, che assisteva in disparte al colloquio -; d’altronde, non do mai nulla per scontato, quando si tratta della sicurezza dei miei clienti. Farò comunque delle ricerche in tal senso, glielo assicuro. Nella mia professione è opportuno avere accesso ad informazioni di qualsiasi genere, anche le più riservate e protette. Un po’ come fa Bud con i pazienti del dottor Paxton…
“Lei intanto cominci col radersi il cranio. Non ne vale la pena, signor Scott Leroy?”, aveva concluso Hector Daroux con una risatina.
Figura nell’ombra
“Scott caro, non puoi continuare
così. Non
serve a niente
nascondersi al passato che ritorna. Quello te lo porti dentro e
neanche una nuova identità ti potrà far star meglio.”
Leroy era seduto accanto al termosifone e una figura in penombra gli carezzava una spalla, sussurrando piano quella che a lui pareva una favola tragica.
“Quando la mamma ed io ce ne andammo da casa, io ero troppo piccola per capire tutto. La mamma mi ripeteva spesso ‘Frances, un giorno torneremo da Scott, ma tuo padre no, non voglio più vederlo!’ e mi raccontava poi, con le sue parole sempre discrete, i tormenti che quell’uomo le aveva fatto passare. Ecco perché non ci hai più viste. Ma ora sono tornata e staremo sempre insieme.”
È mia sorella che parla; si chiama Frances. “No, Frances! C’è qualche altra cosa. Qualcosa che ancora mi sfugge. E io devo saperlo, anche a costo di andare a ritrovare mio padre, dopo tanto tempo!”
“Ma che cosa dici, Scott? Papà è morto. È tanto tempo che è morto! La mamma non ebbe il coraggio di rivederlo neanche in ospedale, e poi morì anche lei.”
Lei si chiama Frances e mia madre si chiamava Margareth.
Figura bianca con tappeto arancione
Stavolta Leroy c’era andato da solo da Hector Daroux.
Era salito in fretta su per una ripida scala viola, che dal pianerottolo centrale, ricoperto da un lurido tappeto arancione, portava ai piani superiori. Non aveva incontrato nessuno, comunque aveva evitato con cura di essere inquadrato dalla telecamera della sicurezza interna.
“Salve, signor Leroy!” l’aveva salutato Daroux, quando era apparso sulla soglia. Il procacciatore sembrava non essersi neanche mosso dalla posizione in cui l’aveva lasciato l’ultima volta che si erano incontrati. Portava ancora calze gialle.
“Sta molto bene tutto rasato. Se mettesse degli occhiali adeguati, sembrerebbe proprio una specie di Bud Weiser” lo aveva apostrofato l’ospite, accogliendolo con un gesto d’invito ad avvicinarsi.
“I capelli ricresceranno presto, Daroux; e io non voglio somigliare a nessuno”, aveva sbrigativamente risposto Leroy.
“Bene, questo depone a favore suo e della sua nuova identità!”
“Non voglio neppure una nuova identità!”
“Ma io ho cominciato già a muovere le mie pedine e a fare delle accurate ricerche; anche in archivi alternativi, diciamo così, Scott.”
“La pagherò ugualmente, Daroux; ma lasci perdere la procedura: ora voglio solo avere delle informazioni. I miei soldi saranno più che sufficienti per questo!”
“È vero; anzi ci guadagnerò. Ma su che cosa vuole avere informazioni?”
“Ha saputo qualcosa di mio padre? Mio padre è ancora vivo, vero?”
“Ahimè! Proprio no, temo ormai.”
“Cosa vuol dire, Hector?”
“Voglio dire che ormai dovrebbe farsene una ragione: sono trascorsi più di vent’anni da quando suo padre è stato assassinato.”
Scott Leroy era ammutolito e guardava con occhi spenti l’indice di Daroux, ancora una volta puntato contro di lui.
Adesso ricordo meglio: quell’uomo che sta reagendo troppo sguaiatamente non è mio padre. Inarca indietro il capo chiudendo gli occhi.
Spalanca la bocca enorme.
Quell’uomo non può essere mio padre. Chi mai potrebbe essere condannato ad avere un così tremendo ricordo di suo padre?
Ora metto a fuoco meglio la scena: sul pavimento c’è una macchia rossa che si sta espandendo.
“Per ridare un’altra identità ad un individuo, bisogna che costui abbia ben chiara la sua, per riuscire a conoscere da cosa vuole fuggire veramente. Io ho dovuto faticare non poco, per convincere il dottor Paxton a condividere con me almeno alcuni dei segreti professionali accumulati nei suoi riguardi, Scott. Lo vada a trovare, stenterà a riconoscerlo, ma è in via di guarigione e la lingua ancora ce l’ha.”
L’indice del procacciatore aveva continuato ad agitarsi verso di lui, mentre proseguiva: “Forse il dottore si deciderà a comportarsi da amico e le dirà tutta la verità. Io non l’ho trattato propriamente come tale, e comunque a me ha detto tutto quello che sapeva!” aveva concluso Daroux, con un ghigno sarcastico sul volto.
Figura sulle scale
Gli era costato molto: buona parte del suo orgoglio residuo. Ma si era deciso a ritornare dal dottor Paxton e a ripercorrere ancora una volta quelle scale come aveva fatto per tanto tempo, nel periodo della sua analisi.
Mentre stava risalendo il penultimo piano, aveva visto svolazzare nel vuoto al di là della ringhiera un foglio di giornale che scendeva verso il basso ballonzolando, come attaccato ad un filo invisibile. Così aveva fatto in tempo a distinguervi una foto innocente, come tante pubblicate sulle prime pagine dei giornali. Ma questa gli aveva esibito una somiglianza casuale, che andava al di là della quotidianità e lo aveva precipitato nel passato remoto.
Sono ancora piccolo e vedere sul giornale la mia foto insieme a quella di mio padre mi fa battere forte il cuore.
Un signore dietro una scrivania mi parla, con un distintivo in mano e una grossa pistola agganciata alla cinghia dei pantaloni. Mi ripete che devo dire la verità, perché se la dico tutti saranno più buoni con me.
Ma io non so cosa dire.
“Cosa le posso dire, signor Leroy?”
Il dottor Paxton era seduto sulla solita poltrona bianca, ma parlava lentamente e a bassa voce. Aveva il volto tumefatto. Un occhio era completamente chiuso e le labbra erano mostruosamente gonfie, tanto che a malapena riusciva ad aprirle per parlare. Inoltre aveva il braccio sinistro sospeso al collo e la mano completamente fasciata.
“A mia discolpa posso solo affermare che nei casi come il suo, quei casi che noi psicanalisti definiamo di rimozione fobica, cerchiamo di far pervenire il paziente alla verità gradualmente, perché è stato egli stesso a rimuoverla per tanti anni, ossessionato dalle proprie paure per le conseguenze di ciò che ritiene di aver fatto o di non aver fatto.”
A questo punto il dottor Paxton aveva sospirato, interrompendo il discorso. Successivamente lo aveva scrutato attentamente negli occhi. Infine, stimando si fossero venute a creare le circostanze opportune, aveva ripreso a parlare. A lungo.
Tre figure sulla soglia
Tanto tempo prima, un adolescente allampanato aveva sentito dei rumori e delle grida provenienti dalla camera accanto: aveva attraversato la soglia della sua cameretta, uscendone di corsa per bloccarsi raggelato su quella della sala da pranzo.
Sto scrutando dalla soglia. Vedo il corpo di mio padre rovesciato all’indietro sulla sedia. Ha la bocca completamente spalancata. Ma non per le sue solite risate di scherno. Ha la lingua tumefatta, e un rivolo di sangue gli corre lungo tutta la guancia destra. Abbasso lo sguardo e vedo il manico scuro di un coltello da cucina spuntargli dal centro del petto.
Io ho gli occhi gonfi di lacrime per il dolore e per la paura. Mi avvicino e sosto qualche attimo davanti alla mole corpulenta di mio padre; successivamente, mentre mi accingo a togliergli il lungo coltello dal cuore, mi pare di vederlo sobbalzare, ridere ancora una volta ed afferrarmi per il collo. Ma è freddo e rigido come un blocco di marmo, così continuo ad estrarre la lama, fino a che non è venuta fuori del tutto. Poi abbasso il coltello, osservandolo. Delle grosse gocce di sangue sgocciolano dalla lama e vanno a depositarsi in una macchia sul pavimento, che si allarga sempre di più con un orrendo pulsante stillicidio.
“Scappiamo, figlia mia! Perché sei ritornata indietro? Oh mio Dio, perché sei ritornata indietro? Non guardare, ti prego! Non guardare più!”
Queste urla di disperazione erano state emesse da una figura avvolta in un cappotto rosso, avvicinatasi anche lei sulla soglia, mentre abbracciava una bambina che già si era portata davanti alla soglia, qualche minuto prima.
Io mi volto a guardare indietro, cercando l’aiuto di qualcuno; ma vedo soltanto due figure uscire di corsa dalla porta di casa spalancata: una indossa un inconfondibile cappotto rosso.
Figura con monitor
Bud Weiser, come aveva fatto già tante volte in precedenza per carpire i segreti dei pazienti del dottor Paxton, si era nascosto nell’altra stanza e si era sistemato ad assistere a tutto il lungo colloquio tra Paxton e Leroy, davanti a un monitor. Aveva lasciato accesa la telecamera posta nello studio ed aveva inserito l’audio; così, ad ogni particolare scabroso che avrebbe appreso, si sarebbe eccitato malignamente sempre più e la sua bocca si sarebbe spalancata in una sconcia risata.
Come gli era accaduto già in precedenza, si era messo a sproloquiare da solo di fronte allo schermo.
“Gli sta bene a quello stronzo! Paxton ha patito nel fisico, era ora che pure il signor Scott Leroy sapesse come stanno realmente le cose e soffrisse ancora di più nell’anima.”
Però, stavolta, erano state queste le uniche parole che Weiser era riuscito a dire, prima di sprofondare assorto al cospetto della dolorosa scena che proveniva dallo studio dello psicanalista.
“Allora, chi ha ucciso mio padre, dottor Paxton?”
Leroy gridava, per esprimere tutta la sua rabbia e il suo scoramento.
“É possibile che non l’abbia ancora capito?” gli aveva risposto sofferente l’altro.
“Lo voglio sentire chiaramente. Lo voglio sentir dire dal mio psicanalista!”
“Fu lei, Scott! Proprio lei.”
Louis Paxton aveva alzato anche lui, per quanto gli era stato possibile, il tono della voce, e queste poche parole erano cadute come pietre nell’ammutolito silenzio che si era di colpo diffuso nello studio, mentre i due uomini si fissavano vicendevolmente, quasi a sostenere ciascuno il peso della propria verità.
“Fu la sua mano di adolescente a conficcare quella lama fino in fondo, nel cuore di suo padre.
“La polizia fece un ottimo lavoro – aveva continuato con voce più bassa il dottor Paxton – ; e così pure il giudice dei minori. Considerati i comportamenti e le responsabilità di suo padre in tutta la vicenda, per lei valsero tutte le attenuanti possibili ed immaginabili, e se la cavò con pochi anni di istituto correzionale; solo che lei poi ha dimenticato tutto, in un processo di rimozione progressiva, fino a giungere all’istanza imprescindibile di voler annullare la sua identità.
“Soltanto ora che sta cominciando ad accettarsi, i suoi ricordi stanno riaffiorando insieme alla verità” aveva affermato Paxton, con tono di voce tornato normale e quasi professionale. Scott lo aveva guardato a lungo con commiserazione mista a disillusione, senza proferire parola. Poi si era alzato dal divano su cui si era seduto, stavolta senza mai sdraiarsi, e aveva detto:
“Dottor Paxton, lei crede troppo nelle possibilità delle sue conoscenze. È vero che i miei ricordi stanno piano piano riaffiorando, ma certo non insieme alla verità. Quello che sto riportando alla memoria non corrisponde affatto a quegli eventi che lei mi ha riferito e che mi ha fatto vedere poco fa, riportati sui giornali dell’epoca. Lei li ha ricercati e conservati, nel lodevole intento di guarire una buona volta il suo paziente; ma la mia versione dei fatti è completamente differente. E quello che mi sta tornando in mente non sta scritto su nessun giornale, e nemmeno sulla sentenza del mio processo!
“Il mio punto zero – nel dire questo Leroy aveva alzato significativamente gli occhi verso la telecamera e gli era quasi sembrato di vedere Bud Weiser mentre esultava scompostamente – è ancora lontano. Ma ora so dove cercare e come arrivarci.”
Figura con tubi
Hector Daroux lo aveva ascoltato pazientemente, stavolta senza nemmeno puntare per una volta il suo indice. Poi, dopo essersi aggiustato i pantaloni su quelle sue orribili calze gialle, si era alzato dalla poltrona, aveva indossato il soprabito e l’aveva accompagnato alla porta, uscendo insieme a lui.
Si era chiuso l’uscio dietro le spalle e aveva detto in tono amichevole:
“Scott, lei dice di stare per trovare il suo punto zero. Bene, dove si trovi precisamente questo punto lo può sapere prima o poi soltanto lei; però io posso condurla in un luogo che, secondo me, gli è vicino parecchio, anche se la costringerà a tornare molto indietro nel tempo.”
Erano discesi in strada e Daroux l’aveva fatto salire sulla sua auto, conducendolo in uno degli edifici più grandi e più antichi della zona. Erano entrati per l’ingresso principale, mentre decine di persone salutavano con molta deferenza Hector Daroux, che evidentemente con i suoi metodi si era fatto rispettare anche lì; in poco tempo, e senza che Daroux avesse dovuto sbottonarsi troppo, avevano trovato ampio ascolto e il tipo giusto che li aveva guidati nei vasti locali dell’interrato.
“Vede, signor Leroy? È proprio qui – aveva detto Hector Daroux, indicando con un largo gesto del braccio le pareti ed il soffitto del locale – che ho fatto le più approfondite ricerche sul suo caso. In questo scantinato pieno di tubazioni, c’è l’archivio di quello che lei ha visto essere uno dei più importanti quotidiani del paese. Sicuramente quello che si appassionò di più al suo caso, e andò più vicino di tutti alla verità. Io mi sono fatto una certa idea su quello che le è capitato, ma sarebbe bene che si leggesse tutti i resoconti di quell’epoca, per farsene lei stesso una sua propria. Un’idea un po’ più adeguata, diciamo così, a tutto quello che ha passato. Alcuni giornalisti coraggiosi si espressero, all’epoca, cantando fuori dal coro; e leggere oggi i loro reportage e le loro indagini parallele potrebbe essere molto interessante per lei. Non so se ho reso l’idea, Scott, ma ho paura che molti dei suoi problemi non siano ancora finiti; e questo sinceramente mi dispiace, visto il concetto che mi sono fatto della sua lealtà: almeno per quel poco che l’ho frequentata, mi è sembrato molto meno tocco di tanti altri. Adesso, io la lascio qui a scartabellare tra questi vecchi giornali del periodo dell’omicidio di suo padre.
“Spero che quando avrà finito, si sarà fatto un’idea sostanziale di chi veramente avrebbe potuto essere stato. A commetterlo.”
Dopo aver pronunciato questa frase enigmatica, Daroux l’aveva guardato in modo indecifrabile. Poi sorridendogli e portandosi due dita alla fronte per salutarlo, era sparito. E lui era rimasto da solo nella penombra dei tubi e dei fogli di giornale.
Ancora una figura nell’ombra
“Frances, fosti tu o mamma?”
“Che vuoi sapere, Scott? Che stai dicendo?”
Leroy si era passato nervosamente una mano sulla bocca sospirando e poi aveva ripreso a parlare alla sorella con tono più deciso, fissandola intensamente.
“Voglio dire che avevi ragione tu: papà è morto, ma non morì in ospedale!
“Chi uccise nostro padre, Frances? Fosti tu o la mamma? Ho ricostruito finalmente la scena cruciale di quel giorno tremendo. Fino ad ora avevo sovrapposto due immagini, invertendone la sequenza; ma ora so chi vidi per prima sull’uscio di casa aperto!”
Un bel giorno una donna vestita di rosso se ne va via di casa, portandosi dietro la figlia più piccola. É mia madre Margareth con mia sorella Frances.
Ora ricordo bene quella figura di schiena, i lembi del cappotto svolazzanti per la fretta di lasciarsi dietro le spalle le violenze terribili di mio padre, nella paura di ripensarci e di non averne mai più il coraggio.
Io l’ho vista andarsene dalla soglia della porta di casa dando la mano a mia sorella, e quella è l’ultima visione che sono riuscito a conservare di mia madre.
Però non è l’unica visione. Prima ce n’è un’altra.
Sono stato anni ad attendere che mia sorella ritornasse e spesso l’ho sognata di nuovo sulla soglia di casa.
Perché io l’ho già vista davvero su quella soglia. Da sola.
“Immediatamente dopo essere uscite per abbandonare la casa, la mamma stava per ripensarci, vero? Allora tu sei tornata indietro di corsa. Hai suonato, io ti ho aperto e ti ho vista. Mi sono tranquillizzato, pensando che anche la mamma sarebbe tornata di lì a poco, ho lasciato aperta la porta di casa e sono tornato a studiare in camera mia. Poi ho sentito tutto quel trambusto e le grida in sala da pranzo e sono tornato lì a vedere che cosa fosse successo. E quello che ho visto non era solo papà, ma anche la figura di mia sorella che gli aveva squarciato il cuore con un coltello e con la forza di un irrefrenabile odio infantile. Quando mi sono avvicinato al corpo per estrarre la lama, la mamma ti ha abbracciata e ti ha trascinata via. Io mi sono voltato e vi ho visto, per l’ultima volta, attraverso la porta di casa mentre fuggivate; ma solo dopo che tutto era successo.
“Dimmi, Frances, la mamma ha sempre creduto che fossi stato io ad uccidere papà, vero? E tu gliel’hai lasciato credere, no? Come hai fatto a giustificare la tua mano insanguinata?”
“Le ho detto che mi ero avvicinata per toccare papà, dopo che tu avevi vibrato il colpo.”
“E lei ci ha creduto?”
“Forse ha voluto crederci.”
“Perché avete permesso che mi condannassero e mi avete lasciato da solo? Come hai fatto tu, per tutti questi anni?”
Frances non tenta neanche di rispondermi: sa bene che è l’unica risposta che non potrebbe mai darmi. Specialmente dopo la morte della mamma.
A questo punto Frances si era avvicinata talmente a Scott da insospettirlo.
Frances tiene il braccio destro nascosto dietro la schiena.
Io l’ho già vista un’altra volta in questa posizione e so già che cosa stringe in pugno. “No, Frances, ti prego, non farlo! Non farlo mai più!” aveva gridato Leroy, mentre si scansava per evitare il fendente direttogli contro, verso il centro del petto.
La sorella aveva urlato come un’ossessa avventandosi contro di lui, ma trovandosi all’improvviso senza bersaglio era precipitata in avanti, inciampando su sé stessa e stramazzando al suolo.
Frances è sdraiata bocconi a terra davanti a me, e dalla sua gola fuoriesce un denso liquido di colore rosso vivido. La rivolto su sé stessa e scorgo il manico scuro di un coltello da cucina che le si è conficcato nel collo. Io la chiamo, la chiamo; invoco il suo nome, ma i suoi occhi sono già completamente sbarrati. Impugno quel manico maledetto ed estraggo la lama velocemente. Un fiotto di sangue schizza dalla ferita e inonda tutta la mia faccia china su di lei. Lascio cadere il coltello e mi guardo le mani imbrattate. Sento la mia bocca emettere un grido forsennato e fuggo.
Sto correndo a piedi verso l’autostrada.
Punto zero
Il volto di un uomo lordo di sangue si è sollevato al di sopra del guardrail; il suo sguardo è di nuovo smarrito. Sente un rumore lontano, come quello del tramestio di gente che si avvicina.
C’è un cane a pochi metri da lui e può ascoltarne il soffio regolare del respiro nel sonno profondo e sereno.
L’animale deve essere sopravvissuto ad una giornata di stenti, coronando il sogno di un riposo sazio e rilassato dopo aver attraversato un’autostrada, nella più completa oscurità come epica conclusione.
Gli sembra quasi di invidiarlo. Come si può provare invidia per un animale?
Ma che ci faccio qui, in piena notte? Come ci sono arrivato su questa strada?
Ho creduto per un momento di aver ricordato tante e tante cose. Ma di nuovo tutto è ripiombato nella nebbia oscura della mia mente sconvolta. E ho la sensazione di aver compiuto lo stesso fatale errore per la seconda volta.
I rumori si sono fatti voci, voci di inseguitori: è me che stanno cercando?
Punto zero.
Cos’era il mio punto zero?
China il capo tra le mani, l’appoggia sulla cima del guardrail e sente sulla fronte il freddo umido del metallo. Poi l’uomo tenta ancora per una volta di ricordare il suo nome.
Racconto di Enrico Smith
1 S. Kierkegaard, Stadien auf dem Lebensweg, trad. SchrempfPfeiderer, pp. 246-47; citato in N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol.V, La filosofia del Romanticismo, pag. 193; TEA, ottobre 1999.